Fortune e disgrazie di un uomo e della sua musa d'occhi d'oro e d'ametista

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GIORGIA COLUCCI

FORTUNE E DISGRAZIE DI UN UOMO
E DELLA SUA MUSA
D’OCCHI D’ORO E D’AMETISTA





Difficile è rinvenire dalla memoria alcuni futili eventi della vita, mentre altri rimangono scolpiti dentro di noi come incisioni nella pietra, anche se, dopo anni, non sappiamo più distinguere ciò che è vero da ciò che vi è stato aggiunto dalle nostre riflessioni, dai nostri pensieri. Non che questi avvenimenti, deformati dall’agile mano della fantasia, siano nel nostro cuore meno veritieri, solo sono abbelliti, adornati di quei particolari che li rendono ameni alle orecchie altrui. Forse in questo modo, persino noi che ancora ne tocchiamo le ferite, riusciamo a raccontarli semplicemente come una bella storia, contornata da quell’indissipabile velo di realtà che possiedono solo i sogni. Cercherò ora, per quanto la mia anziana mente me lo consenta, di riportare alla vita i fatti di un uomo, non un eroe nel senso romantico della parola, ma qualcuno che lasciò dentro di me la traccia indelebile della sua vita.
Prima di iniziare questo racconto che per anni ha atteso paziente nella mia memoria, vorrei però premettere che questa, nonostante qualche episodio possa apparire sviante, non è una storia d’amore, almeno non nel senso comune e, probabilmente, il suo stesso fulcro risiede in ciò.
Dunque, era il 1963, agosto si stava lentamente avviando al termine, ma la calura estiva non si rassegnava ad abbandonare le vie affollate di Roma, così che molti dei vacanzieri più facoltosi si vedevano costretti a salutare la città eterna, prigioniera dell’afa e dei turisti, per trasferire i propri bagagli in un luogo un più fresco e confortevole.
Quell’anno dal porto facevano la spola numerose piccole navi che percorrevano le meraviglie della costa italica dalla Sicilia fino ai principi della Costa Azzurra e il più frequentato era senza alcun dubbio l’Amstrad Miral; un tempo imbarcazione privata di un abbiente ufficiale di marina olandese, era stato comprato a poco prezzo da un affarista italiano, il cui nome è andato perso negli anni. Certo era che l’aveva tramutato nella nave più sontuosa che a quell’epoca solcasse il Mediterraneo. Ad occhi scettici poteva apparire solamente l’opulenta emulazione di una classe passata, ma nel 1963 non esisteva possidente anglosassone che non vi avesse messo piede almeno una volta.
Era il paradiso dell’alta società, un sogno che veleggiava, candido nel lucore del mezzodì, sulle onde inquiete del Tirreno. Mai una tempesta né una mareggiata turbava quell’idilliaco incanto che pareva aprirsi la strada da sé, con l’alterigia e la fierezza dei suoi passeggeri.
Un mondo a sé attraccava al porto, quando nella sua calma imperturbabile l’Amstrad Miral calava la sua passerella sul molo; quanto ai suoi illustri ospiti, a terra essi rivedevano quel viaggio come avvolto nella foschia di Morfeo: io stessa posso dire di non essere completamente certa di aver vissuto quell’esperienza che mi porta a raccontare questa storia.
Ma tornando a noi, proprio in quegli anni, quando la sontuosa nave raggiungeva l’apice del suo successo, su questa facoltosa nave, senza un impegno ben preciso, si trovava a lavorare Richard Del Mare di New York City, per tutti Richie, l’Americano.
Come apparentemente tutto nella sua esistenza, aveva ereditato quel cognome italiano per puro caso: Cindy Dennis, discendente alquanto sfortunata di una povera famiglia di New York, quando all’età di ventinove anni si era ritrovata ad essere una delle tante giovani vedove dei quartieri operai del Bronx e dei Queens, aveva deciso di rinunciare al pudore e alla decenza in favore di pittoresche avventure con quei borghesi in cerca di fortuna, che possedevano e ancora oggi possiedono la Grande Mela. L’attrattiva che una donna di tal genere su questi uomini facoltosi poteva suscitare rimane per me un mistero, anche se nei racconti di Richie, sua madre è sempre stata la più graziosa fanciulla di Brooklyn, oltre ad essere dotata di uno spirito non comune. Probabilmente, negli abiti sontuosi presi in prestito per il matrimonio da una vecchia zia, doveva fare una buona figura, tanto buona da permetterle di animare piacevolmente il suo lutto.  
Dopo essersi destreggiata per qualche mese tra auto sportive e saloni di lusso, il destino aveva deciso di rimetterla al suo posto e proprio nel sordido appartamento di periferia che per anni aveva condiviso col marito defunto, aveva conosciuto per la prima volta Richie.
Forse “conoscere” non è il verbo usuale per una madre, ma è quello più appropriato a descrivere il lento percorso, di lacrime e monologhi solitari, che aveva portato Cindy ad accettare l’effettiva esistenza di suo figlio.
Un preludio di quell’incontro era avvenuto a Manhattan, nella suite del Plaza dell’erede dell’industria Richard J. Lump, un giovanotto allegro di famiglia aristocratica da cui il nostro eroe aveva ereditato nient’altro che il nome.
Come Cindy avesse deciso di cedere alle galanterie di un tanto promettente corteggiatore è facile immaginarlo, d’altra parte, lei, povera fanciulla di periferia, non si era ancora rassegnata ad accantonare i sogni dell’infanzia e, se una parte di lei rideva come una donna consumata alle sguaiate volgarità dei signorotti newyorkesi, un’altra ancora sperava nell’avvento del ben noto principe che la sollevasse dalle sue disgrazie.
Lump forse aveva un qualcosa di principesco, i capelli impomatati, i modi eleganti, quel sorriso furbo che ricordo con evidenza anche in Richie, perciò non gli fu difficile convincere Cindy a concedersi.
Da quel momento, nella vita di Cindy si era succeduta una sequela di nausee e gambe gonfie, tutti sintomi inequivocabili che avevano preso il posto dei balli e dei divertimenti. Abbandonata dalla società e dal suo principe, era rimasta per giorni interi come malata, senza quasi mangiare, rifiutando le attenzioni dalla vecchia madre preoccupata; si limitava a giacere sul letto accarezzando il ventre liscio e gonfio in cerca di una risposta.
A lungo era stata dilaniata dall’indecisione sulla sorte di quel piccolo essere, che aveva avuto il potere di allontanare da lei l’abbondante folla d’illusioni e amanti che aveva abitato i suoi ultimi mesi, alla fine però l’istinto materno aveva avuto la meglio e la donna aveva deciso di riversare su quell’unico figlio tutte le speranze che aveva avuto e che non aveva potuto avere.
Il giorno fatidico l’aveva stretto al petto nel nitore di un piccolo ospedale gestito da una congrega di suore, amando disperatamente quella piccola creatura. Così, forse per proteggerlo, forse solo per separare la sua neonata innocenza dallo squallore di quel laido quartiere di New York, quando un’ossuta sorella le aveva domandato il cognome da dietro le spesse lenti degli occhiali, Cindy, aveva esitato. Il nome del padre naturale era una sorta di buon auspicio, un augurio per il futuro a venire, quanto al cognome la donna desiderava per suo figlio qualcosa di diverso dalla povera discendenza del suo defunto marito, tuttavia non poteva sperare che Richie venisse riconosciuto da altri che da lei. Frugando indietro nella memoria in cerca di una valida alternativa, le era tornato alla mente un vecchio negozio di ferramenta nei pressi del ponte di Brooklyn, l’insegna sbiadita pencolava traballante da un vecchio ferro arrugginito, scivolando per metà sulla saracinesca perennemente abbassata. La scritta, in rilievo sui colori stinti dello sfondo, recava il nome di Del Mare, un bel cognome, italiano, a chi fosse appartenuto non aveva importanza, suonava bene e ciò bastava.
Così l’illustre provenienza di Richie fu ufficializzata quel sabato mattina dalla calligrafia minuta e sbavata di un’impiegata che prestava servizio all’anagrafe cittadino.
Proprio in virtù di questa provenienza Richie l’Americano era così tenuto in considerazione sull’Amstrad Miral, era parte del suo fascino d’amatore e della sua poesia, oltre a permettergli di non sentirsi completamente estraneo in quei lidi lontani.
Prima ho detto che Richie non aveva un impiego preciso sulla nave, beh, ciò non è del tutto vero: per quanto mi dolga ammetterlo, è vero però che il libro paga per lui non comprendeva alcuna mansione specifica. Era un mestiere astratto il suo, qualche volta andava a fare compagnia agli uomini in sala macchine, qualche volta s’infilava il completo e serviva con i camerieri, oppure quando niente lo allettava languiva sul ponte, al sole o nel buio della notte, assaporando tiepide boccate da una sigaretta costantemente accesa e persino questo era un modo di svolgere il suo lavoro.
Compito di quest’istrione della parola era quello di intrattenere, donne per lo più, e di sollecitare i clienti dell’Amstrad Miral a rimpinguarne le casse costantemente vuote; era difatti il nostro eroe, se così posso chiamarlo, il tipo che gli uomini, ricchi soprattutto, idolatrano o detestano. Fortunato al gioco, aveva sempre le labbra increspate in un immutabile sorriso di scherno, il quale faceva il paio col suo umorismo pungente.
Arringava il ponte con ampi gesti e lo catturava con la sua voce profonda, tanto che non importava cosa dicesse, tutti lo ascoltavano; politica, amore, la poesia che tanto amava tutto si susseguiva sulle sue labbra con una naturalezza che sapeva far propri persino i rivali attoniti; allora le troppe attenzioni riservate in precedenza alle loro mogli non contavano più per i signorotti ospiti dell’Amstrad, anzi nei confronti di esse si formava una nuova e inspiegata gelosia, perché tutti ambivano a discorrere con quell’uomo colto e affascinante e chi, fino a quel momento l’aveva disprezzato ed etichettato come un vile teatrante, ora ne agognava un cenno del capo, un saluto.
Richie non era bello: il viso, troppo rugoso per la sua età, il naso troppo prominente, i capelli leggermente radi sulla nuca non gli conferivano un aspetto sconvolgente, l’attrattiva d’oltremare era certo un’altra, ma egli sapeva destreggiarsi nelle imperfezioni dei suoi sembianti grazie al suo imprescindibile carisma, che si alternava a tratti ombrosi del suo carattere, quasi enigmatici.
Negli occhi, perennemente velati di una lontana malinconia, si alternavano e si confondevano a seconda del tempo tonalità tra il verde e l’azzurro, in modo tale che nell’abbacinante lucore del mattino brillavano schietti e vivaci, mentre se il tempo non era clemente s’incupivano come l’acqua torbida, rispecchiando alla perfezione i due lati opposti della sua personalità.
Non c’è quindi da meravigliarsi che attorno a lui si annidasse sempre una folta calca di spettatrici adoranti, che i loro mariti lo disprezzassero, lo invidiassero o lo amassero nella sua povertà senza fissa dimora e che nessuno, nemmeno coloro che nella vita gli furono più legati, tra i quali ho il vezzo d’includermi, nessuno abbia mai catturato la sua vera essenza.
Ora però non si deve pensare che fosse un volgare gigolò e nemmeno un seduttore disperato, perché la sua disperazione consisteva in altro: svolgeva il suo mestiere a tempo perso, indagando nella vita più che negli spasmi dell’amore. Era un amante coinvolgente, ma sfuggevole, quasi distratto nella sua continua provocazione alla vita e probabilmente era quello che lo rendeva così affascinante, seduto sul parapetto a fumare nel tramonto. Era estremamente utile a bordo dell’Amstrad Miral, portava i suoi amici ad incrementare gli introiti in misura notevole, secondo i conti entusiasti dell’allora capitano, Dostev Banjo.
Quest’ultimo era uno di quei capitani da romanzo e ciò non deve stupire, d’altra parte solo un uomo di tal fatta si poteva incontrare al comando di quella nave che travalicava di poco il confine del reale: il capo canuto, la barba bianca non troppo folta e lo sguardo dolce che tentava di domare in un perenne cipiglio di severità. Girava sempre in divisa, col cappello in testa e, come Richie, anche lui ostentava delle presunte origini italiane che l’avevano portato nel bel paese, soltanto che, al contrario del nostro eroe, non ne portava nemmeno il nome a testimonianza; per il resto aveva un cognome così impronunciabile che i suoi sottoposti avevano deciso di abbreviarlo in Banjo, nomignolo a cui all’inizio il capitano si era ostinatamente ribellato, ma che in seguito aveva accettato con quel dolce candore con cui indulgeva, apparentemente, su quasi tutto.
Non sono mai venuta a sapere come Banjo entrò in possesso dell’Amstrad Miral, sul fatto circolavano diverse storie, delle quali solo poche sono vagamente attendibili: c’era chi sosteneva fosse un dono fraterno del Duce in rovina; tesi, questa, resa alquanto improbabile dal marcato accento slavo del capitano e dalle sue presunte militanze politiche, confermatemi da mio padre, oltre che dalle accese arringhe in cui tradiva l’uomo ardente che doveva essere stato e che ancora era sotto il nitore della divisa. Altri affermavano che erano gli Alleati i fautori del regalo, in ringraziamento per un’eroica impresa di salvataggio di un alto ufficiale. L’ipotesi più probabile è che l’avesse vinta giocando d’azzardo, col Duce, con gli Americani o con chiunque altro; certamente quest’ultima non era smentita dalle lunghe serate che Banjo passava al tavolo della roulette insieme ai possidenti in vacanza, o a giocare a carte con i membri dell’equipaggio. Silenzioso, approfittava vantaggiosamente di ogni mano e la fortuna non l’aveva mai tradito, tranne contro Richie.
Incredibilmente riservato, al contrario dei membri del suo equipaggio, era proprio Banjo che aveva dato a Richie il benvenuto sull’Amstrad e grazie a lui che l’Americano doveva, per ironia del suo nome, la sua fortuna al mare.
Quell’anno Richie aveva ventisette anni e ne aveva vissuti sulla prestigiosa nave ben dieci, tra numerosi successi e romantiche sorprese, perfezionate sempre più nel tempo.
Era arrivato dall’America a sedici anni, pagandosi la traversata con soldi racimolati da vecchi amici, con piccoli furtarelli e qualche lavoretto per conto di nomi conosciuti a New York. D’altra parte, sua madre non aveva potuto offrirgli altro che la sua benedizione al molo: la povera donna, infatti, rimasta sola, senza amici né parenti a cui appellarsi, aveva sperperato tutto ciò che aveva ereditato dall’anziana madre tra le bottiglie. Non che non fosse affezionata al figlio, solamente che spesso amava perdersi negli antichi ricordi di splendore vivificati dall’alcol.
Così, Richie era cresciuto, come tutti ragazzi di Brooklyn, sulla strada: la sua adolescenza si era destreggiata tra gli amori mercenari e le risse con gli amici in quel quartiere tutti sembravano mostrare una certa indulgenza per il vizio; raramente, si era dedicato a qualche tresca nell’alta società, tutte storie da poco, tra quella gente stracciona i ricchi erano disprezzati e poi dubito che Richie non fosse stato influenzato dalle storie che giravano su sua madre, anche se era pronto a negarle tutte a suon di pugni. Era così, un’indole talvolta calma e riflessiva, talvolta irascibile ed esplosiva.
L’unica storia davvero importante in questo periodo della vita di Richie fu quella con una prostituta del Bronx, Mary, che aveva parecchi anni in più di lui e alla quale probabilmente si dovevano le abilità amatorie che avevano reso Richie tanto grande sull’Amstrad.
Lei era una donna dal riso sarcastico che amava atteggiarsi a femme-fatale, il loro non era amore, questo è facile immaginarlo, ma ciò non toglie che tra i due esistesse un profondo e curioso affetto nato dalla prolungata compagnia reciproca.
Per Richie all’inizio fu amore, o perlomeno qualcosa che gli era molto simile. Un giovane come lui aveva imparato ad apprezzare le donne molto precocemente, proprio in forza della mancanza di una vera e propria figura femminile nella sua vita, o forse perché con loro aveva talento, ma Mary fu la prima.



Non so quale dei suoi strambi progetti animasse la mente di Richie in quegli anni, sebbene calato nel mondo e nelle sue brutture, era ancora capace di frugare la realtà in cerca di qualche illusione: probabilmente credeva di poter redimere quella donna di malaffare di cui si era innamorato.
Le faceva visita ogni giorno in un sudicio alberghetto del Bronx.
-  Ancora qui - commentava lei ogni volta con un risolino, vedendo spuntare il sorriso di  Richie, mentre alzava lo sguardo dalla moquette annerita della sala d’aspetto (se così posso chiamarla).
Trascurava persino le partite a baseball con gli amici per trascorrere il pomeriggio in interminabili file di timidi studentelli e uomini grassocci e sudati. La sera non poteva, quando non aveva qualche colpetto da organizzare per conto di qualche uomo importante della Manhattan dabbene, si dedicava alle ragazze, loro gli servivano per tenersi in allenamento, per Mary ovviamente, con lei era diverso. In una sorta di burlesco rovesciamento era proprio la prostituta il puro oggetto del suo desiderio.
Poi naturalmente c’erano tutti quei piccoli espedienti che utilizzava per procurarsi il denaro necessario al suo corteggiamento, lo rubava, quasi sempre, dalle tasche dei passanti o da quelle di sua madre, quando lei riusciva a trovare qualche impiego saltuario.
Grazie al suo fascino e, verosimilmente alla compassione, Richie riuscì a convincere Mary qualche volta anche a fargli credito, - Sei davvero un tipo curioso - commentava ogni volta la donna con una risata e il giovane, tra le sue braccia, continuava a sognare e a sproloquiare sul niente.
Se pur inizialmente Mary aveva accolto gli approcci di Richie con benevolo scherno, più avanti aveva incominciato a prenderlo seriamente, non come amante, ma come una sorta di amico, di discepolo. Fu a lungo la sua confidente, svezzandone e preservandone, allo stesso tempo, le ingenuità.
Poi un giorno lei se ne andò, cercandola nella sua solita stanza, non la trovarono né le compagne né il suo protettore. Alcuni dicevano fosse rimasta incinta, altri si fosse ammalata per gli eccessi di quella vita viziosa. La diedero tutti per morta o dispersa, tutti tranne Richie, che a breve l’avrebbe seguita.
Mary parlava da anni di una possibile fuga, voleva sbarazzarsi di tutta quella pantomima insoddisfacente, morire per rinascere con un’altra identità e ci riuscì. Non so se lui sapesse dove fosse andata, o chi fosse diventata, se la sua scomparsa lo addolorò o se servì a rafforzare la risoluzione che già da tempo si stava formando dentro di lui.
La brama di evadere dall’anonimato di New York, di farsi un nome nel mondo aveva da sempre accomunato i due e la scomparsa di Mary cosa poteva essere se non un’esortazione, un segnale.
Anni più tardi, quando Mary,facendo colazione in un lussuoso caffè sulla quinta strada, vide su un quotidiano la foto di Richie ne restò molto colpita; fu allora che, leggendo le mie parole vicino all’articolo, decise di incontrarmi per raccontarmi ciò che poco fa ho riferito di questa storia.
Richie, era anche un ragazzo colto, come al solito non nel senso comunemente inteso però: diciamo che si era creato qualche sorta di conoscenza tramite la vita pratica, sua e degli altri, cercando di trarre quanti più insegnamenti possibili dai racconti dei viandanti e venditori che affollavano le strade del Bronx. Inoltre, pur avendo frequentato saltuariamente la scuola, aveva imparato a leggere da piccolo e si era perfezionato nel tempo alle bancarelle dei libri, sui fogli di giornale per strada e qualche volta in biblioteca.
Sin da un’età precoce si era dedicato con passione all’arte oratoria, mescolando le parole dei viandanti a quelle dei poeti e degli scrittori che, col tempo, aveva imparato a capire e ad apprezzare; quel talento gli era tornato utile, oltre che sull’Amstrad, quando ancora vendeva giornaletti e merce rubata per vivere, udirlo declamare le qualità di un posacenere per le strade affollate era uno spasso e molti, tra i quali sua madre, si erano convinti che il suo avvenire fosse a Brodway, tra le stelle del teatro.  
Richie, inoltre nutriva un autentico interesse per certe questioni filosofiche, che cercava di accordare con i racconti uditi in giro e con i miti con cui lo ammaliava la madre prima di dormire. Aveva sempre evitato le chiese e le funzioni religiose, ma un giorno, dopo i tredici anni, si era presentato al parroco del quartiere per discutere l’esistenza di Dio.
Il parroco, un giovanotto di recente investitura, era rimasto stranito e insieme contento di trovarsi di fronte quel ragazzo che fino a qualche settimana prima si derideva apertamente la sua tonaca nera. Era rimasto sorpreso più che dalle teorie, quanto mai assurde di Richie, dalla perizia e dalla convinzione con cui egli le esponeva. Pareva avere un culto tutto proprio, quel ragazzo. Fermo sostenitore delle affermazioni di divinità universale propugnata da qualche filosofo, pareva però sempre ricadere nell’ingenuità della sua età acerba: sosteneva, senza permettere ad alcuno di contrariarlo, che la sua vita fosse governata, se non ispirata, da una sorta di entità. Questa non era da intendersi come una vera e propria divinità, ma più che altro una musa, la cui influenza travalicava il campo delle arti e si rifrangeva su tutta la vita di Richie con autorità sovrana.
I dibattiti erano proseguiti per giorni, con il grande disappunto dei suoi colleghi più vecchi, il giovane prete ascoltava con interesse le domande di ogni tipo con cui Richie lo assediava senza tregua e se da una parte tentava di riportare il ragazzo all’infondatezza delle sue sicurezze, dall’altra ne era profondamente ammirato.
Non so se il mio amico avesse innestato in lui i germi del dubbio, di certo, però, risuonarono per anni nelle sue prediche alcuni flebili echi delle assurde teorie di Richie. Dal canto suo, pareva che quest’ultimo fosse seriamente intenzionato ad abbandonarsi alla religione, o almeno questo intuivano gli amici e i conoscenti che lo vedevano passeggiare serio in direzione della chiesa ogni giorno; ma la febbricitante propensione alla fede che lo aveva rapito, come tutte le grandi malattie, si dissolse una mattina in seguito a una lunga notte di sonno. A nulla servirono gli ammonimenti e le preghiere del parroco, Richie era ritornato il ragazzo che si faceva beffe dell’inferno e del paradiso, delle divinità e delle tonache nere, della sua musa mai però.
Questa che ho raccontato era solo una delle tante stramberie che aveva tentato per trovare qualche risposta e, probabilmente, l’idea di partire dall’America era stata una di quelle.
Non credo a chi giura che fosse una fuga da un amore non ricambiato, una di quelle ereditiere che sporadicamente Richie frequentava, se avesse cercato rifugio da qualcosa, quello era la città che non gli aveva dato niente e in cui avrebbe continuato a condurre una vita mediocre.
Più della morte, della perdita della sua cara madre, del dolore era la prospettiva dell’oblio ciò che tormentava Richie; così, dopo un bacio alla madre e un’ultima passeggiata per le strade della sua infanzia, si era sottratto al caos newyorkese che tutto nasconde e si era avventurato per mare, verso l’italia, verso L’Amstrad. 
Quella col capitano Banjo era stata un’intesa a prima vista. Dapprima l’aveva assunto come marinaio e addetto ai lavori di fatica, ben presto però si era accorto che il talento di Richie era sprecato in quelle mansioni, tanto che pian piano l’aveva reso l’uomo che ora era.
L’aspetto candido del capitano poteva essere ingannevole: egli, difatti, celava dietro i suoi modi pacati uno spiccato occhio per gli affari, anzi, potrei quasi affermare che la sua intera apparenza fosse un meccanismo di guadagno. Badate bene, ciò non contrasta con la natura di lui che ho prima descritto, i due aspetti coesistevano e si servivano armoniosamente come in tutti caratteri complessi. Chi, d’altronde, se non un burattinaio di tal genere, poteva aver radunato un corte di eccentricità paragonabile a quella che animava l’Amstrad Miral? Gli uomini dell’equipaggio non erano impiegati, erano attrazioni di una continua festa, di un circo girovagante che aveva trovato il suo fulcro in Richie.
Nonostante ciò, credo il nostro eroe non si potesse definire felice, o almeno mi diede questa impressione quando lo incontrai dopo poco tempo dal giorno in cui inizia questa storia.
Fumava tranquillo nella brezza leggera della recente partenza, la schiena appoggiata al parapetto del ponte di comando, nell’ombra. La giornata si avviava stancamente al suo capolinea e lui si era ritagliato uno dei rari momenti di pace in attesa che il capitano scoprisse il suo nascondiglio e lo restituisse ai suoi doveri, nel marasma che avrebbe entro poco tempo sconvolto il ponte principale. 
In genere i membri dell’equipaggio erano al corrente delle sue fughe nella solitudine e lo lasciavano in pace, limitandosi a passare furtivi, fingendo di ignorare la sua presenza. Si arrampicava lì, quando desiderava evadere e si godeva gli aliti del vento, il profumo del sale incrostato nelle fessure e negli spigoli, la superficie ruvida e protetta di quell’angolo discosto, dietro la cabina di comando, che aveva trasformato nel suo rifugio. Là sognava, Richie, non so bene cosa, ma sognava e anche allora stava sognando.
-  Mi scusi - una voce si fece strada dal basso nel fragoroso sciabordio delle onde, Richie la udì ma non diede cenno di essersene accorto - Mi scusi - ripeté di nuovo la voce con un marcato accento francese - Lei lassù - Richie si voltò lentamente, la testa leggermente inclinata sulla spalla destra mentre si portava pensieroso la sigaretta alla bocca. Il suo sguardo si soffermò distrattamente sull’orizzonte indorato dal tramonto incipiente, prima di scendere sulla fonte dei richiami.
Sotto di lui, sul ponte principale, la voce che aveva cercato la sua attenzione prese forma in una giovane donna. Poteva essere definita una bella ragazza, i capelli ricci le incorniciavano il volto sottile e arrossato dal sole, ricadendo sul candore delle spalle nude in un irresistibile contrasto. Indossava un vestito leggero che le cingeva il seno per poi scivolare morbido sul suo fisico magro. Sorrideva.
- La manda il capitano? - chiese Richie prendendo con calma un altro tiro dalla sigaretta.
- È lei Richard? - domandò lei a sua volta, osservandolo curiosa dalla sua posizione.
-   Mi chiami Richie, ormai quel nome… si è perso - rispose alzandosi in piedi e fissando il suo penetrante sguardo sulla ragazza, come se la osservasse davvero per la prima volta. Lei non sembrò a disagio. Richie scavalcò la balaustra calandosi a qualche passo da lei e le tese la mano.
La giovane la accettò con piacere - Sono Margot De Louvier -
- Però, un nome impegnativo - commentò lui chinandosi a baciarle il dorso della mano.
- Ormai quel nome si è perso - rise lei imitandolo.
Richie sollevò le estremità delle labbra, esibendosi in quella smorfia fascinosa che era la chiave del suo successo col popolo femminile - Che ne dice di Marge? - domandò con un leggero cenno del capo - Dove sono nato la chiamerebbero così, le dispiace? -
- Lei non è italiano? – chiese a sua volta la giovane, contrariata.
-   Solo per origini - spiegò Richie, suscitando un sorriso d’approvazione da parte della sua interlocutrice.
-  Il capitano mi ha raccomandato lei per il giro della nave- spiegò con il suo immancabile accento francese.
-  Oh, ha raccomandato me? - domandò Richie con finta sorpresa - Ne sono lusingato - aggiunse poi lanciandole un’eloquente occhiata, prima di farle strada - Mi dica Marge- disse con un particolare accento sul nome della giovane - che giro intende fare? -
-  Oh, quello che preferisce - esitò lei imbarazzata - lei deve di certo conoscere incredibilmente bene questa nave - ribatté lei, lo sguardo abbassato continuava a esaminare Richie di sottecchi, mentre lui per parte sua la osservava divertito.
-  Ai suoi ordini Marge - rispose affabile, non so se allora presentisse qualche cenno del ruolo futuro che Margot avrebbe rivestito nella sua storia, di certo era in qualche modo estasiato dalla sua bellezza ingenua.
-  Quello lassù è il ponte di comando, è là che sta il capitano - disse indicando il luogo dove prima si trovava - e detto fra noi - aggiunse poi abbassando la voce - non ama essere disturbato -
- Nemmeno lei, a quanto sembra - rispose la ragazza con una risata.
Richie abbassò il capo, come preso da un eccesso di pudore, poi lo rialzò scoprendo i denti bianchi in un vero sorriso, stavolta - Oh, io adoro la compagnia, soprattutto certa compagnia - ribatté con fare allusivo - tranne quando sono solo - disse facendole strada. Lei scoppiò nuovamente a ridere - Lei è proprio singolare, come mi aveva detto il capitano -
-  E chi non lo è? - rispose lui conducendola per uno stretto corridoio lungo la balaustra bianca della nave.
-   Lei deve avere una strana idea del mondo, le persone di solito sono così noiose - sospirò lei volgendo i grandi occhi verso il mare.
-   È questo che l’ha spinta a prendersi una vacanza sull’Amstrad? - domandò lui, continuando a precederla lungo la balaustra.
Margot arrossì - in un certo senso - ammise, mentre scendevano per una scaletta laterale - i miei genitori, forse - continuò vedendo che Richie non commentava - sa, sembra siano ossessionati dal trovarmi un marito - sbottò infine - mi scusi non so perché glielo sto dicendo - aggiunse poi, accorgendosi troppo tardi dell’impulsivo sfogo.
Richie si voltò verso di lei inaspettatamente serio - Devo avere il viso di una persona affidabile –
Margot annuì, improvvisamente si accorse che si erano fermati a metà della discesa, sentiva le dita di Richie sfiorare le sue sulla balaustra, il suo volto era così vicino che poteva scorgerne le screziature della pelle battuta dai venti.
-  Sì, sì - rispose debolmente, avvampando, così che le sue guance divennero del colore del cielo; le enigmatiche iridi di Richie erano fisse su di lei, si accorse di star trattenendo il respiro.
Sulle labbra di lui s’increspo un lieve sorriso, poi bruscamente si allontanò - Spero non le dispiaccia troppo la gente, perché qui ne incontrerà molta - annunciò scostandosi. Immediatamente alla vista di Margot si aprì quel circo di suoni e bizzarrie che sono le persone dell’alta società in festa, come se su quel ponte si fosse raccolta tutta la stranezza del mondo, pronta ad offrire a lei il più sensazionale di tutti gli spettacoli.
Richie le porse la mano aiutandola a scendere in quella celebrazione di ricchezze e ostentazione che prendeva forma nel lento avvento della sera: la magia dei sogni prendeva corpo nel vociare confuso, dall’ammirazione delle signore raccolte attorno alla fontana di diamanti, delle risate dei giovani assiepati attorno ai tavoli da gioco, dei passi concitati dei balli, del ritmo dell’orchestra jazz in giacca bianca.
Calici dei vini più pregiati si levavano in ogni dove contro il cielo scurito, mentre giovani donne in svolazzanti abiti rossi servivano tra risatine e lusinghe uomini di ogni età, i quali le stuzzicavano sotto gli occhi ostili delle mogli.
In un angolo, un uomo vestito alla turca, con un fez calcato in testa e una tunica a larghe falde, leggeva gli oroscopi e le carte da dietro una posticcia barba appuntita. Una ricca signora spaventata stava chiedendo informazioni sulla propria sorte e l’uomo travestito, un tale Silvestro, dalla pelle talmente scura che era facile scambiarla per quella di un arabo, rispondeva con enigmatici borbottii. Al passaggio di Richie, mosse in un impercettibile cenno le folte sopracciglia e un incisivo dorato, per un breve momento, baluginò verso di lui, dalla rada dentatura, poi l’uomo tornò, sgranando gli occhi, alle sue catastrofiche previsioni. 
Poco più in là, un gruppo di acrobati si esibiva in lanci di birilli e salti sui trampoli. Richie guidò la sua illustre protetta tra la folla assiepata attorno allo stupefacente evento e rimasero per qualche secondo a osservare e applaudire, i respiri vicini in quella calca di esistenze.


Fortune e disgrazie di un uomo e della sua musa
d'occhi d'oro e d'ametista
è un romanzo di Giorgia Colucci

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