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FRANCO LO PRESTI
LE GONNE DI MARIANNINA
«Goal!» urlò
Cesare, il bambino più piccolo del gruppo che aveva tirato il calcio di rigore.
«Nooo! Alto!»
rispose con altrettanta enfasi, Mariannina, la ragazzina che faceva il portiere.
Mariannina era
l’unica bambina di sette - otto anni che nel quartiere giocava al calcio ed era
anche molto brava.
Si tuffava come un
pesce a destra e a manca, saltava come un grillo tra i pali (o, meglio, tra i
due sassi che fungevano da pali) e non aveva paura di intervenire sui piedi
dell’avversario, anticipandolo, per bloccare il pallone.
Purtroppo,
appartenendo al gentil sesso, aveva, come si può dire, l’handicap delle gonne.
Mai più i suoi
genitori le avrebbero acquistato un paio di pantaloncini.
Prima di tutto
perché non potevano, né volevano sciupare i pochi soldi che possedevano per un
simile ed inutile acquisto, secondo perché erano contrari al gioco del pallone
e terzo perché non avevano piacere che la figlia giocasse con i maschi.
Ma si sa come
vanno queste cose. Più una cosa è proibita, più si fa.
Perciò,
Mariannina, gonne o no, quando poteva, giocava al calcio con i maschi, gli unici,
a quei tempi, abilitati a poterlo fare, e partecipava volentieri anche ai
tornei fra i quartieri vicini o le vie adiacenti.
La nostra strada
vantava addirittura due squadre che svolgevano spesso partite d’allenamento fra
di loro.
Io che avevo circa
otto anni, giocavo in porta con la prima squadra e Mariannina con quella di
riserva.
Proprio durante
una delle tante partite d’allenamento, l’arbitro aveva fischiato il rigore e
Cesare era stato incaricato di tirarlo, mentre i giocatori di entrambe le
squadre, si erano schierati ai lati della porta.
Per ribattere il
pallone in caso di respinta del portiere?
Nooo! …
Per assistere al
tuffo di Mariannina che avrebbe provocato l’alzata delle gonne…
Quando Cesare
calciò alto il pallone, tutti commentarono in modo diverso, ma i più grandi
(che avevano dieci o dodici anni) lo rimproverarono, non per aver sbagliato il
rigore ma perché non aveva costretto Mariannina a tuffarsi.
«Dovevi tirare
rasoterra!» gli urlavano, dando ad intendere, ufficialmente, che sarebbe stato
più difficile pararlo.
Ma Cesare non se
la prendeva. Sapeva che per poter giocare doveva fare ciò che dicevano i
grandi.
Era lui, infatti,
che era incaricato di raccattare la palla quando rotolava fuori del campo.
La partita,
comunque, riprese. Si giocava con impegno e animosità ma, nel frattempo, ci si
divertiva.
A conclusione
dell’incontro, come spesso succedeva, ciascuno metteva in evidenza la sua
bravura e commentava negativamente le lacune degli altri mentre tutti sudati,
palla sottobraccio, ci avviavamo verso casa.
Quel giorno, nella
fase centrale della partita, successe un fatto inaspettato, cui non si era mai
pensato prima.
Poco distante
dalla piazza adibita da noi a campo di calcio, esisteva allora (ed esiste,
ancora) un pubblico lavatoio coperto e debitamente recintato con un muretto,
sospeso in alcuni punti, da colonnine che permettevano a chi lo volesse,
abbassandosi opportunamente, di vedere gli arti inferiori di coloro che vi
lavoravano.
Il lavatoio era
costituito da una vasca lunga e profonda sistemata al centro del locale.
Ai lati della
vasca vi era un ripiano in cemento, per strizzarvi i panni, con delle scanalature
per il deflusso dell’acqua.
Alcune tacche
consentivano di appoggiarvi il sapone.
Il lavatoio
permetteva di ospitare almeno una ventina di persone per ogni lato.
Esso era
frequentato da donne che lavavano per commissione o, semplicemente, per risparmiare
l’acqua di casa propria.
Ne approfittavano
per trascorrere alcune ore in compagnia delle amiche, cantando, parlando o
spettegolando di tutto e di tutti, ignorando l’effige della Madonna affissa ad
una colonnina interna.
La gente ben
informata sosteneva che nel lavatoio le parole scorrevano liberamente come
l’acqua corrente di cui la vasca era dotata.
Quel giorno, come
dicevamo, la palla fu lanciata maldestramente lontano e, rotolando, andò a
finire dentro i margini interni del lavatoio.
Fu mandato, come
il solito, Cesare il quale, per riprendere il pallone, dovette sdraiarsi per
terra ed infilare la mano sotto il muro.
Ma nel farlo, i
suoi occhi furono attratti da qualcosa che, pensò, avesse fatto piacere ai suoi
compagni.
Raccolse, allora,
la palla, si alzò ed attirando con i gesti l’attenzione degli amici, li chiamò.
«Silenzio!» disse
sottovoce, portando l’indice tra il naso e la bocca.
E con aria di
mistero, a coloro che accettammo il suo invito, aggiunse:
«Guardate!» e si
distese per terra.
Imitammo il suo
gesto, rivolgendo lo sguardo nella direzione indicata.
Alla vista di noi
bambini si presentò, allora, uno spettacolo gradevole quanto inaspettato:
bellissime gambe di donne, bianche come l’alabastro ci apparvero davanti.
Gambe che si
scoprivano di più o di meno, secondo il caratteristico movimento che le
lavandaie facevano nello strofinare i panni o nel piegarsi per attingere
l’acqua dalla vasca.
E, allorché le
gonne, assecondate da quel moto spontaneo, si alzavano, lasciavano intravedere
le parti anatomiche più alte, là dove tutti gli occhi cercavano di guardare…
Ma Cesare, così
come aveva pensato di offrirci uno spettacolo gratuito, ci costrinse a fuggire
repentinamente.
Scoppiò, infatti,
in un’isterica risata ed attirò l’attenzione delle donne che ci scacciarono
inviperite con parolacce, minacciando di tirarci addosso il sapone o lo stesso
bucato che avevano in mano.
Mariannina che era
rimasta a guardia della sua porta, insieme a pochi altri, ci chiese il motivo
di quella nostra improvvisa fuga, ma noi non ci degnammo di rispondere…
Forse nei tempi
moderni, quell’interesse così morboso verso l’altro sesso, non è più così
evidente, sia perché i costumi sono cambiati, sia perché anche i bambini
conoscono ormai un corpo nudo (o quasi), abituati come sono a guardare la
televisione o a frequentare le spiagge nel periodo estivo.
Credo, però, che
la curiosità per la scoperta del sesso opposto esisterà sempre perché essa
costituisce la molla della vita.
Le gonne della mariannina è un racconto di Franco Lo Presti
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