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UN ANGOLO PER LA PRIMAVERA
Oggi,
l’aria marzolina tarda ad andarsene.
Oggi,
che le nuvole scorrono su un cielo d’aprile capovolte come pigri cuscini
consumati da una notte agitata.
Oggi,
che hai la bocca dolciastra e ancora indaffarata dalle salse del pranzo
pomeridiano.
La
collina si stiracchia dolce verso la valle; con un sospiro d’attesa lascia in
ascolto gli uccelli sui rami ingemmati.
Un
piccolo mondo tarda a svegliarsi nei croccanti prati della campagna, troppo
intorpiditi ancora da un clima che non si decide a prendere posizione.
Sei
arrivata.
Lungo
le esili braccia l’aria ti sussurra carezze su una prima peluria setata che ti
sta insegnando i capricci del tuo corpo.
C’è
una fragilità incantata nel panorama attorno a te, come se bastasse il
vagabondare di un’ape a poter sciogliere questa bolla di fresca attesa. Ma di
questo te ne accorgerai solo tra un attimo, per ora…
Sei
corsa quassù perché hai bisogno di dare un sottofondo silenzioso ai tuoi
pensieri.
Ti
trovi qui. Sul retro della casa, in cima alla scalinata di porfido e quasi non
ricordi il perché di tanta agitazione.
Il
cuore ti tamburella come le dita del nonno quando gioca a carte.
In
fin dei conti cosa hai sbagliato? Hai detto una cosa bella e poi c’è stato il silenzio.
Silenzio.
Il
cielo è incredibilmente ampio nei giorni di festa e l’aria nasconde sempre
qualche profumo, ma con il respiro così indulgente, non riesci a concentrarti
abbastanza da poterli catturare.
Il
tuo petto vuole aria e tutto dentro di te sembra spingere per ottenerla come se
ci fosse un uccello che batte disperato le ali per uscire.
Fai
per sederti e una leggera fitta sembra darti fuoco per un attimo.
Adagi
la gonna di lana che non ti piace tanto sotto il sedere, senti le pietre della
scalinata che ti rinfrescano i palmi rossi, anche se per un brevissimo tempo,
quasi non te ne sei accorta, ti è sembrato scottassero.
Anche
se ora non ricordi il motivo, sei scappata quassù perché sei arrabbiata, ma
adesso che ti ci sei, qui, a guardare la valle con la città dipinta in
lontananza, hai coscienza che il cuore corre così forte perché hai fatto il
giro della casa di corsa.
Ascolti.
Senti
qualcosa dentro e questo ti fa arrabbiare ancora di più, a te e al tuo cuore
che oltre a battere sembra nascondere un nemico.
Vibrazioni.
Appoggi
le mani nella conca che la gonna verde-scura a quadrettoni forma tra le gambe;
tiri un respiro più lungo degli altri che sembra spezzare quel ritmo instabile
riportandoti lentamente alla tua solita te.
Un
risucchio vuoto ti dà uno strano malessere dentro, come sull’altalena ma più
brutto. La nonna lo chiamava effetto
frisbee: una strana leggerezza con quella sensazione di vuoto rotante.
Sei
pronta a perdere forza, a cadere.
Guardi
le mani. Le dita piccole e fredde fanno resistenza tra loro: sono sudaticce,
umide come il ventre di una lucertola. Ti fanno impressione, le strofini sulla
gonna e poi le appoggi di nuovo sulle irregolarità della pietra cercando
l’equilibrio. Si riempiono della polvere che la pioggia ha depositato in tanti
giorni grigi. Con la polvere sembrano più morbide e robuste, come quelle del
contadino che vive lì accanto e che riescono a rompere le noci con un crack
ovattato: grak.
Ti
senti un po’ più grande anche se hai paura di guardare il cielo sopra la tua
testa, perché improvvisamente una strana solitudine sembra risalire dalla valle
e… soffocarti.
Ora
ti ricordi perché sei quassù, perché sei arrabbiata, perché hai corso e perché
il petto, leggermente appuntito, vibra.
La
gola si stringe come se quell’uccello di prima vi avesse trovato una via di
fuga. Uno sbattere metallico d’ali che sale e fa vibrare anche gli occhi.
Pensi.
Se
sei grande, devi restare lì da sola e affrontarlo.
Arrotoli
le mani tra di loro così da spalmare la polvere anche sui dorsi e ti ricordi
com’era buffo il tuo Birba che si rotolava felice per terra, nella polvere, e
miagolava appena ti vedeva.
Ecco
che ti senti di nuovo più grande.
‹‹Bambina!››
Ti
ha dato così fastidio quando tua mamma ti ha chiamato così. Pensi che sia
giusto che gli altri ti trattino diversamente, perché lo sai di non essere più
una bambina. Hai undici anni, quasi dodici e la tua mamma parla sempre di te
come se tu non fossi lì.
Lo
scalino risulta durissimo sotto il pugno incerto che gli hai dato.
Ahi!
Sei
venuta quassù perché nel salone di sotto insieme ai parenti, non ci vuoi stare.
Hai
un po’ freddo, ma vuoi essere più forte… le braccia si riempiono di bolle sotto
quei nuovi invisibili peli biondi e ti viene in mente l’oca
che la tua mamma stava preparando quella stessa mattina. La vedi ancora molto
bene mentre la gira lasciandole penzolare il collo come una calza con dentro
l’uovo di legno; quello che la nonna usava per rammendare.
La
nonna…
Hai
paura che la pelle d’oca ti trasformi per sempre e ti lasci quelle bolle sul
braccio.
Una
formica sale lungo la tua gamba avvolta dai collant rosa chiaro; viene colpita
dalla mano che scivola sul polpaccio e la scaccia per difendersi.
Ti
ha fatto un po’ paura, ma ora che è caduta sul gradino dove poggiano i tuoi
piedi ti rendi conto che è solo una formica. Si agita sulla schiena, la
formica, e si accartoccia in continuazione e tu pensi che forse ha freddo anche
lei, ma lo sai che fanno così quando stanno morendo.
La
faccia di Paperino ti guarda dalla tua maglietta bianca e improvvisamente non
ti ci riconosci più. Non sopporti più quella testa bianca col becco giallo che
ride, ma attorno a te, però, c’è silenzio.
Con
una fatica disperata, senza deciderlo, emetti questo suono strozzato:
‹‹No!››
Forse
se ti concentri senti qualche risata provenire dalla casa…
Non
sono importanti e quindi ripensi a quel momento in cui hai detto: ‹‹anche lo
zio è bello›› e tutti hanno smesso di parlare, o forse hanno smesso un attimo
prima, come se sapessero che lo stavi per dire. Ma ti è uscito così, da solo.
Che cavolo hai fatto di male? Continui a chiedertelo, ma ti hanno fatto sentire
stupida e poi: ‹‹è normale, è ancora una bambina!››
Ti
infiammi e passi il braccio sugli occhi perché i bambini piangono e tu non vuoi
piangere.
La
pancia ti fa male e ti senti in colpa.
Avvicini
le gambe e ti ci appoggi.
Con
le mani spingi la gonna verso il basso cercando di coprirti il più possibile.
Il
cielo è violaceo e ha qualcosa di triste, come un livido.
Noti
la luna leggera che con il suo bianco sfuma quella tristezza in azzurro.
Ti
hanno detto che ci sono miliardi e miliardi di altre stelle e lune
nell’universo e che noi siamo in realtà molto piccoli.
Adesso
vuoi sapere se nel mondo c’è un’altra bambina che è vestita esattamente come te
e che sta esattamente nella stessa posizione, anche lei con la coda di cavallo,
seduta su una scala uguale alla tua.
Ti
sembra possibile perché sai che siamo quasi sette miliardi al mondo, anche se
fai fatica a capire cosa significa la parola miliardi.
Poi
te ne accorgi.
Hai
pensato se c’è un’altra bambina come
te, ma tu non sei più una bambina.
Qualcuno
ha rotto qualcosa di sotto e il pensiero che sia un pezzo del servizio della
mamma ti fa sentire bene.
La
formica ha quasi smesso di zampettare verso il cielo e un po’ ti dispiace di
quel fatto: sta morendo.
Vuoi
tornare giù, ma provi un bruciore grigio tra il petto e la pancia.
Non
sai quanto tempo deve passare prima che tu possa tornare al caldo.
È
meglio aspettare ancora un po’, inoltre ti stai abituando e non hai più paura
come prima.
La
gonna deve essersi tirata su perché senti freddo al sedere.
Quell’aria
ti ha fatto venire mal di pancia, ma non vuoi dirlo a tua madre perché secondo
te non se lo merita.
Mentre
tuo zio, invece, è sempre gentile, e ha una moto bellissima.
Quando
l’aveva appena comprata ti aveva fatto fare un giro anche se i tuoi genitori
non volevano e ora ricordi che nei pezzi senza curve ti sentivi tirare via,
indietro, verso l’alto. Nascondi le mani lì. Cerchi di tenerle calde.
Inizia
a fare un po’ buio; è forse il momento di entrare in casa, ma l’idea di passare
davanti alla legnaia ti fa paura. Lì c’è sempre quello strano rumore che fanno
i tarli e ti ricorda il mostro di un film che quando compare fa quello stesso
identico verso infelice.
C’è
qualcosa che non va in te perché ti senti sempre un po’ triste e non vuoi che
gli altri lo sappiano.
Qualcuno
chiama il tuo nome e le gambe rispondono, come se sapessero che stanno per
servire il dolce.
Aspetti.
Quel
momento è tutto tuo.
Pensi
al mostro nella legnaia, ma ormai sei grande e ti irrigidisci tutta.
Chiamano
ancora.
Sgranchisci
le gambe; ora vedi le cose da un po’ più in alto e fai per andare.
Ti
guardi le dita sporche, come di fragole schiacciate.
Un angolo per la primavera è un racconto di Michele Grignaffini
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