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FORTUNE E DISGRAZIE DI
UN UOMO
E DELLA SUA MUSA
D’OCCHI D’ORO E D’AMETISTA
Difficile
è rinvenire dalla memoria alcuni futili eventi della vita, mentre altri
rimangono scolpiti dentro di noi come incisioni nella pietra, anche se, dopo anni,
non sappiamo più distinguere ciò che è vero da ciò che vi è stato aggiunto dalle
nostre riflessioni, dai nostri pensieri. Non che questi avvenimenti, deformati
dall’agile mano della fantasia, siano nel nostro cuore meno veritieri, solo
sono abbelliti, adornati di quei particolari che li rendono ameni alle orecchie
altrui. Forse in questo modo, persino noi che ancora ne tocchiamo le ferite,
riusciamo a raccontarli semplicemente come una bella storia, contornata da
quell’indissipabile velo di realtà che possiedono solo i sogni. Cercherò ora,
per quanto la mia anziana mente me lo consenta, di riportare alla vita i fatti
di un uomo, non un eroe nel senso romantico della parola, ma
qualcuno che lasciò dentro di me la traccia indelebile della sua vita.
Prima
di iniziare questo racconto che per anni ha atteso paziente nella mia memoria,
vorrei però premettere che questa, nonostante qualche episodio possa apparire
sviante, non è una storia d’amore, almeno non nel senso comune e,
probabilmente, il suo stesso fulcro risiede in ciò.
Dunque, era il 1963, agosto si stava
lentamente avviando al termine, ma la calura estiva non si rassegnava ad
abbandonare le vie affollate di Roma, così che molti dei vacanzieri più
facoltosi si vedevano costretti a salutare la città eterna, prigioniera
dell’afa e dei turisti, per trasferire i propri bagagli in un luogo un più
fresco e confortevole.
Quell’anno dal porto facevano la spola
numerose piccole navi che percorrevano le meraviglie della costa italica dalla
Sicilia fino ai principi della Costa Azzurra e il più frequentato era senza
alcun dubbio l’Amstrad Miral; un tempo imbarcazione privata di un abbiente
ufficiale di marina olandese, era stato comprato a poco prezzo da un affarista
italiano, il cui nome è andato perso negli anni. Certo era che l’aveva
tramutato nella nave più sontuosa che a quell’epoca solcasse il Mediterraneo.
Ad occhi scettici poteva apparire solamente l’opulenta emulazione di una classe
passata, ma nel 1963 non esisteva possidente anglosassone che non vi avesse
messo piede almeno una volta.
Era
il paradiso dell’alta società, un sogno che veleggiava, candido nel lucore del
mezzodì, sulle onde inquiete del Tirreno. Mai una tempesta né una mareggiata
turbava quell’idilliaco incanto che pareva aprirsi la strada da sé, con
l’alterigia e la fierezza dei suoi passeggeri.
Un mondo a sé attraccava al porto,
quando nella sua calma imperturbabile l’Amstrad Miral calava la sua passerella
sul molo; quanto ai suoi illustri ospiti, a terra essi rivedevano quel viaggio
come avvolto nella foschia di Morfeo: io stessa posso dire di non essere
completamente certa di aver vissuto quell’esperienza che mi porta a raccontare
questa storia.
Ma tornando a noi, proprio in quegli
anni, quando la sontuosa nave raggiungeva l’apice del suo successo, su questa
facoltosa nave, senza un impegno ben preciso, si trovava a lavorare Richard Del
Mare di New York City, per tutti Richie, l’Americano.
Come apparentemente tutto nella sua
esistenza, aveva ereditato quel cognome italiano per puro caso: Cindy Dennis,
discendente alquanto sfortunata di una povera famiglia di New York, quando
all’età di ventinove anni si era ritrovata ad essere una delle tante giovani
vedove dei quartieri operai del Bronx e dei Queens, aveva deciso di rinunciare
al pudore e alla decenza in favore di pittoresche avventure con quei borghesi
in cerca di fortuna, che possedevano e ancora oggi possiedono la Grande Mela.
L’attrattiva che una donna di tal genere su questi uomini facoltosi poteva
suscitare rimane per me un mistero, anche se nei racconti di Richie, sua madre
è sempre stata la più graziosa fanciulla di Brooklyn, oltre ad essere dotata di
uno spirito non comune. Probabilmente, negli abiti sontuosi presi in prestito
per il matrimonio da una vecchia zia, doveva fare una buona figura, tanto buona
da permetterle di animare piacevolmente il suo lutto.
Dopo
essersi destreggiata per qualche mese tra auto sportive e saloni di lusso, il
destino aveva deciso di rimetterla al suo posto e proprio nel sordido
appartamento di periferia che per anni aveva condiviso col marito defunto,
aveva conosciuto per la prima volta Richie.
Forse
“conoscere” non è il verbo usuale per una madre, ma è quello più appropriato a
descrivere il lento percorso, di lacrime e monologhi solitari, che aveva portato
Cindy ad accettare l’effettiva esistenza di suo figlio.
Un
preludio di quell’incontro era avvenuto a Manhattan, nella suite del Plaza
dell’erede dell’industria Richard J. Lump, un giovanotto allegro di famiglia
aristocratica da cui il nostro eroe aveva ereditato nient’altro che il nome.
Come Cindy avesse deciso di cedere alle
galanterie di un tanto promettente corteggiatore è facile immaginarlo, d’altra
parte, lei, povera fanciulla di periferia, non si era ancora rassegnata ad
accantonare i sogni dell’infanzia e, se una parte di lei rideva come una donna
consumata alle sguaiate volgarità dei signorotti newyorkesi, un’altra ancora
sperava nell’avvento del ben noto principe che la sollevasse dalle sue
disgrazie.
Lump
forse aveva un qualcosa di principesco, i capelli impomatati, i modi eleganti,
quel sorriso furbo che ricordo con evidenza anche in Richie, perciò non gli fu
difficile convincere Cindy a concedersi.
Da
quel momento, nella vita di Cindy si era succeduta una sequela di nausee e
gambe gonfie, tutti sintomi inequivocabili che avevano preso il posto dei balli
e dei divertimenti. Abbandonata dalla società e dal suo principe, era rimasta
per giorni interi come malata, senza quasi mangiare, rifiutando le attenzioni
dalla vecchia madre preoccupata; si limitava a giacere sul letto accarezzando
il ventre liscio e gonfio in cerca di una risposta.
A
lungo era stata dilaniata dall’indecisione sulla sorte di quel piccolo essere,
che aveva avuto il potere di allontanare da lei l’abbondante folla d’illusioni
e amanti che aveva abitato i suoi ultimi mesi, alla fine però l’istinto materno
aveva avuto la meglio e la donna aveva deciso di riversare su quell’unico
figlio tutte le speranze che aveva avuto e che non aveva potuto avere.
Il giorno fatidico l’aveva stretto al
petto nel nitore di un piccolo ospedale gestito da una congrega di suore,
amando disperatamente quella piccola creatura. Così, forse per proteggerlo,
forse solo per separare la sua neonata innocenza dallo squallore di quel laido
quartiere di New York, quando un’ossuta sorella le aveva domandato il cognome
da dietro le spesse lenti degli occhiali, Cindy, aveva esitato. Il nome del
padre naturale era una sorta di buon auspicio, un augurio per il futuro a
venire, quanto al cognome la donna desiderava per suo figlio qualcosa di
diverso dalla povera discendenza del suo defunto marito, tuttavia non poteva
sperare che Richie venisse riconosciuto da altri che da lei. Frugando indietro
nella memoria in cerca di una valida alternativa, le era tornato alla mente un
vecchio negozio di ferramenta nei pressi del ponte di Brooklyn, l’insegna
sbiadita pencolava traballante da un vecchio ferro arrugginito, scivolando per
metà sulla saracinesca perennemente abbassata. La scritta, in
rilievo sui colori stinti dello sfondo, recava il nome di Del Mare, un bel
cognome, italiano, a chi fosse appartenuto non aveva importanza, suonava bene e
ciò bastava.
Così
l’illustre provenienza di Richie fu ufficializzata quel sabato mattina dalla
calligrafia minuta e sbavata di un’impiegata che prestava servizio all’anagrafe
cittadino.
Proprio
in virtù di questa provenienza Richie l’Americano era così tenuto in
considerazione sull’Amstrad Miral, era parte del suo fascino d’amatore e della
sua poesia, oltre a permettergli di non sentirsi completamente estraneo in quei
lidi lontani.
Prima ho detto che Richie non aveva un
impiego preciso sulla nave, beh, ciò non è del tutto vero: per quanto mi dolga
ammetterlo, è vero però che il libro paga per lui non comprendeva alcuna
mansione specifica. Era un mestiere astratto il suo, qualche volta andava a
fare compagnia agli uomini in sala macchine, qualche volta s’infilava il
completo e serviva con i camerieri, oppure quando niente lo allettava languiva
sul ponte, al sole o nel buio della notte, assaporando tiepide boccate da una
sigaretta costantemente accesa e persino questo era un modo di svolgere il suo
lavoro.
Compito di quest’istrione della parola
era quello di intrattenere, donne per lo più, e di sollecitare i clienti
dell’Amstrad Miral a rimpinguarne le casse costantemente vuote; era difatti il
nostro eroe, se così posso chiamarlo, il tipo che gli uomini, ricchi
soprattutto, idolatrano o detestano. Fortunato al gioco, aveva sempre le labbra
increspate in un immutabile sorriso di scherno, il quale faceva il paio col suo
umorismo pungente.
Arringava il ponte con ampi gesti e lo
catturava con la sua voce profonda, tanto che non importava cosa dicesse, tutti
lo ascoltavano; politica, amore, la poesia che tanto amava tutto si susseguiva
sulle sue labbra con una naturalezza che sapeva far propri persino i rivali
attoniti; allora le troppe attenzioni riservate in precedenza alle loro mogli
non contavano più per i signorotti ospiti dell’Amstrad, anzi nei confronti di
esse si formava una nuova e inspiegata gelosia, perché tutti ambivano a
discorrere con quell’uomo colto e affascinante e chi, fino a quel momento
l’aveva disprezzato ed etichettato come un vile teatrante, ora ne agognava un
cenno del capo, un saluto.
Richie
non era bello: il viso, troppo rugoso per la sua età, il naso troppo
prominente, i capelli leggermente radi sulla nuca non gli conferivano un
aspetto sconvolgente, l’attrattiva d’oltremare era certo un’altra, ma egli
sapeva destreggiarsi nelle imperfezioni dei suoi sembianti grazie al suo
imprescindibile carisma, che si alternava a tratti ombrosi del suo carattere,
quasi enigmatici.
Negli
occhi, perennemente velati di una lontana malinconia, si alternavano e si
confondevano a seconda del tempo tonalità tra il verde e l’azzurro, in modo
tale che nell’abbacinante lucore del mattino brillavano schietti e vivaci,
mentre se il tempo non era clemente s’incupivano come l’acqua torbida,
rispecchiando alla perfezione i due lati opposti della sua personalità.
Non
c’è quindi da meravigliarsi che attorno a lui si annidasse sempre una folta
calca di spettatrici adoranti, che i loro mariti lo disprezzassero, lo
invidiassero o lo amassero nella sua povertà senza fissa dimora e che nessuno,
nemmeno coloro che nella vita gli furono più legati, tra i quali ho il vezzo
d’includermi, nessuno abbia mai catturato la sua vera essenza.
Ora però non si deve pensare che fosse
un volgare gigolò e nemmeno un seduttore disperato, perché la sua disperazione
consisteva in altro: svolgeva il suo mestiere a tempo perso, indagando nella
vita più che negli spasmi dell’amore. Era un amante coinvolgente, ma
sfuggevole, quasi distratto nella sua continua provocazione alla vita e
probabilmente era quello che lo rendeva così affascinante, seduto sul parapetto
a fumare nel tramonto. Era estremamente utile a bordo dell’Amstrad Miral,
portava i suoi amici ad incrementare gli introiti in misura notevole, secondo i
conti entusiasti dell’allora capitano, Dostev Banjo.
Quest’ultimo era uno di quei capitani da
romanzo e ciò non deve stupire, d’altra parte solo un uomo di tal fatta si
poteva incontrare al comando di quella nave che travalicava di poco il confine
del reale: il capo canuto, la barba bianca non troppo folta e lo sguardo dolce
che tentava di domare in un perenne cipiglio di severità. Girava sempre in
divisa, col cappello in testa e, come Richie, anche lui ostentava delle
presunte origini italiane che l’avevano portato nel bel paese, soltanto che, al
contrario del nostro eroe, non ne portava nemmeno il nome a testimonianza; per
il resto aveva un cognome così impronunciabile che i suoi sottoposti avevano
deciso di abbreviarlo in Banjo, nomignolo a cui all’inizio il capitano si era
ostinatamente ribellato, ma che in seguito aveva accettato con quel dolce
candore con cui indulgeva, apparentemente, su quasi tutto.
Non sono mai venuta a sapere come Banjo
entrò in possesso dell’Amstrad Miral, sul fatto circolavano diverse storie,
delle quali solo poche sono vagamente attendibili: c’era chi sosteneva fosse un
dono fraterno del Duce in rovina; tesi, questa, resa alquanto improbabile dal
marcato accento slavo del capitano e dalle sue presunte militanze politiche,
confermatemi da mio padre, oltre che dalle accese arringhe in cui tradiva
l’uomo ardente che doveva essere stato e che ancora era sotto il nitore della
divisa. Altri affermavano che erano gli Alleati i fautori del regalo, in
ringraziamento per un’eroica impresa di salvataggio di un alto ufficiale.
L’ipotesi più probabile è che l’avesse vinta giocando d’azzardo, col Duce, con
gli Americani o con chiunque altro; certamente quest’ultima non era smentita
dalle lunghe serate che Banjo passava al tavolo della roulette insieme ai
possidenti in vacanza, o a giocare a carte con i membri dell’equipaggio.
Silenzioso, approfittava vantaggiosamente di
ogni mano e la fortuna non l’aveva mai tradito, tranne contro Richie.
Incredibilmente
riservato, al contrario dei membri del suo equipaggio, era proprio Banjo che
aveva dato a Richie il benvenuto sull’Amstrad e grazie a lui che l’Americano
doveva, per ironia del suo nome, la sua fortuna al mare.
Quell’anno
Richie aveva ventisette anni e ne aveva vissuti sulla prestigiosa nave ben
dieci, tra numerosi successi e romantiche sorprese, perfezionate sempre più nel
tempo.
Era
arrivato dall’America a sedici anni, pagandosi la traversata con soldi
racimolati da vecchi amici, con piccoli furtarelli e qualche lavoretto per
conto di nomi conosciuti a New York. D’altra parte, sua madre non aveva potuto
offrirgli altro che la sua benedizione al molo: la povera donna, infatti,
rimasta sola, senza amici né parenti a cui appellarsi, aveva sperperato tutto
ciò che aveva ereditato dall’anziana madre tra le bottiglie. Non che non fosse
affezionata al figlio, solamente che spesso amava perdersi negli antichi
ricordi di splendore vivificati dall’alcol.
Così,
Richie era cresciuto, come tutti ragazzi di Brooklyn, sulla strada: la sua
adolescenza si era destreggiata tra gli amori mercenari e le risse con gli
amici in quel quartiere tutti sembravano mostrare una certa indulgenza per il vizio;
raramente, si era dedicato a qualche tresca nell’alta società, tutte storie da
poco, tra quella gente stracciona i ricchi erano disprezzati e poi dubito che
Richie non fosse stato influenzato dalle storie che giravano su sua madre,
anche se era pronto a negarle tutte a suon di pugni. Era così, un’indole
talvolta calma e riflessiva, talvolta irascibile ed esplosiva.
L’unica
storia davvero importante in questo periodo della vita di Richie fu quella con
una prostituta del Bronx, Mary, che aveva parecchi anni in più di lui e alla
quale probabilmente si dovevano le abilità amatorie che avevano reso Richie
tanto grande sull’Amstrad.
Lei
era una donna dal riso sarcastico che amava atteggiarsi a femme-fatale, il loro
non era amore, questo è facile immaginarlo, ma ciò non toglie che tra i due
esistesse un profondo e curioso affetto nato dalla prolungata compagnia
reciproca.
Per
Richie all’inizio fu amore, o perlomeno qualcosa che gli era molto simile. Un
giovane come lui aveva imparato ad apprezzare le donne molto precocemente,
proprio in forza della mancanza di una vera e propria figura femminile nella
sua vita, o forse perché con loro aveva talento, ma Mary fu la prima.
Non
so quale dei suoi strambi progetti animasse la mente di Richie in quegli anni,
sebbene calato nel mondo e nelle sue brutture, era ancora capace di frugare la
realtà in cerca di qualche illusione: probabilmente credeva di poter redimere
quella donna di malaffare di cui si era innamorato.
Le faceva visita ogni
giorno in un sudicio alberghetto del Bronx.
-
Ancora
qui - commentava lei ogni volta con un risolino, vedendo spuntare il sorriso di
Richie, mentre alzava lo sguardo dalla
moquette annerita della sala d’aspetto (se così posso chiamarla).
Trascurava
persino le partite a baseball con gli amici per trascorrere il pomeriggio in
interminabili file di timidi studentelli e uomini grassocci e sudati. La sera
non poteva, quando non aveva qualche colpetto da organizzare per conto di
qualche uomo importante della Manhattan dabbene, si dedicava alle ragazze, loro
gli servivano per tenersi in allenamento, per Mary ovviamente, con lei era
diverso. In una sorta di burlesco rovesciamento era proprio la prostituta il
puro oggetto del suo desiderio.
Poi naturalmente c’erano tutti quei piccoli espedienti che
utilizzava per procurarsi il denaro necessario al suo corteggiamento, lo
rubava, quasi sempre, dalle tasche dei passanti o da quelle di sua madre,
quando lei riusciva a trovare qualche impiego saltuario.
Grazie al suo fascino e, verosimilmente
alla compassione, Richie riuscì a convincere Mary qualche volta anche a fargli
credito, - Sei davvero un tipo curioso - commentava ogni volta la donna con una
risata e il giovane, tra le sue braccia, continuava a sognare e a sproloquiare sul
niente.
Se pur inizialmente Mary aveva accolto
gli approcci di Richie con benevolo scherno, più avanti aveva incominciato a
prenderlo seriamente, non come amante, ma come una sorta di amico, di
discepolo. Fu a lungo la sua confidente, svezzandone e preservandone, allo
stesso tempo, le ingenuità.
Poi un giorno lei se ne andò, cercandola
nella sua solita stanza, non la trovarono né le compagne né il suo protettore.
Alcuni dicevano fosse rimasta incinta, altri si fosse ammalata per gli eccessi
di quella vita viziosa. La diedero tutti per morta o dispersa, tutti tranne
Richie, che a breve l’avrebbe seguita.
Mary parlava da anni di una possibile
fuga, voleva sbarazzarsi di tutta quella pantomima insoddisfacente, morire per
rinascere con un’altra identità e ci riuscì. Non so se lui sapesse dove fosse
andata, o chi fosse diventata, se la sua scomparsa lo addolorò o se servì a
rafforzare la risoluzione che già da tempo si stava formando dentro di lui.
La
brama di evadere dall’anonimato di New York, di farsi un nome nel mondo aveva
da sempre accomunato i due e la scomparsa di Mary cosa poteva essere se non
un’esortazione, un segnale.
Anni
più tardi, quando Mary,facendo colazione in un lussuoso caffè sulla quinta
strada, vide su un quotidiano la foto di Richie ne restò molto colpita; fu
allora che, leggendo le mie parole vicino all’articolo, decise di incontrarmi
per raccontarmi ciò che poco fa ho riferito di questa storia.
Richie, era anche un ragazzo colto, come al solito non nel
senso comunemente inteso però: diciamo che si era creato qualche sorta di
conoscenza tramite la vita pratica, sua e degli altri, cercando di trarre
quanti più insegnamenti possibili dai racconti dei viandanti e venditori che
affollavano le strade del Bronx. Inoltre, pur avendo frequentato saltuariamente
la scuola, aveva imparato a leggere da piccolo e si era perfezionato nel tempo
alle bancarelle dei libri, sui fogli di giornale per strada e qualche volta in
biblioteca.
Sin da un’età precoce si era dedicato
con passione all’arte oratoria, mescolando le parole dei viandanti a quelle dei
poeti e degli scrittori che, col tempo, aveva imparato a capire e ad
apprezzare; quel talento gli era tornato utile, oltre che sull’Amstrad, quando
ancora vendeva giornaletti e merce rubata per vivere, udirlo declamare le
qualità di un posacenere per le strade affollate era uno spasso e molti, tra i
quali sua madre, si erano convinti che il suo avvenire fosse a Brodway, tra le
stelle del teatro.
Richie, inoltre nutriva un autentico
interesse per certe questioni filosofiche, che cercava di accordare con i
racconti uditi in giro e con i miti con cui lo ammaliava la madre prima di
dormire. Aveva sempre evitato le chiese e le funzioni religiose, ma un giorno,
dopo i tredici anni, si era presentato al parroco del quartiere per discutere
l’esistenza di Dio.
Il parroco, un giovanotto di recente
investitura, era rimasto stranito e insieme contento di trovarsi di fronte quel
ragazzo che fino a qualche settimana prima si derideva apertamente la sua
tonaca nera. Era rimasto sorpreso più che dalle teorie, quanto mai assurde di
Richie, dalla perizia e dalla convinzione con cui egli le esponeva. Pareva
avere un culto tutto proprio, quel ragazzo. Fermo sostenitore delle
affermazioni di divinità universale propugnata da qualche filosofo, pareva però
sempre ricadere nell’ingenuità della sua età acerba: sosteneva, senza
permettere ad alcuno di contrariarlo, che la sua vita fosse governata, se non
ispirata, da una sorta di entità. Questa non era da intendersi come una vera e
propria divinità, ma più che altro una musa, la cui influenza travalicava il
campo delle arti e si rifrangeva su tutta la vita di Richie con autorità
sovrana.
I
dibattiti erano proseguiti per giorni, con il grande disappunto dei suoi
colleghi più vecchi, il giovane prete ascoltava con interesse le domande di
ogni tipo con cui Richie lo assediava senza tregua e se da una parte tentava di
riportare il ragazzo all’infondatezza delle sue sicurezze, dall’altra ne era
profondamente ammirato.
Non so se il mio amico avesse innestato
in lui i germi del dubbio, di certo, però, risuonarono per anni nelle sue
prediche alcuni flebili echi delle assurde teorie di Richie. Dal canto suo,
pareva che quest’ultimo fosse seriamente intenzionato ad abbandonarsi alla
religione, o almeno questo intuivano gli amici e i conoscenti che lo vedevano
passeggiare serio in direzione della chiesa ogni giorno; ma la febbricitante
propensione alla fede che lo aveva rapito, come tutte le grandi malattie, si
dissolse una mattina in seguito a una lunga notte di sonno. A nulla servirono
gli ammonimenti e le preghiere del parroco, Richie era ritornato il ragazzo che
si faceva beffe dell’inferno e del paradiso, delle divinità e delle tonache
nere, della sua musa mai però.
Questa
che ho raccontato era solo una delle tante stramberie che aveva tentato per
trovare qualche risposta e, probabilmente, l’idea di partire dall’America era
stata una di quelle.
Non
credo a chi giura che fosse una fuga da un amore non ricambiato, una di quelle
ereditiere che sporadicamente Richie frequentava, se avesse cercato rifugio da
qualcosa, quello era la città che non gli aveva dato niente e in cui avrebbe
continuato a condurre una vita mediocre.
Più della morte, della perdita della sua
cara madre, del dolore era la prospettiva dell’oblio ciò che tormentava Richie;
così, dopo un bacio alla madre e un’ultima passeggiata per le strade della sua
infanzia, si era sottratto al caos newyorkese che tutto nasconde e si era
avventurato per mare, verso l’italia, verso L’Amstrad.
Quella
col capitano Banjo era stata un’intesa a prima vista. Dapprima l’aveva assunto
come marinaio e addetto ai lavori di fatica, ben presto però si era accorto che
il talento di Richie era sprecato in quelle mansioni, tanto che pian piano
l’aveva reso l’uomo che ora era.
L’aspetto
candido del capitano poteva essere ingannevole: egli, difatti, celava dietro i
suoi modi pacati uno spiccato occhio per gli affari, anzi, potrei quasi
affermare che la sua intera apparenza fosse un meccanismo di guadagno. Badate
bene, ciò non contrasta con la natura di lui che ho prima descritto, i due
aspetti coesistevano e si servivano armoniosamente come in tutti caratteri
complessi. Chi, d’altronde, se non un burattinaio di tal genere, poteva aver
radunato un corte di eccentricità paragonabile a quella che animava l’Amstrad
Miral? Gli uomini dell’equipaggio non erano impiegati, erano attrazioni di una
continua festa, di un circo girovagante che aveva trovato il suo fulcro in
Richie.
Nonostante
ciò, credo il nostro eroe non si potesse definire felice, o almeno mi diede
questa impressione quando lo incontrai dopo poco tempo dal giorno in cui inizia
questa storia.
Fumava
tranquillo nella brezza leggera della recente partenza, la schiena appoggiata
al parapetto del ponte di comando, nell’ombra. La giornata si avviava
stancamente al suo capolinea e lui si era ritagliato uno dei rari momenti di
pace in attesa che il capitano scoprisse il suo nascondiglio e lo restituisse
ai suoi doveri, nel marasma che avrebbe entro poco tempo sconvolto il ponte
principale.
In
genere i membri dell’equipaggio erano al corrente delle sue fughe nella
solitudine e lo lasciavano in pace, limitandosi a passare furtivi, fingendo di
ignorare la sua presenza. Si arrampicava lì, quando desiderava evadere e si
godeva gli aliti del vento, il profumo del sale incrostato nelle fessure e
negli spigoli, la superficie ruvida e protetta di quell’angolo discosto, dietro
la cabina di comando, che aveva trasformato nel suo rifugio. Là sognava,
Richie, non so bene cosa, ma sognava e anche allora stava sognando.
-
Mi
scusi - una voce si fece strada dal basso nel fragoroso sciabordio delle onde,
Richie la udì ma non diede cenno di essersene accorto - Mi scusi - ripeté di
nuovo la voce con un marcato accento francese - Lei lassù - Richie si voltò
lentamente, la testa leggermente inclinata sulla spalla destra mentre si
portava pensieroso la sigaretta alla bocca. Il suo sguardo si soffermò
distrattamente sull’orizzonte indorato dal tramonto incipiente, prima di
scendere sulla fonte dei richiami.
Sotto
di lui, sul ponte principale, la voce che aveva cercato la sua attenzione prese
forma in una giovane donna. Poteva essere definita una bella ragazza, i capelli
ricci le incorniciavano il volto sottile e arrossato dal sole, ricadendo sul
candore delle spalle nude in un irresistibile contrasto. Indossava un vestito
leggero che le cingeva il seno per poi scivolare morbido sul suo fisico magro.
Sorrideva.
-
La
manda il capitano? - chiese Richie prendendo con calma un altro tiro dalla
sigaretta.
-
È
lei Richard? - domandò lei a sua volta, osservandolo curiosa dalla sua
posizione.
- Mi chiami Richie, ormai
quel nome… si è perso - rispose alzandosi in piedi e fissando il suo penetrante
sguardo sulla ragazza, come se la osservasse davvero per la prima volta. Lei
non sembrò a disagio. Richie scavalcò la balaustra calandosi a qualche passo da
lei e le tese la mano.
La giovane la accettò
con piacere - Sono Margot De Louvier -
-
Però,
un nome impegnativo - commentò lui chinandosi a baciarle il dorso della mano.
-
Ormai
quel nome si è perso - rise lei imitandolo.
Richie
sollevò le estremità delle labbra, esibendosi in quella smorfia fascinosa che
era la chiave del suo successo col popolo femminile - Che ne dice di Marge? -
domandò con un leggero cenno del capo - Dove sono nato la chiamerebbero così,
le dispiace? -
-
Lei
non è italiano? – chiese a sua volta la giovane, contrariata.
-
Solo
per origini - spiegò Richie, suscitando un sorriso d’approvazione da parte
della sua interlocutrice.
-
Il
capitano mi ha raccomandato lei per il giro della nave- spiegò con il suo
immancabile accento francese.
-
Oh,
ha raccomandato me? - domandò Richie con finta sorpresa - Ne sono lusingato -
aggiunse poi lanciandole un’eloquente occhiata, prima di farle strada - Mi dica
Marge- disse con un particolare accento sul nome della giovane - che giro
intende fare? -
-
Oh,
quello che preferisce - esitò lei imbarazzata - lei deve di certo conoscere
incredibilmente bene questa nave - ribatté lei, lo sguardo abbassato continuava
a esaminare Richie di sottecchi, mentre lui per parte sua la osservava
divertito.
-
Ai
suoi ordini Marge - rispose affabile, non so se allora presentisse qualche
cenno del ruolo futuro che Margot avrebbe rivestito nella sua storia, di certo
era in qualche modo estasiato dalla sua bellezza ingenua.
-
Quello
lassù è il ponte di comando, è là che sta il capitano - disse indicando il
luogo dove prima si trovava - e detto fra noi - aggiunse poi abbassando la voce
- non ama essere disturbato -
-
Nemmeno
lei, a quanto sembra - rispose la ragazza con una risata.
Richie
abbassò il capo, come preso da un eccesso di pudore, poi lo rialzò scoprendo i
denti bianchi in un vero sorriso, stavolta - Oh, io adoro la compagnia,
soprattutto certa compagnia - ribatté con fare allusivo - tranne quando sono
solo - disse facendole strada. Lei scoppiò nuovamente a ridere - Lei è proprio
singolare, come mi aveva detto il capitano -
-
E
chi non lo è? - rispose lui conducendola per uno stretto corridoio lungo la
balaustra bianca della nave.
-
Lei
deve avere una strana idea del mondo, le persone di solito sono così noiose -
sospirò lei volgendo i grandi occhi verso il mare.
-
È
questo che l’ha spinta a prendersi una vacanza sull’Amstrad? - domandò lui,
continuando a precederla lungo la balaustra.
Margot
arrossì - in un certo senso - ammise, mentre scendevano per una scaletta
laterale - i miei genitori, forse - continuò vedendo che Richie non commentava
- sa, sembra siano ossessionati dal trovarmi un marito - sbottò infine - mi
scusi non so perché glielo sto dicendo - aggiunse poi, accorgendosi troppo
tardi dell’impulsivo sfogo.
Richie si voltò verso
di lei inaspettatamente serio - Devo avere il viso di una persona affidabile –
Margot
annuì, improvvisamente si accorse che si erano fermati a metà della discesa,
sentiva le dita di Richie sfiorare le sue sulla balaustra, il suo volto era
così vicino che poteva scorgerne le screziature della pelle battuta dai venti.
-
Sì,
sì - rispose debolmente, avvampando, così che le sue guance divennero del
colore del cielo; le enigmatiche iridi di Richie erano fisse su di lei, si
accorse di star trattenendo il respiro.
Sulle
labbra di lui s’increspo un lieve sorriso, poi bruscamente si allontanò - Spero
non le dispiaccia troppo la gente, perché qui ne incontrerà molta - annunciò
scostandosi. Immediatamente alla vista di Margot si aprì quel circo di suoni e
bizzarrie che sono le persone dell’alta società in festa, come se su quel ponte
si fosse raccolta tutta la stranezza del mondo, pronta ad offrire a lei il più
sensazionale di tutti gli spettacoli.
Richie
le porse la mano aiutandola a scendere in quella celebrazione di ricchezze e
ostentazione che prendeva forma nel lento avvento della sera: la magia dei
sogni prendeva corpo nel vociare confuso, dall’ammirazione delle signore
raccolte attorno alla fontana di diamanti, delle risate dei giovani assiepati
attorno ai tavoli da gioco, dei passi concitati dei balli, del ritmo
dell’orchestra jazz in giacca bianca.
Calici
dei vini più pregiati si levavano in ogni dove contro il cielo scurito, mentre
giovani donne in svolazzanti abiti rossi servivano tra risatine e lusinghe
uomini di ogni età, i quali le stuzzicavano sotto gli occhi ostili delle mogli.
In
un angolo, un uomo vestito alla turca, con un fez calcato in testa e una tunica
a larghe falde, leggeva gli oroscopi e le carte da dietro una posticcia barba
appuntita. Una ricca signora spaventata stava chiedendo informazioni sulla
propria sorte e l’uomo travestito, un tale Silvestro, dalla pelle talmente
scura che era facile scambiarla per quella di un arabo, rispondeva con
enigmatici borbottii. Al passaggio di Richie, mosse in un impercettibile cenno
le folte sopracciglia e un incisivo dorato, per un breve momento, baluginò
verso di lui, dalla rada dentatura, poi l’uomo tornò, sgranando gli occhi, alle
sue catastrofiche previsioni.
Poco più in là, un gruppo di acrobati si
esibiva in lanci di birilli e salti sui trampoli. Richie guidò la sua illustre
protetta tra la folla assiepata attorno allo stupefacente evento e rimasero per
qualche secondo a osservare e applaudire, i respiri vicini in quella calca di
esistenze.
Fortune e disgrazie di un uomo e della sua musa
d'occhi d'oro e d'ametista
è un romanzo di Giorgia Colucci
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