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NEGLI
OCCHI DELLA MEMORIA
Ore 06:30.
La sveglia rintronò nei miei timpani
come un martello pneumatico in un pomeriggio estivo dove, anche a metri di
distanza, riesci a percepire il puzzo del metallo caldo sul bitume fratturato,
sotto le decine di colpi al secondo.
«Altri cinque
minuti» dissi tra me e me.
E con le palpebre
che pesavano come il piombo, su quegli occhi stanchi, mi voltai dall’altra
parte e spensi la piccola sveglia sul comodino.
Però ebbi subito
la sensazione che quel soffice letto che mi aveva accolto come in un abbraccio
materno, era divenuto simile al tavolaccio di un condannato a morte.
Decisi così di
alzarmi. Tanto, ogni tentativo di girarci intorno sarebbe stato inutile, oltre
che una perdita di tempo prezioso.
In posizione
fetale feci scivolare fuori le gambe e, a seguire, tutto il resto del corpo
accompagnò quel morbido movimento, fino a ritrovarmi completamente seduto.
Infilai dolcemente le mie pantofole appaiate su quel vecchio scendiletto ormai
logoro dal tempo.
Rimasi così per alcuni
istanti, mentre ancora leggermente ricurvo, quasi rannicchiato su me stesso,
soffiavo nelle gelide mani per riscaldarle.
Il medico, tempo
fa, mi consigliò di non alzarmi troppo velocemente, per evitare giramenti di
testa a causa della mia pressione bassa. Inoltre, così facendo, avrei solo
caricato di quel minimo indispensabile la mia spina dorsale. A quarantacinque
anni suonati incominciano a far capolino i primi acciacchi.
Accompagnato da
un corposo ed assonnato sbadiglio, con gli occhi appena socchiusi, mi alzai e
mi diressi in cucina e accesi la cuccumella, che adoro particolarmente,
preparata secondo la tradizione.
Come diceva
sempre mia madre, da napoletana verace quale era: “Non per presunzione, ma il
caffè, in Italia, lo hanno inventato i napoletani.”
Ed è vero! ‘O cafè! E non quello fatto con la moka di oggi o con quelle diavolerie
espresse, con le cialde, no. Fatto con la cuccumella è tutta un’altra cosa.
Per ottimizzare
il tempo di attesa mi diressi in bagno per darmi una sistemata. Adoravo l’acqua
fredda sul viso ancora assopito, mi procurava la giusta sferzata di energia che
serve per iniziare la giornata.
Mi asciugai
vigorosamente.
Ma, quando tolsi l’asciugamano,
la mia immagine riflessa sul quel vecchio specchio, leggermente maculato dalla
muffa, lasciò intravedere un leggero aumento della stempiatura.
Un po’ preoccupato,
rivolsi lo sguardo in basso e vidi che tre sottili capelli avevano abbandonato
il mio capo; esanimi, come valorosi guerrieri caduti in battaglia, ora giacevano
lì, nell’umido e candido lavandino che, in quel momento, sembrava avesse
assunto le fattezze di una lapide marmorea.
«Addio miei
adorati, è stato bello aver condiviso con voi momenti lieti e spensierati di
gioventù» li salutai, facendo un cenno con la mano e con una smorfia a labbra
serrate. Aprii poi delicatamente il rubinetto.
Mentre li
osservavo scomparire rapidamente, nell’inesorabile vortice dello scarico, il
forte aroma di caffè mi riportò alla realtà.
Una rapida
pettinatina a quella che un tempo era una fluente chioma e, in men che non si
dica, ero già pronto con la cuccumella saldamente in mano per girarla.
Come dicevo, il
caffè è arte e quello napoletano è paragonabile ad un dipinto di Renoir,
specialista di luci ed ombre.
E così anche l’inventore
della caffettiera napoletana, un certo Morize, tra l’altro anch’egli francese
come Renoir, con un gioco di acqua e caffè, dosati sapientemente,
era l’impressionista della cuccumella.
In pochi minuti
mi ritrovai tra le mani un piccolo capolavoro da degustare, dentro una raffinata
ed elegante tazzina di porcellana Limoges, decorata sapientemente a mano. Unico
superstite recuperato da un set: regalo di nozze di… non so più chi. Era ormai
l’unico vizio a cui non avrei mai potuto rinunciarvi, per nulla al mondo. La
mattina specialmente, non c’è di meglio di una tazza di oro nero bollente, così l’ho ribattezzato, ad inebriarmi l’anima e
riscaldarmi il corpo.
Oltretutto nella
notte la temperatura era scesa repentinamente e tra quelle vecchie mura faceva abbastanza
freddo, ma accendere il camino era escluso per ovvie ragioni di tempistica.
Ero tornato nel
vecchio casale dei miei genitori: nel Trevigiano, a dieci minuti circa da
Vittorio Veneto e Valdobbiadene, da quando mia madre, sei mesi fa, esattamente
il 3 maggio, decise che il suo tempo in questa valle di lacrime, era ormai
giunto al termine. E sì che soffrì, e non poco, per la morte di mio padre. Finì
accidentalmente investito dal suo stesso trattore-motocoltivatore, durante la
vangatura del nuovo appezzamento di terra. Da quel giorno si era consumata in
quel drammatico ricordo.
In questi luoghi mi tornano alla
memoria i suoni, i profumi, gli odori della vita genuina di un tempo: di quando
a buio inoltrato attendavamo mio padre che rientrasse dalla campagna. Quante
volte affacciato alla finestra della mia cameretta che dà proprio sulla strada
che porta al podere, restavo immobile per ore aspettando il suo ritorno. Ed ora
è tutto finito. Non un rumore di passi agitati di una moglie in ansia, non una
luce lontana che nel buio, riflettendosi negli occhi, ti riscaldava il cuore.
Dopo la sua morte, mia madre non ha più voluto che qualcun altro mettesse le
mani su queste vigne che, come quasi per magia, hanno continuato a produrre una
magnifica uva. È come se il fantasma di mio padre avesse continuato, in qualche
modo, a restare legato a queste terre. Oggi, io vorrei tanto non lasciarle
andare in malora, ma… non saprei proprio dove mettere le mani. Ed oltretutto
fisicamente non sono in grado di farlo; dopo l’incidente d’auto avuto un anno e
mezzo fa, sono rimasto lievemente offeso alla gamba destra.
Feci
l’ultimo sorso di caffè comodamente seduto a tavola, al solito posto, quando il
mio sguardo si posò sulla vecchissima zappa ancora saldamente attaccata al
muro, proprio sopra il caminetto. Immediatamente la memoria mi riportò in
dietro…
Ricordo che tutte le mattine, mentre
facevo colazione, mio padre me la indicava e prima di recarmi a scuola mi
diceva:
«Marcolino!», era
così che mi chiamava, «La vedi quella zappa lì? Era del padre di tuo nonno, poi
sua e mia dopo di lui e, se tu non studi e non vai bene a scuola, è lì che ti
aspetta!»
Invece, un po’ per timore, un po’
per non deluderlo, alla fine finii anche per diplomarmi. E quella seguente fu
la mia ultima estate passata interamente con i miei genitori, prima di
trasferirmi a Roma per frequentare l’università.
Ricordo che un pomeriggio, costretto
a rimanere in casa durante un violento temporale estivo, mio padre che con la
sua pipa in mano era solito sedersi di fronte al camino, anche se spento, mi
chiamò a sé, mentre me ne stavo seduto al tavolo da pranzo posto vicino ai
fornelli, immerso nei racconti di mia madre indaffarata ad impastare il pane.
Mi girai ad osservarlo, mentre dalla
sua vecchia e logora poltrona si vedevano solo spuntare sbuffi di fumo,
spezzati dal suo braccio che mi faceva cenno di andare da lui, come se avesse
capito che lo stavo osservando. Lo raggiunsi e, continuando a fissare il grande
camino spento, mi chiese che intenzioni avessi per il futuro; se fossi stato
intenzionato a proseguire gli studi, oppure a rimanere con lui a lavorare nelle
vigne di famiglia. Era chiaro che il suo desiderio, per quanto celato da quelle
parole così dirette, era quello di avermi al suo fianco. Era impaziente di tramandarmi
le tradizioni e tutti i segreti del mestiere. Ma da bambino, ogni qual volta lo
vedevo rientrare dai campi, non potevo fare a meno di notare i solchi del tempo
e della fatica che inesorabilmente, giorno dopo giorno, si abbattevano sul suo
corpo, sul viso e su quelle mani che non hanno mai ceduto, neanche un solo
istante. Ed anche se madre natura era stata generosa con lui, donandogli una
corporatura robusta e non facendoci mai mancare nulla, non era affatto la vita
che avrei voluto fare. Esitai un attimo nel rispondere, poi chinai la testa e
con la voce spezzata per la mancanza di saliva che in quel momento era
inspiegabilmente evaporata, gli dissi che sarebbe stato mio desiderio
continuare gli studi. Si alzò dalla poltrona, si avvicinò al caminetto e con il
capo curvo iniziò a battere delicatamente la pipa sul suo bordo per farne
uscire la cenere, poi si voltò leggermente e guardandomi di sbieco disse:
«E sia!»
Si mise la pipa ancora tiepida, nel
taschino del gilè e si diresse verso la sua camera da letto. Io rimasi impietrito
di fianco la poltrona, con lo sguardo cercai conforto negli occhi di mia madre
che prontamente mi diede sostegno con un sorriso, facendomi cenno di andare da
lei, per aiutarla ad infornare le pagnotte che erano ormai pronte per la
cottura.
«Non preoccuparti figlio mio, tuo padre è una persona
intelligente e farà sempre il tuo bene, ricordalo. Ora su, apri il forno!» ordinò
mia madre, mentre teneva in mano la teglia con le pagnotte che già profumavano
di buono.
Il forno era un secondo caminetto che costruì mio nonno,
quando mio padre era ancora piccolo, posto in alto, ad altezza uomo di fianco
la vecchia e grande cucina in pietra.
D’un tratto, con la coda dell’occhio, rividi la sagoma di mio
padre, che nel frattempo era uscito dalla camera da letto, con in mano una
grande scatola di legno.
Giunto nei pressi del tavolo della cucina si fermò, i suoi
occhi blu pieni di orgoglio fissarono i miei per qualche istante. Mi scrutò
così a fondo, che ebbi la sensazione che volesse rovistarmi nell’anima in cerca
di qualcosa che solo lui avrebbe sicuramente potuto trovare. Poi fece un
sorriso annuendo, ma fu breve, perché torno subito serio. Poggiò la scatola sul
tavolo ancora sporco di farina e dalla dispensa prese tre bicchieri e una bottiglia
del suo vino migliore, quello che teneva da conto per le occasioni importanti.
Lo stappò con una tale delicatezza, che stonava con quelle sue gradi mani
ruvide e crespe, che quasi sembravano uscite da un dipinto di Van Gogh. Ne
versò un po’ nel bicchiere e agitandolo dolcemente ne annusò il bouquet, fece poi
un sorso e quelle strane mosse con la bocca che i sommelier usano fare per
ossigenare il vino.
Osservavo quelle sue movenze, era come se stesse danzando
sulle note di un valzer viennese, ma in totale dissonanza con la ruvida
fisicità.
Poi i muscoli del suo viso come d’incanto si distesero
compiaciuti, come se quel nettare fosse stato in grado di ridargli la
giovinezza di un ricordo perso nel tempo; rimasto indietro, tra quei filari. Ne versò negli altri bicchieri, uno lo porse a mia madre con
fierezza come avesse vinto il giro d’Italia e per ultimo a me. Alzò il suo e
disse:
«Brindo, al
futuro di mio figlio. Di nostro figlio. Un ragazzo che ha tenuto alta l’onorabilità
di questa famiglia e si è sempre impegnato nello studio, con tutte le sue
forze… Pur di non fare il contadino!»
Diventai paonazzo, ma fece un
sorriso e noi accompagnammo il suo brindisi con un cincin. In quel momento un
lieve velo di tristezza mi passò davanti, mentre osservavo mio padre che
soddisfatto, ammirava e degustava il suo rosso e prezioso nettare. Quei gesti,
apparentemente insignificanti, erano ricchi di conoscenza, di maestria, di una
storia profonda, tramandata da generazione in generazione e solo chi, come lui,
ama la terra che calpesta può capirlo. Compresi che quel vino, per quanto
prezioso potesse essere per qualcuno, per mio padre rappresentava il suo stesso
sangue. Soddisfatto, posò le sue grandi mani sulla cassetta che aveva portato
e, guardandomi ancora diritto negli occhi, mi disse:
«Marcolino, qui ci sono i soldi che con gli anni io e tua
madre abbiamo messo via per il tuo futuro, per farti proseguire gli studi se un
giorno mai ci saresti arrivato. Bene! Sembrerebbe che quel giorno sia giunto.
Prendili, ora sono tuoi! Fanne buon uso: perché questi sono gli unici che
possiamo darti.»
Poi
mi strinse a sé con un tale vigore, da sentire tutta la forza che aveva
impiegato negli anni, nel coltivare la terra che ci ha sfamati e in quell’abbraccio
c’era il profumo del sudore, per tutte le volte che lo ha versato tra quelle
viti robuste come lui, collanti di una famiglia colma di dignità.
Un brivido mi percorse lungo tutta
la schiena e il freddo che abitava in quel vecchio casale, mi riportò alla
cruda realtà, mentre la memoria seguiva l’ombra di mio padre uscire di casa e
scendere giù per i campi.
In quello stesso momento scattai in piedi, mi diressi nella mia camera da letto, presi il telefono che era in carica sul comodino e composi il numero che avrei dovuto chiamare per confermare l’appuntamento:
In quello stesso momento scattai in piedi, mi diressi nella mia camera da letto, presi il telefono che era in carica sul comodino e composi il numero che avrei dovuto chiamare per confermare l’appuntamento:
«Pronto? Parlo
con il signor Bruson dell’azienda: Santex S.p.A. stoccaggio rifiuti? Si, salve,
buongiorno, sono Marco Masiero… Si esatto, dovevamo vederci dal notaio per la
vendita del casale e della vigna. Volevo avvisarla che ci ho riflettuto su e non
sono più disposto a vendere, perché avrei intenzione di far ripartire questa
azienda… Certo che sono consapevole delle mille difficoltà, ma a combattere non
sarò da solo… La saluto e mi scuso per averle fatto perdere del tempo.»
Click.
Solo adesso capisco
che le vere colonne portanti di un popolo sono legate alle tradizioni, alla
terra che ci ha visto nascere, crescere, correre e fino a quando onoreremo
questi valori… Fino a quando proteggeremo la mano che ci ha sfamati, anche quando
non la vedremo più; allora e solo allora, potremmo dire di esserci guadagnati
il rispetto da questo mondo. Non so ancora come, ma sono deciso a restaurare
queste colonne portanti, fatte di vita, sacrifici e sudore, per rispetto a questa
terra che ha sempre dato tanto, chiedendo in cambio solo un po’ d’amore e di
rispetto.
In quella fredda mattinata, uscii di
casa, mi tolsi le scarpe e, a piedi nudi e col cuore gonfio, scomparvi nell’abbraccio
di quella vigna, persa negli occhi della memoria.
Negli occhi della memoria è un racconto di Lucio Doria
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