Negli occhi della memoria

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LUCIO DORIA

NEGLI OCCHI DELLA MEMORIA





Ore 06:30.

La sveglia rintronò nei miei timpani come un martello pneumatico in un pomeriggio estivo dove, anche a metri di distanza, riesci a percepire il puzzo del metallo caldo sul bitume fratturato, sotto le decine di colpi al secondo.
«Altri cinque minuti» dissi tra me e me.
E con le palpebre che pesavano come il piombo, su quegli occhi stanchi, mi voltai dall’altra parte e spensi la piccola sveglia sul comodino.
Però ebbi subito la sensazione che quel soffice letto che mi aveva accolto come in un abbraccio materno, era divenuto simile al tavolaccio di un condannato a morte.
Decisi così di alzarmi. Tanto, ogni tentativo di girarci intorno sarebbe stato inutile, oltre che una perdita di tempo prezioso.
In posizione fetale feci scivolare fuori le gambe e, a seguire, tutto il resto del corpo accompagnò quel morbido movimento, fino a ritrovarmi completamente seduto. Infilai dolcemente le mie pantofole appaiate su quel vecchio scendiletto ormai logoro dal tempo.
Rimasi così per alcuni istanti, mentre ancora leggermente ricurvo, quasi rannicchiato su me stesso, soffiavo nelle gelide mani per riscaldarle.
Il medico, tempo fa, mi consigliò di non alzarmi troppo velocemente, per evitare giramenti di testa a causa della mia pressione bassa. Inoltre, così facendo, avrei solo caricato di quel minimo indispensabile la mia spina dorsale. A quarantacinque anni suonati incominciano a far capolino i primi acciacchi.
Accompagnato da un corposo ed assonnato sbadiglio, con gli occhi appena socchiusi, mi alzai e mi diressi in cucina e accesi la cuccumella, che adoro particolarmente, preparata secondo la tradizione.
Come diceva sempre mia madre, da napoletana verace quale era: “Non per presunzione, ma il caffè, in Italia, lo hanno inventato i napoletani.”
Ed è vero! ‘O cafè! E non quello fatto con la moka di oggi o con quelle diavolerie espresse, con le cialde, no. Fatto con la cuccumella è tutta un’altra cosa.
Per ottimizzare il tempo di attesa mi diressi in bagno per darmi una sistemata. Adoravo l’acqua fredda sul viso ancora assopito, mi procurava la giusta sferzata di energia che serve per iniziare la giornata.
Mi asciugai vigorosamente.
Ma, quando tolsi l’asciugamano, la mia immagine riflessa sul quel vecchio specchio, leggermente maculato dalla muffa, lasciò intravedere un leggero aumento della stempiatura.
Un po’ preoccupato, rivolsi lo sguardo in basso e vidi che tre sottili capelli avevano abbandonato il mio capo; esanimi, come valorosi guerrieri caduti in battaglia, ora giacevano lì, nell’umido e candido lavandino che, in quel momento, sembrava avesse assunto le fattezze di una lapide marmorea.
«Addio miei adorati, è stato bello aver condiviso con voi momenti lieti e spensierati di gioventù» li salutai, facendo un cenno con la mano e con una smorfia a labbra serrate. Aprii poi delicatamente il rubinetto.
Mentre li osservavo scomparire rapidamente, nell’inesorabile vortice dello scarico, il forte aroma di caffè mi riportò alla realtà.
Una rapida pettinatina a quella che un tempo era una fluente chioma e, in men che non si dica, ero già pronto con la cuccumella saldamente in mano per girarla.
Come dicevo, il caffè è arte e quello napoletano è paragonabile ad un dipinto di Renoir, specialista di luci ed ombre.
E così anche l’inventore della caffettiera napoletana, un certo Morize, tra l’altro anch’egli francese come Renoir, con un gioco di acqua e caffè, dosati sapientemente, era l’impressionista della cuccumella.
In pochi minuti mi ritrovai tra le mani un piccolo capolavoro da degustare, dentro una raffinata ed elegante tazzina di porcellana Limoges, decorata sapientemente a mano. Unico superstite recuperato da un set: regalo di nozze di… non so più chi. Era ormai l’unico vizio a cui non avrei mai potuto rinunciarvi, per nulla al mondo. La mattina specialmente, non c’è di meglio di una tazza di oro nero bollente, così l’ho ribattezzato, ad inebriarmi l’anima e riscaldarmi il corpo.
Oltretutto nella notte la temperatura era scesa repentinamente e tra quelle vecchie mura faceva abbastanza freddo, ma accendere il camino era escluso per ovvie ragioni di tempistica.
Ero tornato nel vecchio casale dei miei genitori: nel Trevigiano, a dieci minuti circa da Vittorio Veneto e Valdobbiadene, da quando mia madre, sei mesi fa, esattamente il 3 maggio, decise che il suo tempo in questa valle di lacrime, era ormai giunto al termine. E sì che soffrì, e non poco, per la morte di mio padre. Finì accidentalmente investito dal suo stesso trattore-motocoltivatore, durante la vangatura del nuovo appezzamento di terra. Da quel giorno si era consumata in quel drammatico ricordo.
In questi luoghi mi tornano alla memoria i suoni, i profumi, gli odori della vita genuina di un tempo: di quando a buio inoltrato attendavamo mio padre che rientrasse dalla campagna. Quante volte affacciato alla finestra della mia cameretta che dà proprio sulla strada che porta al podere, restavo immobile per ore aspettando il suo ritorno. Ed ora è tutto finito. Non un rumore di passi agitati di una moglie in ansia, non una luce lontana che nel buio, riflettendosi negli occhi, ti riscaldava il cuore. Dopo la sua morte, mia madre non ha più voluto che qualcun altro mettesse le mani su queste vigne che, come quasi per magia, hanno continuato a produrre una magnifica uva. È come se il fantasma di mio padre avesse continuato, in qualche modo, a restare legato a queste terre. Oggi, io vorrei tanto non lasciarle andare in malora, ma… non saprei proprio dove mettere le mani. Ed oltretutto fisicamente non sono in grado di farlo; dopo l’incidente d’auto avuto un anno e mezzo fa, sono rimasto lievemente offeso alla gamba destra.
Feci l’ultimo sorso di caffè comodamente seduto a tavola, al solito posto, quando il mio sguardo si posò sulla vecchissima zappa ancora saldamente attaccata al muro, proprio sopra il caminetto. Immediatamente la memoria mi riportò in dietro…
Ricordo che tutte le mattine, mentre facevo colazione, mio padre me la indicava e prima di recarmi a scuola mi diceva:
«Marcolino!», era così che mi chiamava, «La vedi quella zappa lì? Era del padre di tuo nonno, poi sua e mia dopo di lui e, se tu non studi e non vai bene a scuola, è lì che ti aspetta!»
Invece, un po’ per timore, un po’ per non deluderlo, alla fine finii anche per diplomarmi. E quella seguente fu la mia ultima estate passata interamente con i miei genitori, prima di trasferirmi a Roma per frequentare l’università.
Ricordo che un pomeriggio, costretto a rimanere in casa durante un violento temporale estivo, mio padre che con la sua pipa in mano era solito sedersi di fronte al camino, anche se spento, mi chiamò a sé, mentre me ne stavo seduto al tavolo da pranzo posto vicino ai fornelli, immerso nei racconti di mia madre indaffarata ad impastare il pane.
Mi girai ad osservarlo, mentre dalla sua vecchia e logora poltrona si vedevano solo spuntare sbuffi di fumo, spezzati dal suo braccio che mi faceva cenno di andare da lui, come se avesse capito che lo stavo osservando. Lo raggiunsi e, continuando a fissare il grande camino spento, mi chiese che intenzioni avessi per il futuro; se fossi stato intenzionato a proseguire gli studi, oppure a rimanere con lui a lavorare nelle vigne di famiglia. Era chiaro che il suo desiderio, per quanto celato da quelle parole così dirette, era quello di avermi al suo fianco. Era impaziente di tramandarmi le tradizioni e tutti i segreti del mestiere. Ma da bambino, ogni qual volta lo vedevo rientrare dai campi, non potevo fare a meno di notare i solchi del tempo e della fatica che inesorabilmente, giorno dopo giorno, si abbattevano sul suo corpo, sul viso e su quelle mani che non hanno mai ceduto, neanche un solo istante. Ed anche se madre natura era stata generosa con lui, donandogli una corporatura robusta e non facendoci mai mancare nulla, non era affatto la vita che avrei voluto fare. Esitai un attimo nel rispondere, poi chinai la testa e con la voce spezzata per la mancanza di saliva che in quel momento era inspiegabilmente evaporata, gli dissi che sarebbe stato mio desiderio continuare gli studi. Si alzò dalla poltrona, si avvicinò al caminetto e con il capo curvo iniziò a battere delicatamente la pipa sul suo bordo per farne uscire la cenere, poi si voltò leggermente e guardandomi di sbieco disse:
«E sia!»
Si mise la pipa ancora tiepida, nel taschino del gilè e si diresse verso la sua camera da letto. Io rimasi impietrito di fianco la poltrona, con lo sguardo cercai conforto negli occhi di mia madre che prontamente mi diede sostegno con un sorriso, facendomi cenno di andare da lei, per aiutarla ad infornare le pagnotte che erano ormai pronte per la cottura.
«Non preoccuparti figlio mio, tuo padre è una persona intelligente e farà sempre il tuo bene, ricordalo. Ora su, apri il forno!» ordinò mia madre, mentre teneva in mano la teglia con le pagnotte che già profumavano di buono.
Il forno era un secondo caminetto che costruì mio nonno, quando mio padre era ancora piccolo, posto in alto, ad altezza uomo di fianco la vecchia e grande cucina in pietra.
D’un tratto, con la coda dell’occhio, rividi la sagoma di mio padre, che nel frattempo era uscito dalla camera da letto, con in mano una grande scatola di legno.
Giunto nei pressi del tavolo della cucina si fermò, i suoi occhi blu pieni di orgoglio fissarono i miei per qualche istante. Mi scrutò così a fondo, che ebbi la sensazione che volesse rovistarmi nell’anima in cerca di qualcosa che solo lui avrebbe sicuramente potuto trovare. Poi fece un sorriso annuendo, ma fu breve, perché torno subito serio. Poggiò la scatola sul tavolo ancora sporco di farina e dalla dispensa prese tre bicchieri e una bottiglia del suo vino migliore, quello che teneva da conto per le occasioni importanti. Lo stappò con una tale delicatezza, che stonava con quelle sue gradi mani ruvide e crespe, che quasi sembravano uscite da un dipinto di Van Gogh. Ne versò un po’ nel bicchiere e agitandolo dolcemente ne annusò il bouquet, fece poi un sorso e quelle strane mosse con la bocca che i sommelier usano fare per ossigenare il vino.
Osservavo quelle sue movenze, era come se stesse danzando sulle note di un valzer viennese, ma in totale dissonanza con la ruvida fisicità.
Poi i muscoli del suo viso come d’incanto si distesero compiaciuti, come se quel nettare fosse stato in grado di ridargli la giovinezza di un ricordo perso nel tempo; rimasto indietro, tra quei filari. Ne versò negli altri bicchieri, uno lo porse a mia madre con fierezza come avesse vinto il giro d’Italia e per ultimo a me. Alzò il suo e disse:
«Brindo, al futuro di mio figlio. Di nostro figlio. Un ragazzo che ha tenuto alta l’onorabilità di questa famiglia e si è sempre impegnato nello studio, con tutte le sue forze… Pur di non fare il contadino!»
Diventai paonazzo, ma fece un sorriso e noi accompagnammo il suo brindisi con un cincin. In quel momento un lieve velo di tristezza mi passò davanti, mentre osservavo mio padre che soddisfatto, ammirava e degustava il suo rosso e prezioso nettare. Quei gesti, apparentemente insignificanti, erano ricchi di conoscenza, di maestria, di una storia profonda, tramandata da generazione in generazione e solo chi, come lui, ama la terra che calpesta può capirlo. Compresi che quel vino, per quanto prezioso potesse essere per qualcuno, per mio padre rappresentava il suo stesso sangue. Soddisfatto, posò le sue grandi mani sulla cassetta che aveva portato e, guardandomi ancora diritto negli occhi, mi disse:
«Marcolino, qui ci sono i soldi che con gli anni io e tua madre abbiamo messo via per il tuo futuro, per farti proseguire gli studi se un giorno mai ci saresti arrivato. Bene! Sembrerebbe che quel giorno sia giunto. Prendili, ora sono tuoi! Fanne buon uso: perché questi sono gli unici che possiamo darti.»
Poi mi strinse a sé con un tale vigore, da sentire tutta la forza che aveva impiegato negli anni, nel coltivare la terra che ci ha sfamati e in quell’abbraccio c’era il profumo del sudore, per tutte le volte che lo ha versato tra quelle viti robuste come lui, collanti di una famiglia colma di dignità.
Un brivido mi percorse lungo tutta la schiena e il freddo che abitava in quel vecchio casale, mi riportò alla cruda realtà, mentre la memoria seguiva l’ombra di mio padre uscire di casa e scendere giù per i campi. 
In quello stesso momento scattai in piedi, mi diressi nella mia camera da letto, presi il telefono che era in carica sul comodino e composi il numero che avrei dovuto chiamare per confermare l’appuntamento:
«Pronto? Parlo con il signor Bruson dell’azienda: Santex S.p.A. stoccaggio rifiuti? Si, salve, buongiorno, sono Marco Masiero… Si esatto, dovevamo vederci dal notaio per la vendita del casale e della vigna. Volevo avvisarla che ci ho riflettuto su e non sono più disposto a vendere, perché avrei intenzione di far ripartire questa azienda… Certo che sono consapevole delle mille difficoltà, ma a combattere non sarò da solo… La saluto e mi scuso per averle fatto perdere del tempo.»
Click.
Solo adesso capisco che le vere colonne portanti di un popolo sono legate alle tradizioni, alla terra che ci ha visto nascere, crescere, correre e fino a quando onoreremo questi valori… Fino a quando proteggeremo la mano che ci ha sfamati, anche quando non la vedremo più; allora e solo allora, potremmo dire di esserci guadagnati il rispetto da questo mondo. Non so ancora come, ma sono deciso a restaurare queste colonne portanti, fatte di vita, sacrifici e sudore, per rispetto a questa terra che ha sempre dato tanto, chiedendo in cambio solo un po’ d’amore e di rispetto.
In quella fredda mattinata, uscii di casa, mi tolsi le scarpe e, a piedi nudi e col cuore gonfio, scomparvi nell’abbraccio di quella vigna, persa negli occhi della memoria.

Negli occhi della memoria è un racconto di Lucio Doria

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