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FEDERICO BERLIOZ
L’ISOLA DEL DIAVOLO
Prologo
Si può
fantasticare molto sul carcere, che rappresenta una drammatica immagine della
libertà negata e di un rifiuto radicale della società di fare i conti con sé
stessa.
Le dinamiche che
avvengono al suo interno sono inimmaginabili.
Il carcere ha una
sua materialità dalla quale non si scappa: muri di cinta, sbarre, chiavi,
lunghi corridoi, suoni che echeggiano, radio accese qua e là, televisori ad
alto volume, file di celle con tanti uomini e donne dentro.
Il concetto di
tempo e del come gestirlo risulta totalmente stravolto rispetto a quello in cui
si è abituati fuori. Si allunga ma nello stesso tempo si piega su sé stesso. È
tanto, tantissimo, troppo, ed è terribilmente scandito, programmato, al punto
di annullarsi totalmente.
Non tutti i
detenuti riescono a trovare la forza necessaria di convivere non solo con la
privazione della libertà in sé, ma anche con la privazione della libertà di
gestire il proprio tempo e il proprio spazio.
La vita dei
singoli e cadenzata dalla conta dei detenuti, cioè il controllo numerico dei
presenti all’interno dei reparti detentivi e nel cortile dei passeggi, ripetuta
più volte, in alcuni casi anche di notte; dalla battitura delle sbarre da parte
dei secondini, ritenuto da tempo un rito inutile, ad ogni passaggio delle
guardie carcerarie; dalle perquisizioni, sempre all’alba, con la devastazione
delle celle.
In carcere i
controlli non si fermano mai, sono eseguiti sempre a sorpresa, scandiscono il
tempo.
I cancelli sono chiusi
e le luci sempre accese. La vita è segnata dalla coercizione. Un virus
devastante impregna l’aria, colpisce e trasforma le condotte di ogni
personalità senza distinzione.
Non c’è pietà nè
umanità, tutti obbediscono alla retorica cieca e odiosa delle regole
carcerarie.
In carcere si vive
con le spalle al muro. Nessuno può far finta di essere un benemerito del dovere
e della virtù.
In queste
condizioni e difficile che riaffiori un sentimento di umanità.
L’attesa di un
dono gratuito, di una felicità improvvisa è una speranza vana.
Nessuno si
scandalizza più della cattiveria umana.
Quello che,
magari, si era intravisto da bambino, qui non è più visibile. Le circostanze e
le avversità della vita lo hanno portato lontano, molto lontano…
Capitolo
primo
Uccidere un uomo
guardandolo dritto negli occhi non è facile, nemmeno se questo è un pezzo di
merda.
Per i ragazzi di
Porto Azzurro, invece, è la cosa più naturale del mondo.
Bere un caffè o
uccidere un uomo è qualcosa che gli viene naturale.
I quattro uomini,
che erano diventati amici per la pelle, si sedettero attorno a un
tavolino.
Dovevano prendere
delle decisioni.
Giancarlo chiuse
gli occhi e disse:
«La questione si
chiama D’Agostino, lo sappiamo tutti».
A uno come
Gerardo, non servivano altre spiegazioni per fare due più due.
Tra loro c’era
stato un giuramento. Un impegno che pretendeva la totale e autentica dedizione
poiché il patto tra loro era di sangue.
Questo era il
motivo per cui il loro gruppo era stato tanto duramente e pazientemente
selezionato.
Solo dopo aver
spezzato un uomo, ti rendi conto chi egli sia veramente e, soprattutto, di
quanto ti puoi fidare di lui.
«Ok, me ne
occuperò io!» disse Gerardo.
Non potendolo
ringraziare apertamente, Giancarlo indugiò con disagio.
Quello che avevano
fatto a Giancarlo era gravissimo e Gerardo non aveva alcuna remora a occuparsi
della faccenda.
Anzi, non vedeva
l'ora di farlo.
Gerardo e
Giancarlo si alzarono e si strinsero la mano.
In quel momento la
porta si aprì all'improvviso: era il Comandante Mario Ruotolo.
La scena che si
trovò davanti, era molto curiosa.
Tiger Agimor e
Massimo Viti erano seduti, mentre Gerardo Matali e Giancarlo D’Arienzo stavano
in piedi uno di fronte all'altro, alle due estremità del tavolo che si
stringevano la mano.
Il Comandante capì
immediatamente che in quella stanza, con quella stretta di mano, era stata
fatta una promessa solenne.
Fermo sulla porta,
con la mano ancora sulla maniglia chiese:
«Che sta succedendo
qui?»
Nessuno gli
rispose.
Gli occhi erano
tutti fissi sui due uomini in piedi.
Era come se il
tempo si fosse fermato per tutti.
Poi,
all’improvviso i quattro uomini scoppiarono a ridere.
Chi cantava, chi
rideva, chi diceva a Giancarlo di essere un pervertito.
Ridevano, e tutti
e quattro si davano pacche sulle spalle.
Il Comandante alzò
gli occhi al cielo.
«Bene, vi state
divertendo! Sono contento per voi!».
«In questo posto
non si ride molto!» rispose Massimo.
«Di solito ride il
più forte.» riprese il Comandante.
«Spesso ride chi è
più sveglio, o più furbo.» aggiunse Giancarlo.
«Altre volte,
invece, sono semplicemente i più violenti a ridere.» esclamò ancora il
Comandante.
«Ecco perché non
si ride molto qui!» concluse Gerardo.
L’argomento,
sempre presente sull’isola del Diavolo, era l'onnipresente tema di come evitare
di essere ammazzato o violentato.
Due cose contavano
a Porto Azzurro.
La prima era la
forza di volontà che faceva la differenza; ma non era l'unico fattore in
gioco.
L'altra era il
fisico che doveva essere all'altezza della sfida quotidiana.
«Questa è la
realtà, quella vera... quella con cui dovete conviverci. E sapete qual è
l'errore che fanno, spesso, le persone qui?» aggiunse il Comandante.
«No!» rispose
Matali.
«Pensano troppo!»
rispose quegli, sorridendo mentre chiudeva la porta.
Il vitto che
passavano, nessuno capiva perché si chiamasse così, era talmente disgustoso e
ripugnante che neanche gli scarafaggi lo mangiavano.
La luce pallida
delle lampadine al neon sempre accese, anche di notte, rendeva l’ambiente
angosciante.
Tutto era studiato
come se si volesse far assomigliare quel posto a un luogo lontano dai confini
della realtà.
Più soffrivi, più
diventavi forte o debole, punto e basta.
L'isola del diavolo è un romanzo di Federico Berlioz
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