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ANDREA CARLONI
COME FU CHE SARO DIVENTÒ PESCATORE
“Così dunque morimmo noi tutti…
e
ancora i nostri corpi giacciono insepolti…
e
i nostri ancora non sanno, nelle case d’ognuno…
loro
che, lavato il sangue nero dalle ferite accanto a noi leverebbero il pianto,
ché
tale è il diritto dei morti.”
(Odissea,
libro XXIV, Omero)
Perché pescatore non era, ma figlio di
pescatore che nulla più pescava.
O meglio, sulla barchetta usciva una
mattina sì e una no, il padre, alle sei in punto, con la borsa con dentro
l’acqua e un po’ di pane raffermo rubato alle galline. Poi però di pomeriggio
sempre tornava piagnucolando, ‹‹vuota la borsa, vuota la rete, vuota la barca››,
stendendo le braccia al cielo e subito rannicchiandosi con la testa nelle mani,
quasi in attesa che da quel cielo minacciato qualcosa iddio gli scagliasse, ‹‹mandami
almeno la tua punizione, che io a casa non mi presenti anche oggi a mani vuote››,
e per quando strizzasse gli occhi, nulla si muoveva, ‹‹i ragazzi delle
pescherie neanche mi vengono più incontro››, tanto che lui ormeggiava a lato
del porto, così da non recare disturbo a nessuno e nessuno lo recasse a lui, ‹‹giusto
qualche seppietta incastrata nella rete, che se le porto al consorzio al
massimo rimedierò, più per compassione, un po’ di caffè e del burro vecchio. Ah, tutta colpa degli sbarchi, tutti quei
profughi che spaventano i pesci e smuovono le sabbie! S’era mai visto un
fondale tanto fangoso, scuro come quegli assatanati? Son barconi troppo pesanti
i loro per il nostro mare, i pesci non sono avvezzi e poi il sangue moro è
indigesto anche agli squali››, così concludeva scuotendo la testa e la barba
bianca tutt’intorno.
Però, per quanto non nulla si pescava, a
Saro sempre toccava pulire la barca la sera, dalla salsedine, dalle alghe, dai
denti di cane. Un lavoraccio, da sbrigare col coltellino e una spugnetta
rinsecchita, poi straccio e secchio per lavare dentro e fuori. Anche i remi
erano da scrostare e la rete da riparare, soprattutto quando pioveva e si
preferiva non uscire in mare. ‹‹Fatica tanta e il pesce manca››, canticchiava
stanco e felice, come solo i giovanotti riescono ad esserlo allo stesso tempo.
Quella era la riva sua, la spiaggia sua,
l’isola sua, quindi casa sua e, da quelle parti, i ragazzini come lui pensavano
che si nasceva e si moriva solo su quel pezzetto di terra e basta, che altri
non ve n’erano, per cui bisognava prestar fede, che la tua terra e il tuo mare
non potevano lasciarti morire di fame. ‹‹Però vallo a spiegare ai crampi nella
pancia, ai giramenti di capo in certe serate!››, tanto che un mattino provò
addirittura a mangiarsi le formiche in cucina, che però gli lasciavano un
saporaccio amaro da incollare la bocca, ‹‹anche se al porto dicono che sono
ricche di proteine››, Saro si rassegnava, ‹‹pazienza allora, alle proteine
rinuncerò, qualcosa d’altro mangerò››, e tornava a canticchiare i suoi allegri
giorni d’inedia.
Poi, uno di quei pomeriggi qualunque a
raschiare lo scafo, si sente ticchettare sui capelli e sulle spalle. ‹‹Le
allucinazioni addirittura? Piovono vespe?››, si chiede, ‹‹Oh no, tu guarda,
sono sassolini››, disse raccogliendoseli di dosso, ‹‹pungono come freccette!››.
Voltandosi e allungando lo sguardo,
si avvede di una specie d’ombra sotto il pontile. ‹‹Ehi chi è?››
Saro si ferma e s’accosta e vede come un
gran riccio, allungato, senza spini, con due macchie bianche in alto. ‹‹Non sei
un riccio, anche se lo sembri››, pensa, ‹‹sei umano sì, uomo, no, ragazzo, un
ragazzino. Sei moro! Ecco cos’è, è moro!››.
Quelle macchie gli lanciano, oltre ai
sassolini, un’occhiata malefica, e di sotto si digrignano i denti, pure con le
gengive sanguinose, come un cucciolo di dinosauro indispettito.
Saro gli s’avvicina delicato come una
lumaca e gli dice con la vocina timida e sorridente, per non spaventarlo, anzi
per benvolerlo, ‹‹io mi chiamo Saro e tu chi sei?››
Quello nulla intendendo, si agita e si
dimena, e trema zuppo dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa, con la maglietta
rossastra e i pantaloncini bluastri che gli si incollano alla pelle mora! Gli
fa tutta una serie di gesti per far intendere che muore di fame e che se non mangia subito, si mangia anche lui.
Saro singhiozza dallo spavento, poi si convince che
quel moretto doveva averne proprio un pozzo di fame, tanta più di lui e quindi
bisognava capirlo. ‹‹Però che fare?››, pensa, non ha da mangiare per sé,
figurarsi per il moretto che gli mugugna dietro.
Gli dice comunque, più per prender tempo
che per tranquillizzarlo, che gli porterebbe pure qualcosa, solo vorrebbe
sapere quel che preferisce, se i pesci, le carni, i frutti… Con certi rantoli e
smorfie, il moro gli fa capire che se non gli porta qualunque cosa
all’immediato, se lo spolpa vivo a partire dalle orecchie.
Ecco che Saro messo alle strette
obbedisce e parte a correre come il lampo.
Come fu che Saro diventò pescatore
è un racconto di Andrea Carloni
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