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DAVIDE PIETRAFESA
FIAMMIFERI
La capsula del tempo era una semplice scatola di latta.
Ettore l’aveva trovata ai piedi dell’olmo in
giardino, l’albero al riparo del quale aveva giocato tante volte a nascondino.
Là Achille si divertiva a fargli le linguacce, da bambino: aveva le gambe
lunghe, suo fratello, e arrivava a batterne il tronco e gridare tana sempre un
minuto buono prima di lui.
Anche suo padre aveva ammesso di aver
seppellito qualcosa fra le sue radici.
Quando gli aveva chiesto cosa fosse, era stato
osservato a lungo, gli occhi fissi su qualcosa che Ettore non vedeva. A
posteriori, avrebbe potuto riconoscere nello sguardo di suo padre il senso di
colpa e l’inadeguatezza che lo aveva attanagliato per anni.
La capsula era una comunissima scatola da
biscotti, di quelle rotonde usate per conservare le delizie danesi al burro.
Sua madre le aveva collezionate per decenni in un’alta credenza di mogano che
odorava di naftalina. Ne aveva avuto una cura quasi maniacale, al limite
dell’ossessione.
Chiudendo gli occhi, poteva rivederle
ordinate secondo grandezza, poste abbastanza in alto, al riparo dalle mani dei
bambini e dai loro giochi. Forse quella che aveva trovato veniva proprio da lì.
Il metallo della scatola si era ossidato.
Ciononostante, non si era scoraggiato ed era arrivato a sollevarne il
coperchio; il tanfo di muffa lo aveva investito in pieno, costringendolo a
indietreggiare.
Quando era riuscito ad aprirla del tutto,
aveva sgranato gli occhi per la sorpresa: doveva essere uno scherzo di suo
padre, quello. Dopo il suo funerale, però, aggrapparsi a quel suo ultimo
brandello di esistenza era tutto ciò che gli rimaneva.
L’oscuro presagio della sua dipartita era
giunto assieme ai rintocchi di un orologio, posto nell’ingresso di casa: non
aveva mancato un colpo, in anni di onorato servizio, se non la notte prima che
suo padre li lasciasse.
Achille era tornato dall’Inghilterra con il
primo volo, senza più lacrime. Si erano stretti l’uno all’altro, fondendo i
respiri per tornare nel grembo materno e scomparire.
Calare la bara di mogano sei metri sottoterra
aveva reso definitiva e immutabile la tragedia che si era abbattuta su di loro.
Non avrebbe mai dimenticato il sussultare
delle spalle di sua madre, il peso del dolore che erano state costrette a
sopportare. Avrebbe seguito il marito qualche mese più tardi, accompagnandolo
nell’oltretomba come aveva fatto in vita.
Né lui, né suo fratello avevano avuto il
coraggio di vendere la villa di famiglia ereditata. Così, di tanto in tanto,
Ettore saliva in auto e guidava sino alla sommità della collina su cui essa era
arroccata.
Si stringeva in una coperta e rimaneva fuori
dalla sua proprietà, sorseggiando caffè. Gli piaceva ricordare i bei tempi
andati, l’infanzia che pareva tanto lontana.
Fu proprio durante una di quelle occasioni
che gli apparve il fantasma di suo padre, pallido come un cencio slavato.
Ettore si era appisolato al volante, poco
dopo aver inserito il freno a mano. A svegliarlo era stato un cigolio
prolungato, simile al ruotare faticoso di una porta su cardini arrugginiti.
Il baluginio spettrale lo aveva guidato fino
all’olmo, dove una volta giunto si era reso conto di essere solo.
Era tornato il giorno seguente e si era messo
a scavare, mosso dalla convinzione di aver visto suo padre: lui voleva che
scoprisse il suo segreto; forse per chiudere i conti con questo mondo e
oltrepassare la linea che lo separava dal posto a cui si accede dopo la morte.
Aveva lavorato con il badile per mezza
mattinata, senza trovare altro che non fossero radici, gusci di lumaca e terra
umida.
Scoraggiato dal constatare che si fosse
trattato di un’allucinazione, si sorprese non poco nell’udire un rumore
metallico accompagnare l’ennesimo affondare della vanga. Ricordava i nervi a
fior di pelle e l’eccitazione, la pelle d’oca.
Ed eccolo là ora, a rigirarsi per le mani un
mucchio di fiammiferi.
Già, era questo che la scatola conteneva:
semplici zolfanelli. Gli rimaneva da scoprire quanto fossero importanti da
indurre suo padre a sotterrarli.
Ettore ruotò sulla sedia girevole per
osservare la città attraverso le ampie finestre del suo studio. Le luci erano
spente, colpa di un blackout che lo aveva costretto ad usare alcune candele.
Intravide un che di provvidenziale, in quel
guasto: l’odore della cera d’api, infatti, gli ricordava sua madre e il suo
strano modo di sorridere.
Che entrambi gli spiriti dei suoi genitori
gli stessero chiedendo la pace?
Qualche sigaro, un paio di matite dalla punta
spezzata, un fermacarte in stile neo-contemporaneo di dubbio gusto: lo
scrittoio avrebbe potuto essere meno ingombro, ma a lui andava bene così.
Il modulo delle sue ipotizzate dimissioni
giaceva abbandonato in un angolo, tanto lo aveva assorbito quella vicenda
familiare. E proprio là, sepolta fra estratti conti e scartoffie, c’era anche
la capsula del tempo.
«Ti ho portato della cioccolata!»
Il volto di sua moglie Diana apparve
ondeggiando alla luce di una torcia. Posò la tazza sullo scrittoio e gli
sedette sulle ginocchia, bella e seducente dall’alto dei suoi quarant’anni
compiuti.
«Mi ami ancora?»
Ettore rise, era di buon umore quella sera.
«Che domande sono?»
Gli rivolse un sorriso stanco e schiuse le
labbra, sul punto di dirgli qualcosa. Era conturbante persino con quelle rughe
agli angoli della bocca, il canino sbeccato di quando ragazza era caduta dalla
bicicletta.
Erano mesi che non si toccavano, il letto
matrimoniale rimaneva un guscio vuoto di disillusione e sogni infranti. Nessuno
dei due sembrava avere colpa di niente, se non quella di non averci creduto
abbastanza a fondo.
Semplicemente lui era rimasto ancorato al
passato, Diana no: lei voleva un futuro, un figlio magari, che Ettore non le
aveva mai dato.
Lui si sporse propositivo al suo indirizzo,
ma lei rimase ferma, passiva, le braccia serrate contro il costato. Soltanto
gli occhi vagavano inquieti, vivi.
Gli sembrava di stringere tra le mani una
statuina di vetro, pronta ad andare in frantumi alla minima pressione. Ma ci
provò lo stesso, riempiendo quel silenzio con i baci, infilando fra le labbra
tutto ciò che non sapeva dire a parole.
Le passò le dita tra i capelli, lasciandole correre
lungo la schiena in un crescendo di passione e desiderio.
Eppure, lei continuava a rimanere rigida: non
lo assecondava; rifuggiva il suo contatto.
Ettore si fermò, ansimando piano, per seguire
lo sguardo di sua moglie insinuarsi nella penombra.
Il buio danzava alle loro spalle,
accompagnando i sospiri e il silenzio.
«O me o il tuo passato!»
Diana si sottrasse alla sua stretta, portando
via con sé persino il suo profumo.
Le fiamme tremolarono al suo passaggio,
chinando il capo.
Una volta scomparsa oltre la porta,
l’ultimatum gli risuonò nelle orecchie sino a dargli la nausea.
Assestò qualche colpo alla cieca, in un
turbinio di scartoffie e cera. La stanza si fece più buia, ombrosa. Percepì il
pizzicore delle lacrime affacciarsi dietro gli occhi, la gabbia di rabbia
infrangersi.
I fiammiferi si erano riversati a terra, le
capocchie rosse come sangue.
Era cominciato tutto con quei cerini: avevano
aperto una porta sul passato che Ettore non sapeva se chiudere o lasciare
aperta. Ne afferrò una manciata, frantumandoli tra le dita con uno scatto di
polso.
Che diamine significavano?
Che fossero maledetti?
La risposta gli arrivò poco dopo.
Era contenuta in una lettera.
Era datata 24 Giugno 1975.
Quello era il giorno del suo secondo
compleanno.
Il casinò riluceva dorato.
L’edificio svettava in altezza oltre gli
adiacenti, una barca di mattoni e calcestruzzo che aveva fatto la fortuna della
sua famiglia. Illuminato com’era, da solo sarebbe bastato a rischiarare la
notte che lo avvolgeva.
Ettore aveva sempre disprezzato l’attività
che suo padre aveva messo in piedi: il suo successo erano i vizi della gente,
le loro debolezze. I soldi che avevano fatto la loro fortuna erano sporchi di
un’umanità perduta in sé stessa.
Era questo il motivo per cui né lui, né
Achille avevano voluto avere a che fare con l’azienda di famiglia, se così
poteva essere definita.
Smontò dall’auto, alzando lo sguardo sul
gigantesco ferro di cavallo al neon infisso sulla facciata.
Dall’altro lato della strada c’era una
chiesa, a confronto molto piccola, che pareva essere stata messa là più per
beffa che per altro. Lo spirito è forte, ma la carne è debole, pareva dire.
Non entrava lì dentro da anni, sin da quando
aveva terminato gli studi superiori e aveva voluto immettersi nel mondo del
lavoro. Quello vero, dichiarava lui, cosa che lo aveva portato a non pochi
contrasti con suo padre.
Le porte dorate pulsavano ipnotiche.
Una gran folla attendeva all’esterno. Erano
uomini mascherati con pellicce e gioielli e cinquantamila euro di rolex
addosso. Avevano gli occhi sovraeccitati, le dita contratte nella smania di
poter finalmente entrare e indebitare tutto ciò che possedevano al gioco.
Quanto si poteva cadere in basso?
Al confronto lui, con il suo misero stipendio
da capoufficio, lì dentro avrebbe potuto entrarvi come inserviente, di quelli
che puliscono i bagni dove quei gran signori andavano a consumare alcol e
droga.
Percepì un dolore al costato, man mano che si
avvicinava, una fitta che andava e veniva al battito del suo cuore.
Era difficile pensare di oltrepassare quella
soglia dopo aver letto quello scritto.
Non era più in grado di ragionare.
Forse non avrebbe dovuto; forse poteva
chiudere gli occhi e far finta di non aver mai letto quella missiva. Il passato
era passato, dopotutto, specialmente quando era talmente remoto da non serbarne
memoria.
Ettore si fermò sul posto, immaginando quel
luogo prima che sorgesse il casinò.
C’era un negozio di alimentari all’angolo, un
gruppo di case che non andavano oltre il quarto o quinto piano. Poteva scorgere
anche la cuccia di un pastore tedesco, Maya, e un paio di bambini che correvano
per l’isolato.
C’erano persino un piccolo parco giochi, una
macchia di verde in tutto quel cemento, e comignoli anneriti che sputavano fumo
per l’imminente inverno.
E vedeva una moglie e un marito cullare un
neonato. Apparivano ignari di quello che sarebbe successo.
Lui aveva un neo sulla tempia sinistra ed era
fulvo di capelli, lei sorrideva spesso ed era minuta.
Il loro figlio strillava fra le coperte,
agitando i piccoli pugni in aria; polmoni d’acciaio, lo avevano soprannominato.
Tutto questo immaginava: una realtà spazzata
via dal casinò di suo padre; dalle fiamme che avevano reso possibile il suo
progetto; dai fiammiferi che aveva trovato nella scatola di latta; dall’avidità
di un uomo.
«Ho bisogno di un attimo!» disse al
buttafuori attento all’entrata.
Questi, riconosciutolo, lo guardò sospettoso;
poi chiuse le porte alle sue spalle.
Ettore si immise lungo il corridoio dipinto
di rosso, i passi resi ovattati dalla moquette, fermandosi infine di fronte ad
una parete.
Il muro dei successi, lo aveva chiamato suo
padre una volta, tappezzato da tutti gli articoli di giornale e le foto che
elogiavano il casinò e il suo fondatore.
Un grande mucchio di merda, avrebbe preferito
lui.
Con la lettera stretta in pugno, esaminò ogni
centimetro quadrato della parete fino a trovare la foto che gli interessava.
I bordi erano frastagliati, anneriti dal
fuoco, e sembrava essere stata sfocata dal calore delle fiamme.
Eppure, Ettore riusciva ugualmente a vedere i
suoi genitori, quelli veri, sorridere: sua madre lo stringeva al petto, lui
stesso guardava l’obbiettivo con l’espressione imbronciata tipica di chi è
stato appena rimbrottato.
Doveva essere stata scattata pochi mesi prima
che morissero uccisi dalle fiamme; prima che colui il quale aveva chiamato papà
mettesse a ferro e fuoco quel posto.
La loro vita era stata il prezzo necessario
per costruire quel luogo di perdizione.
La lettera lo confermava.
Abbassò lo sguardo, incapace di continuare a
sostenere il contatto visivo con i suoi genitori più del necessario.
Quella era la prova evidente che aveva
vissuto la vita di un altro, che Achille non era suo fratello.
Era stato adottato.
Macchiarsi della morte di un bambino doveva
essere stato troppo scabroso persino per lui.
Così aveva preso il suo cognome e lo aveva
chiamato padre.
Ma c’era ancora qualcosa che poteva fare.
Quantomeno avrebbe fatto in modo che la
verità scoperta non fosse calpestata.
Glielo doveva agli spiriti di tutti i suoi
genitori, biologici o adottivi che fossero.
Chissà se c’era una forma di redenzione,
nella morte.
Tornò sui propri passi, diretto verso
l’ingresso con la fotografia in pugno.
Poi spalancò le porte e osservò la folla.
Il buttafuori lo guardava aggrottando la
fronte.
Si concesse un bel respiro, prima di fare il
suo annuncio:
«Signori, si chiude!»
Fiammiferi è un racconto di Davide Pietrafesa
Bellissimo racconto, l'ho letto tutto d'un fiato in un crescendo di attesa e in mix di emozioni. Complimenti, bravissimo!
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