Bella mia, Stefano te lo ricordi?

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DOMENICO ROMANO
 MANTOVANI

BELLA MIA,
STEFANO TE LO RICORDI?



1. Devo sapere

  

 

Sarà capace questa farfalla irriverente di rianimare l’esangue silenzio, che accompagna i miei passi? Non smette di curiosare sul mio capo ed è tutta presa nel seguirmi, con il suo battito fluttuante. Si impegna. 

Cammino. E tutto accade ora, proprio ora, in questo luogo di illusoria memoria, un cimitero. Qui il tempo particolare implode. Ma vale anche per il tempo tutto, che in ogni luogo terrestre ci percuote. Perché non c’è un tempo passato o futuro, che possa essere ricordato o anticipato, ma solo rappresentato. L’attimo è in ogni coscienza solo una puntiforme sequenza. Nessuna pretesa di divinizzare l’essere ci può salvare. Siamo un nulla presente, rispetto al tutto.

Questo è tragico, ne convengo. Ma ci accontentiamo, io e voi.

Perciò vado, ora, proprio ora.

La mia cronica infelicità non ha più un luogo, tanto mi appartiene nella sua totalità. Ci sono ormai abituato. Invece, mai mi abituerò ai guai che Stefano passò. Mentre vado, quel che voglio è trovare il modo di penetrare una volta per tutte, sino in fondo, davvero, nella sua vita. Questo mi aiuterà a non pensare alla mia esistenza: una vita difficile.

Forse, anche il fruscio riccamente prodotto dai cipressi lungo il viale sostiene la mia volontà attuale di comprendere, nella sua completa purezza e senza schermi, un’esistenza che mi sta a cuore. E non mi riferisco alla mia vita. La mia è un nulla, per come l’ho sempre interpretata. È nella vita di Stefano che sento il bisogno ormai maturo da tempo di dimorare. 

La farfalla non mi abbandona. Mi piace la sua invadenza.

Per essere chiari, in gennaio è improbabile che una farfalla si faccia viva da queste parti, librandosi su di me con allegra volontà, per poi quietarsi esausta sulle spalle. Forse me l’immagino, come si immagina a volte di essere in un’altra vita. Sarà la mia solita vena poetica a prendermi; quella di sempre, che mi ha guidato con solerzia negli anni, per approdare all’oggi. 

Può darsi non si tratti di una farfalla, ma solo di un’infiacchita poesia che mi ronza dentro, qualche verso di ampio respiro, materializzato nello spettro di luce obliqua e bassa all’orizzonte, quasi una sinestesia. Sì, una poesia trasfigurata in foglie gialle e inutili, che il vento invernale ancora e in ritardo trasporta e poi ammucchia in disparte, con discreta creanza. 

È la mia solita immaginazione - una materiale visione verbale - a rapirmi nell’avverarsi di un atto così serio, come quello di far visita a un defunto. Vedo e non vedo il contesto fisico che mi circonda. Cammino rapito da me stesso e dagli anni, ormai molti della vita. So dove sto andando e so anche chi vi troverò, in questo luogo. Ma l’atto intenzionale non è per me dei più sani. Questa visita cimiteriale è solo un’occasione, una via obbligata per giungere sino in fondo a quello che ho cercato per anni. Devo sapere l’oltre. Sapere esattamente perché tanto rancore nei confronti di Stefano. I dettagli sono importanti.

Intanto posso, volendo, convincermi che nessuna farfalla ci sia nel mio orizzonte. Mi sentirei più sollevato. È solo una foglia, un’inutile foglia, secca metafora, tardivo residuo d’autunno, quella che mulina intorno a me, nel vento, in un groviglio di gialli ricordi. Devo dissociare gli occhi dal cuore.

E se la farfalla l’avessi vista davvero? Se la sua esistenza fosse un dato, un fatto?

Credo di averla vista, lontana, vicina, dileguata e da capo al mio fianco, percepita con la coda dell’occhio: una vanessa atalanta. È qui. Mi riempie con il suo coraggioso esistere. Mi invoglia a proseguire in una vita che mi ha visto prima colpevole, verso chi mi ha voluto bene, poi penitente; in coerenza con l’arco di vita che dopo i quaranta ci fa tutti riflessivi e pronti al perdono verso i nostri genitori, a volte in gioventù oggetto di risentimenti e di caustici giudizi. Gli alterchi continui sono il marchio di una relazione asimmetrica tra genitori e figli. È così da sempre. Non si può far nulla. Il tardivo perdono nella maturità è solo un anticipo di senilità, quando si è più propensi a sentirsi buoni. 

Tutto questo a causa del rancore, incoerente rancore, che mi trascinavo nei confronti di mia madre. Risentimento oggi risibile e nullo, per come vedo finalmente le cose. Avrei dovuto ravvedermi prima e prima perdonare. È troppo tardi per tornare indietro; e quello che è stato lo si deve solo accettare. Il perdono tardivo non ha valore reale. È solo un risarcimento morale da outlet.

Ma è di Stefano che si dovrà parlare; di me lo faremo in seguito.

Percorro un viale alberato e mesto. È inverno. Ma in questo mio paese del Sud, con l’Adriatico a pochi chilometri, sovente gli inverni sono quasi primavere, così come le primavere raggelano nelle impreviste perturbazioni di scambi d’aria calda e fredda. I poli e i tropici negoziano questo minuetto a passi brevi, lasciando attoniti un po’ tutti a rivangare falsi ricordi, che immancabilmente diventano argomento da osteria o che so io. “Ti ricordi la nevicata del cinquantasei ad aprile?” “E i venticinque gradi a febbraio?” E via così.

È un inverno mite. Forse la mia farfalla non è per niente un’illusoria incarnazione di percezioni fallaci e fuorvianti, complici i raggi del sole. Socializza. Un curioso evento comunicativo. Vuole dirmi qualcosa. Spesso le farfalle lo fanno. C’è davvero, credo; e fa da contrasto all’atto mio nero, che in questo momento mi avviluppa, mentre cammino cauto lungo tristi e inceneriti dal tempo viottoli cimiteriali.

È nera la mia farfalla, a macchie arancio, grandi, come grandi le sue ali si affannano in quel corpo che poco ancora vivrà, così come poco ci accingiamo noi a vivere, già appena concepiti.

Non diamo spazio ad antiche contrizioni. Diamoci da fare nell’andata oltre; e percorriamolo questo spazio indesiderato.

Raggiungo l’ingresso: un enorme e fuori tempo vetusto cancello. Una poverella, una ragazzina nomade di forse dodici anni, tende la mano.

«Dopo» le dico «quando esco.»

Lei mi guarda, annuisce. Tanto di lì dovrò passare da capo e per forza. Non sia mai che sfugga alla sua richiesta. In verità, dirò, nemmeno tanto insistente; ma convincente quanto basta. 

Devo riconoscere che dire “da capo e per forza” ha tutta l’aria di un ostentato augurio, che faccio a me stesso. Finire la mia vita in questo luogo funereo potrebbe anche accadere. Sarebbe un evento possibile, anche se poco probabile, se ci affidiamo alle statistiche sulle aspettative di vita e alla coincidenza di morire in un cimitero. Che beffa! Non vi pare? Un umorismo irresistibile. La fortuna che mi ha permesso di diventare qualcuno vigila ancora su di me. Chiamatela come volete: fortuna, destino, casualità, mano divina. Poco importa. Io sono vivo e vegeto. Perciò, è improbabile che ci lasci le penne proprio qui. 

Vi informo soltanto, per ora, che ne ho subite di tribolazioni, come anche Stefano ne ha passate. Io, però, sono sempre caduto in piedi. 

L’accontenterò dopo, la zingarella. Non mi costa nulla. Anzi le darò una banconota da dieci euro. I soldi non mi mancano. Ma non dico “grazie a Dio”, perché Dio in questa faccenda dei soldi non c’entra proprio nulla. E nel mio caso è solo frutto del talento. Come musicista ne ho fatta di strada, con lauti guadagni a esaltare un successo importante.

L’ora è tarda, per un pomeriggio d’inverno. Manca poco alla chiusura. So che Franco è qui. Devo parlargli. Voglio che mi dica una volta per tutte perché tanto rancore verso suo figlio Stefano.

Che sia ben chiaro. È in primo luogo di lui, di Stefano, che mi preme dire. Di lui, dei suoi meriti e demeriti, della sua sanguigna volontà di affrontare la vita come nelle giostre medievali; sfide a cui si assiste come spettatori di sé stessi. È una crescita indomita, che dura tutta una vita, tra dolori isterici, cui fanno da contraltare risa sfrenate. Forse, anche con alterni ritorni ad atti d’amore, verso i propri cari o un’innamorata o l’umanità tutta, che non siamo mai stati in grado di apprezzare, perché fuggitivi, per codardia, ma anche per troppa passione.

Non mi va qui di descrivere, né riportare o dipingere o musicare in tetro e drammatico tono questo cimitero, che altro non è se non l’umana e pragmatica azione conclusiva di chi umano in vita non ha saputo essere. Tutti bravi e puliti, alla fine. Tutti buoni a rabbonire il peggio del peggio, che umanamente la brutale bestialità degli uomini sa presentare. Altro che evoluzione darwiniana della specie; altro che evoluzione culturale, civiltà. Con il diritto si ammazza il diritto dei deboli, con la cultura si esorcizza una ferocia, sempre sublimata. I colpevoli, anche di atroci delitti, devono essere custoditi e socialmente reintegrati, secondo la legge dei più forti; mentre le vittime vanno dimenticate, come incidenti di percorso, escluse dal risarcimento. A loro, ai miti e ai deboli, spetta solo perdonare. Il debole perdona il forte, e il forte continua a troneggiare. Il violento andrà reintrodotto nella società, mentre il mite è scomparso per sempre. È un morto, come lo sono i suoi cari, che ne pagano la perdita.

Senza i cimiteri esisterebbe l’umanità? Non credo, per come la civiltà ci è stata descritta dagli antropologi. L’inumazione ha dato il via a un percorso di progressivo e civile affinamento culturale. Anche se l’antropofagia, il cannibalismo hanno mostrato come uno stomaco possa essere tomba eletta per eccellenza. In fondo, la cosa non ci interessa più di tanto. Oggi o domani prendiamoci quel che ci spetta, se ci spetta. Fabbrichiamoci pure i cimiteri e diamoci parvenza di bontà nel ricordare e rispettare i defunti. Ma tutto è vano. Animali restiamo; essi certamente più schietti nel loro vivere. Volete che vi parli della violenza, delle guerre, degli inganni? Non è il caso.

Il resto sono tutte balle. Scientifiche, certo, capaci di spiegare che così e così deve essere. Ma sono balle per la vita.

Nei cimiteri ci scontriamo con noi stessi e nella folle paura, che un bel giorno ci prenderà con disperazione nel trapasso. Ma perché lacerarsi se tutto deve essere? Perché intimorirsi se nel trapasso non avremo coscienza né dell’essere né del non essere? 

Intanto, tocchiamo ferro e andiamo, a passi calmi, senza rumore apparente. 

Nelle mie scarpe ci sto alla grande, la suola traspirante e di ottima qualità. Sono anche waterproof, una bella invenzione. Ma sono anche la fine delle dignità di quanti, in altri luoghi del mondo, per questo bel risultato devono sudare e spezzarsi la schiena e le mani e gli occhi.

Non divaghiamo. Un poeta, un musicista non può perdersi in politiche da talk show. Deve produrre sensazioni, emozioni. Il resto non gli appartiene.

Quindi, niente tombe; e niente piagnistei o truci apparizioni di viali scolpiti con cipressi imponenti. Almeno per rispetto della giovane nomade, che mi aspetta al cancello, accovacciata sui gradini.

Farò visita a Martina, morta un mese fa all’età di settantadue anni. E facendo visita a lei, so che lì troverò qualcuno. Qualcuno da cui voglio sapere una volta per tutte come stanno davvero le cose. Franco non potrà sfuggire a questo. Né fisicamente né moralmente potrà farlo. Ha settantacinque anni e un residuo di vita pronto a ghermirlo, silente, verso il suo epilogo. Per tutti sono momenti ultimi, che per loro essenza sospingono l’uomo, pallido e penitente e indebolito verso epocali e senili confessioni, mai veritiere sino in fondo.

Prima passerò a salutare i miei nonni materni. So dove riposano. Riposano! Quante antiche propaggini la prima cristianità ha gettato fino a noi con la parola “cimitero”, a indicare un dormitorio. Dormire per poi... 

In questo luogo incontrerò Franco. Non per mia millantata preveggenza, ma molto più prosaicamente perché ne ho avuto notizia proprio da Stefano, che sono passato a salutare al suo paese, molti chilometri più a Sud. Una bella città bianca di calce, imbambolata su tre colli che guardano verso il mare e la spiaggia e i tramonti magici di un mare fragile e arrogante, come il nostro Mediterraneo sa essere.

A dire il vero proprio suo, di Stefano, il paese non lo è mai stato. Con esso ha sempre avuto un rapporto difficile; e alla fine è fuggito, per lunghi anni, infuriato con tutti e ferito da coloro che avrebbero dovuto amarlo, essendosi presi cura di lui. E questo anche in eccesso, com’è in effetti accaduto. Ma le cure e l’affanno nel dare affetto non sono capaci di narrare un amore familiare. Ben altro serve a un figlio. Una carezza, forse, specie per ridare senso a un rapporto con un padre dotato di buona indole, ma distante, vicino e pur lontano, duro, estraneo alla vita di un figlio, che chiedeva di crescere, in attesa di conoscere il contenuto epico, ingaggiato nella sfida con il mondo. Franco è stato tutto questo: un padre difficile. E suo figlio Stefano anche, ora quarantacinquenne. Il prototipo sempre uguale del binomio genitore-figlio, intessuto di amore e di odio. È una struttura sempre presente fra due generazioni.

Ecco, si avrà modo di dire meglio di Stefano, con accurata curiosità, quando lo sentiremo spingere nel racconto con il suo destino rifiutato. 

Intanto, mi preme rivedere da lontano alcuni momenti importanti della vita di suo padre, Franco, il paese, gli studi, l’amore per Martina, sua moglie. Mi aiuteranno a comprendere come un uomo buono e perbene fosse diventato un così difficile padre, pur avendo serie ragioni a suo favore. Allontanarmi dall’oggi mi farà bene, per capire meglio come la bontà sia sempre l’esito di un risentimento represso, così come l’acrimonia aggressiva faccia binomio con una bontà che cerca spazio. È così che si costruisce la storia, con piccoli e grandi passi, che vedono il tutto e si servono dell’uno.


Bella mia, Stefano te lo ricordi?

è un romanzo di Domenico Romano Mantovani


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