Redenzione

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BARBARA ARIOLI

REDENZIONE




Non ricordo molto della giornata dell’incidente.
Faceva freddo, quello sì.
Era un inverno gelido come da molti anni non si era visto.
La rotonda del Mc Donald’s era sempre intasata e stavolta era anche ghiacciata.
Lo vidi all’ultimo minuto o, forse, fu lui che all’ultimo minuto vide me.
Era uno di quegli autoarticolati che spaventano al solo guardarli.
Mi sembra anche di ricordare la faccia del guidatore, ma, forse, sono solo fantasie.
L’impatto fu devastante.
La mia piccola, vecchia, sporca utilitaria divenne in pochi secondi un ammasso di lamiera ed io persi conoscenza.
Mi sembrò di sentire la sirena delle autoambulanze ma, non so.
Da quel mattino non sono più sicura di nulla.
So solo che mi svegliai all’ospedale, ero piena di lividi, due costole rotte e altre fratturine di vario tipo, ma ero viva.
L’unica cosa che mi preoccupava seriamente era la vista.
Vedevo male, a volte raddoppiato, a volte come se una patina coprisse la visuale.
Fortunatamente l’ospedale dove ero ricoverata era uno dei migliori non solo d’Italia ma addirittura d’Europa e la struttura era dotata della strumentazione più all’avanguardia.
Da subito si capì che c’era qualcosa che non andava.
Pulviscolo di lamiera mista a mille altre sostanze che mi avevano investito nell’incidente avevano guastato irrimediabilmente le mie cornee e i medici non furono molto delicati nel dirmi che senza un rapido trapianto avrei perso la vista da lì a qualche mese.
Caddi nello sconforto.
Ma non sono il tipo che si rassegna.
Fui iscritta alle liste in attesa di trapianto, nel frattempo mi dimisero e tornai a casa.
Ripresi il mio lavoro al negozio, fortunatamente abitavo abbastanza vicino da recarmicisi a piedi.
Passarono poche settimane e l’ospedale mi chiamò.
La voce soddisfatta del dottore mi disse che ero stata molto fortunata e che c’era il donatore.
L’indomani mi recai all’ospedale, feci tutte le visite del caso contenta per la velocità con cui tutto stava accadendo. L’operazione sarebbe avvenuta subito, nel pomeriggio.
L’infermiera però mi disse che il primario voleva vedermi.
Quando entrai nello studio il dottore mi strinse con forza la mano e un sorriso smagliante un po’ mi inquietò.
Mi disse che tutto era pronto per l’intervento, di non preoccuparmi che ormai era quasi di routine, che sarebbe andato tutto bene etc. etc.
Ancora non riuscivo a capire quale fosse il guaio e se c’era effettivamente o se semplicemente era una mia idea.
Mi disse se volevo sapere il nome del donatore.
Io acconsentii calorosamente, certo che volevo saperlo, ringraziare la sua famiglia, sapere cosa gli fosse successo e via dicendo.
Mi confessò allora che le cornee che avrei ricevuto erano nientepopodimeno che di un suicida.
Ma non un suicida qualunque, un giovane uomo che si era tolto la vita in carcere.
Mi disse se avevo sentito parlare di AC.
AC?
Il mostro di R?
Certo che ne avevo sentito parlare.
Così mi mostrò la pagina internet con le ultime notizie:
“AC il cosiddetto mostro di R, 35 anni, pluriomicida si è tolto la vita la notte scorsa nel carcere di O. AC già incarcerato da 5 anni era condannato all’ergastolo per aver stuprato ed ucciso almeno 10 giovani donne. Il suicida ha lasciato scritto di essere cambiato e di voler in parte compensare tutte le malefatte donando gli organi”. 
Seguiva un elenco dettagliato della “carriera” del personaggio, di come seguiva le ragazze prese a caso per strada, di come le addormentava con una siringa di pentotal, di come le uccideva tutte con non meno di venti coltellate.
C’era anche una sua foto. 
Per un folle sconvolgente attimo mi sembrò somigliante al guidatore del tir che mi investì.
Naturalmente non era possibile.
AC era in galera da cinque anni ed io non so neanche se e cosa abbia visto quel giorno.
L’articolo sottolineava anche che AC non aveva più alcun rapporto coi parenti, i genitori erano morti, l’unica sorella non voleva più vederlo dal giorno dell’arresto, quindi non avevo famiglia da ringraziare.
Ringraziai, invece, il primario e dissi che non avevo alcun problema nel ricevere le sue cornee anzi ne ero quasi contenta, visto che alla fine anche da un essere spregevole poteva scaturire qualcosa di buono.
L’operazione andò bene, restai in ospedale circa dieci giorni ossia fino ad oggi.
Ancora non vedo perfettamente ma lo staff mi ha confermato che è una cosa normale, il corpo deve abituarsi.
Non ho intenzione di chiamare parenti o amici per farmi venire a prendere.
Ho voglia di girare un po’ per la città, magari fare un po’ di shopping o semplicemente assaporare un po’ di aria fresca.
Non potendo ancora guidare prendo l’autobus.
Il 33 porta in centro e da lì potrei andare al parco o per negozi.
Ecco l’autobus che arriva.
È già stracarico ma riesco a trovare un posto seduta.
È strana la sensazione che mi pervade.
Mi sembra tutto più bello di prima, i colori mi sembrano più accesi, le emozioni più forti.
Ma, forse, è solo perché sono scampata alla morte e ora sono fuori dall’ospedale, dev’essere una cosa comune.
Ed in questo momento lo vedo.
È un bel ragazzo moro, sui vent’anni, vestito sportivo, forse uno studente universitario.
Mastica la gomma, ha le cuffie e ciondola un po’ seguendo il ritmo.
Per un attimo i nostri sguardi si incrociano ma poi deviano subito.
Mi piace, penso che potrebbe essere un tipo con cui iniziare una storia.
So che sono un po’ più vecchia di lui ma chissà.
Ha suonato, scende alla prossima fermata.
Non so cosa mi prenda ma lo seguo.
Non è ancora centro città, è ancora un quartiere periferico.
Forse sta andando a casa.
Non c’è in giro molta gente.

Redenzione è un racconto di Barbara Arioli

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