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GUIDO FARIELLO
LA RAGAZZA
CHE DORMIVA CON LA CAPRA
Era
lo stesso anno, quando capitò che la mamma di Salvatore si ammalasse di una
fastidiosa malattia causata dal freddo, con febbre e stato di debilitazione.
Il
medico condotto venne varie volte a casa; raccomandò di stare a letto; di non
strapazzarsi; di bere soprattutto molto latte.
C’era,
però, un grosso problema, poiché il latte non c’era. Nella sperduta borgata non
c’erano negozi dove si vendesse il latte.
Il
papà s’interessò. Gli dissero di rivolgersi a un contadino che abitava non
molto distante dalla loro casa. L’agricoltore, fu riferito, coltivava un
piccolo appezzamento di terreno lontano dall’abitato dove, forse, aveva delle
capre che, probabilmente, producevano latte.
Salvatore
fu subito incaricato lo stesso giorno, verso l’imbrunire, di andare a comprare
il prezioso alimento.
La
casa che gli avevano indicato era chiusa: l’aspetto era orribile; le mura
vecchie e cadenti.
Bussò
timidamente con le nocche della mano destra sul legno, vecchio e scrostato, del
portone.
Gli
rispose la voce di un uomo, come se fosse stato disturbato nel sonno, benché
fosse appena calato il sole.
Dopo
un po’, qualcuno spostò un asse di legno all’interno, e la porta si aprì.
Apparve
un uomo di mezza età, alto e robusto, di carnagione tendente al bruno, con un
cappello in testa in condizioni disastrose, barba non rasata da diversi giorni,
occhi molto stanchi e un naso appuntito e arrossato. Era a piedi scalzi.
Indossava un paio di pantaloni verdognoli, con abbondanti incrostazioni di
terra, dal quale fuoriusciva una camicia, che originariamente doveva essere
chiara, con vistosi buchi all’altezza del petto e della pancia. Il suo viso, in
particolare la bocca, era segnato da screpolature probabilmente derivanti da
lunga esposizione al sole e al vento.
All’interno
non riuscì a vedere niente poiché era buio.
L’uomo,
forse, girò una chiavetta al lato dell’infisso, e una debole luce poté,
malamente, ravvivare una scena che lo fece rimanere senza parole: decine, forse
centinaia di piccoli animaletti nerissimi correvano in diverse direzioni.
Salvatore,
dapprima non si rese conto; poi realizzò che si trattava di scarafaggi,
disturbati dall’improvvisa, sia pure scarsa, illuminazione.
Fu
colpito da un odore forte di stallatico in decomposizione.
Dietro
la persona che aveva aperto, c’era della paglia sparsa per terra dalla quale
sembrava provenire un calore insopportabile.
Sul
giaciglio era sdraiata, su di un fianco, una giovane donna vestita con una
gonna lunga di colore scuro, una camicia dello stesso genere, con un grosso
fazzoletto nero annodato sulla nuca che le ricopriva i capelli e parte della
fronte. La camicetta era leggermente aperta e lasciava intravedere un seno non
pronunciato.
La
donna lo guardò. I suoi occhi grandi, con iride scuro contornato da un bianco
perlaceo, emanavano una luce vivida, messa particolarmente in evidenza dal
quasi buio della stanza.
Gli
era sembrato che la ragazza fosse molto giovane; poco più che
un’adolescente. Era sveglia, ma non
emise alcun suono.
Accanto
alla ragazza, supino, un bambino sembrava profondamente addormentato; anche il
piccolo appariva vestito e con delle grosse scarpe alte ai piedi.
Appena
dietro alla donna e al bambino, che giacevano sul pagliericcio, un asino e una
capra erano in piedi sulle zampe. Entrambi legati, con una corda abbastanza
corta, a una trave verticale poco distante dal muro retrostante.
In
un attimo, la visione attivò una reazione sorprendente nella sua mente mai
verificatasi prima. Fu come se osservasse il fotogramma iniziale di una scena
cinematografica proiettata nel futuro, in un dramma con protagonisti che
subivano eventi ineluttabili, muti e rassegnati. In un solo istante, il suo
cervello registrò la conclusione d’intere vite vissute passivamente in
privazioni e sofferenze.
L’uomo che aveva aperto la porta lo guardò con aria
interrogativa senza aprire bocca.
Percepì
un atteggiamento ostile, e fu preso da una sensazione di disagio.
Cercò
di superare la confusione interiore. Non riusciva a trovare appropriate parole
di spiegazione. Si limitò a mostrare il piccolo recipiente di alluminio che
teneva nella mano destra, e gli spiccioli che serrava nel pugno della sinistra,
pronunciando, sconnessamente, le parole latte, mamma, malata.
Così
facendo lo guardò negli occhi. Erano grandi, scuri su un fondo di un bianco di
madreperla, molto luminosi.
Forse
fu la vista del denaro o, forse, il suo farfugliamento: l’uomo sembrò intenerirsi; si girò e sparì verso l’interno della
stanza, senza proferire parola, lasciando la porta aperta.
Ricomparve
dopo qualche istante con una brocca di terracotta. Dal recipiente versò qualche
bicchiere di latte nel bricco che egli sorreggeva con cura. Afferrò, poi, i
soldi; chiuse la porta; e scomparve senza alcuna parola.
Ritornando
a casa con il prezioso alimento, pensava e ripensava alla situazione appena
vissuta; rimuginava, soprattutto, sulla figura del bambino addormentato; lo
conosceva bene; aveva quattro o cinque anni.
Per
causa sua, il bambino, un giorno, aveva pianto.
Si
chiamava Donato, e girava per i vicoli e le piazzette; lo trovavi dappertutto;
voleva sempre giocare con i più grandi; partecipava alle loro discussioni;
interveniva con domande e proposte; era molto arguto.
Aveva
la pelle del colore del miele molto liscia al tatto. I suoi occhi erano uguali
agli occhi della ragazza e dell’uomo
nella casa con la capra e l’asino; ti fissavano divertiti e impertinenti. Aveva
i capelli abbastanza lunghi, folti, neri e ondulati. Era alto rispetto alla sua
età. Anche le unghie delle mani erano lunghe e orlate di nero in punta.
Il
volgo diffondeva ciarle maligne sui suoi congiunti: ripeteva che non aveva il
papà e che la mamma era matta.
Il
piccolo essere lo incuriosiva specialmente per l’abbigliamento che era sempre
lo stesso sia nella stagione calda sia nella stagione fredda.
Aveva
un paio di calzoncini corti, tenuti su da un’unica bretella, messa di traverso.
Una maglietta, che per il lungo uso era diventata di un colore indefinibile, e
che presentava numerosi buchi. Ai piedi un paio di grosse scarpe chiodate,
senza calze, alte fino al polpaccio, rugose, con buchi sotto le suole. Erano
sicuramente di una misura molto più grande del suo piede, dello stesso colore della
terra, appartenute di certo ad altre persone prima. Avevano molti anelli di
chiusura; però ne erano utilizzati solamente due, con un pezzetto di spago di
grosso spessore.
Nella
brutta stagione, il bambino indossava, sopra la maglietta, un maglione di lana
rosso molto sdrucito e con diversi pertugi; le maniche, essendo molto più
lunghe delle sue braccia, gli riparavano le mani; erano usate, con ampi gesti
rotatori, anche come provocatoria e innocua arma di difesa.
La
cosa, però, più originale dell’abbigliamento di Donato erano i suoi calzoncini:
erano cuciti e sprovvisti di bottoni davanti; di conseguenza non sarebbe stato
possibile fare la pipì senza toglierli. Perciò, la sua mamma aveva escogitato
un efficace stratagemma: aveva praticato, al posto dei bottoni, un piccolo buco
dove, perennemente, era in bella vista il sesso del bambino; così, i naturali
bisogni liquidi potevano avvenire, quasi automaticamente, durante l’intera
giornata.
La
mamma adolescente aveva precorso, di molti decenni, le future strategie
commerciali e pubblicitarie delle grandi multinazionali dei pannolini
assorbenti per bebé.
Donato,
comunque, con il suo piccolissimo pene sempre in vista, era simpatico, rideva
ed era contento.
Rincasando,
con il latte recuperato, si faceva domande e si dava risposte:
«Perché
la gente dice che Donato non ha il papà?»
«Io
stesso l’ho visto nella casa!»
«E
poi, perché dicono che la mamma è matta?»
«A
me è sembrata tanto piccola e remissiva!»
«E
poi, non hanno forse tutti e tre gli stessi occhi scuri e luccicanti su fondo
bianco?»
Un
giorno Salvatore camminava sul ciglio della strada sterrata che portava alla
sua casa. Donato correva incontro alla sua direzione, con quegli enormi
scarponi simili a dei vecchi stivali delle sette leghe. Rideva e gridava
contento, come il solito.
Lo
stava per oltrepassare, quasi sfiorandolo.
In
quell’attimo, il suo piede sinistro si spostò e irrigidì fino a incrociare uno
degli scarponi del piccolo; che perse l’equilibrio e rovinò a terra con
violenza.
Le
grida di gioia di Donato si trasformarono subito in un pianto dirotto; forse
più per lo spavento che per le sbucciature alle ginocchia.
Salvatore
lo soccorse, lo alzò, lo accarezzò, lo rincuorò, gli pulì le ferite con il
fazzoletto che aveva in tasca, ma era sconcertato. Si domandava, turbato, che
cosa fosse successo, se avesse urtato Donato incidentalmente, o se avesse
procurato la sua caduta con intenzione.
Non
era proprio sicuro, ma gli rimase il dubbio che il piede si fosse spostato,
improvvisamente, verso le gambe del piccino, governato da una forza che non
aveva potuto reprimere: come se quella parte del suo corpo fosse appartenuta a
un’altra persona.
E
questo rimase sempre un mistero.
Ma,
forse, non più di tanto.
La ragazza che dormiva con la capra
è un racconto di Guido Fariello
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