Perché mi fai questo?

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PETER HUBSCHER
PERCHÉ MI FAI QUESTO?




ANATH 
Non era cortese parlarsi, presenti gli anziani, senza recitare le dovute benedizioni e fare gesti augurali contro il malocchio. Come d’abitudine, la domanda veniva lanciata nell’aria e fluttuava indolente. Libera di cercarsi il destinatario o ripiegarsi su sé stessa e morire mentre le mani si dedicavano a mimare gli episodi del racconto. 
Rehab il figlio, evitò auguri e benedizioni. Indifferente al racconto delle mani, non lasciò morire la domanda e presala per la coda come fosse una serpe velenosa, la rilanciò. 
«Questo? Cosa è questo?» 
«Questo,» rispose irato il padre «è tradire, è rinnegare la tua gente, questo è cancellare il tuo posto nel mondo!» 
«Calmati vecchio!» rispose il ragazzo, presentando le mani con le palme rivolte verso l’alto, per poi tenderle e lasciarle immobili. 
Dalla mia caverna abbastanza vicina da permettere di vedere bene, abbastanza distante da chiedere concentrazione per udire le voci, io, la Cantora, seguivo lo scontro; ma non volevo intervenire, anche se ogni tanto uno degli anziani girava la faccia e guardava su, verso la luce che tenevo alta, per vedere cosa stessi facendo. 
Avevano ragione gli anziani. Come prima Cantora, avrei dovuto imporre il rispetto della tradizione. 
Ma come fare? Rehab! Rehab un nome che mi diventava melodia nel cuore, mi aveva stregata. Non le tecniche dell’improvvisare, non i trucchi per emozionare le genti gli avevo insegnato, come aveva sperato il padre riportandolo dalla fuga a Hadramaut. Era lui, lui che mi aveva insegnato il segreto degli sguardi, dei sorrisi. Era lui che mi aveva saziato di una conoscenza nuova, inebriandomi di una nuova arte di narrare ed essere narrati. 
Quando, rinsavita o supposta tale, gli ricordavo che lui era un ragazzo e io una donna fatta le cui rotondità stavano cedendo alla pesantezza dell’età, mi rispondeva: «Tu non esisti come ti vedi, quella è la tua illusione, tu esisti come ti vedi nei miei occhi e sono io il tuo creatore per il desiderio e la passione che accendi in me!» 
Così aspettai e non mi imposi. 
«No!» riprese il padre «Non è giusto!» 
«Sediamoci, figlio,» aggiunse «su rossi tappeti nel crepuscolo profumato, recitiamo la “Nascita del Drago”. Sì, ognuno alla sua maniera, e poi mangiamo, e poi beviamo, e quando i corpi non vorranno più lottare e la nera bile sarà tornata liquida, ragionamento dopo ragionamento, troveremo la giusta soluzione.» 
Rehab lentamente giratosi verso la collina alzò lo sguardo verso di me. 
Annuii. 
Il padre aveva ragione, si trattava di cose troppo grandi per risolverle gettandosi parole in viso. 
Rientrai nella caverna per adornarmi, ma mi fermai. «Sciocca!» dissi all’immagine riflessa nel grande specchio di bronzo. 
Avevo preso le mie abluzioni e stavo cospargendomi di pomate odorose nei posti segreti, come se andassi ad un incontro d’amore invece che alla disputa foriera di future tragedie che andava preparandosi. 
Mi rilavai in fretta regalandomi solo un tocco d’incenso e una goccia di amaro aloe, preoccupata di scendere in fretta verso le tende, prima che le ombre della notte rendessero difficile il cammino. 
La tribù non si era ancora radunata e i ragazzini si sfidavano con acerbi racconti spezzati nel fluire dalla loro ignoranza e resi del tutto incomprensibili dalle mani che si muovevano più al ritmo dei pruriti che alle indicazioni della narrazione. 
È giusto sia così quando si è giovani. Narrare è un duro lavoro e la creazione non è mai perfetta. 
«Di perfezione volevi parlare?» 
L’invito veniva spinto avanti dagli anziani con la stessa abilità con cui spingendo un dattero farcito verso un bimbo, lo invogli a narrare la sua prima storia. 
«Sì, di perfezione volevo parlare e di come questa sia la nostra meta.» disse il padre indicando il figlio «Ma vorrei che Rehab mio figlio» proseguì «potesse raccontare il suo viaggio verso la perfezione. Forse, anche per lui, malgrado tutto, esistono più vie.»
Il silenzio che seguì, e questo è un bene, fu interrotto dalle ragazze che cantarono “Quanti mattini e quanto diversi per ognuna, amore mio”, suonando dei campanellini e offrendo confetti alla cannella. 
Mi girai e vidi seminascosta dalla porta della tenda la madre di Rehab che mi faceva l’occhiolino.
Quante cose sanno raccontarsi le donne complici senza necessità di parole!
Noi due, complici lo eravamo veramente. Ero stata l’amante di suo marito che avevo abbandonato a lei per diventare Cantora e, anni dopo, mi ero presa il figlio.
«È giusto così!» aveva sorriso lei.
«Come siamo donne!» pensai «Vedi, qui tutti si preparano a cose serie; e tu pensi al primo incontro col tuo moroso!»
«Sì, però» disse l’altra parte di me «come posso dimenticare quando il ragazzo alzò lo sguardo su di me, donna matura, facendomi confondere come una vergine alla prima mestruazione?»
«Che ti prende?» mi sussurrò in un orecchio Kalima la sciamanna. 
«Hai un sorriso idiota, componiti!» sospirai riprendendo la posizione palma contro palma che si usa per “L’Inizio del Diluvio”. 

ZACHARYAS 

Rehab si chiese cosa avesse detto Kalima. Quella strega sempre a ficcare il naso nei fatti altrui. Che la cantora fosse la sua donna era noto e che lui si aspettasse il suo aiuto era indubitabile. In che modo non sapeva, né aveva osato chiederlo nella sera di passione che aveva preceduto l’incontro col padre. 
La cantora guardò Rehab ed entrambi ricordarono. 
Lui sentiva il suo seno generoso gravargli sul petto e le natiche sode e tonde muovesi, sotto le sue mani al ritmo della passione. 
La cantora si era fermata alzando di scatto il busto: 
«Dove sei?» aveva gridato. 
«Qui, amore!» aveva risposto Rehab posandole la destra sul seno e cercando il capezzolo. 
«Bugiardo!» aveva sibilato la cantora, «I tuoi attributi sono qui. Non la mente, non il cuore!» 
Si era fermata. La passione era finita e la rabbia sfumata. Più dolce, aveva ripreso: 
«Su, mio amato, quale ombra ti oscura, chi ti rende freddo al mio amore? Lascia che il sole del mio ventre ti scaldi e allieti, caccia la serpe della discordia!» 
Rehab aveva riconosciuto subito il finale di “Isat e il freddo cavaliere” ma non aveva voglia di rispondere con la chiusa tradizionale del racconto e neppure con una delle sette varianti che suo padre usualmente recitava. 
Così era restato silenzioso. 
La cantora si era alzata coprendosi con le mani, vergognosa si era girata mostrandogli la schiena mentre rapidamente si rivestiva. 
La mente resa acuta dalle lunghe meditazioni sui contenuti dei canti già analizzava la situazione che le fu subito chiara. La disputa del giorno seguente preoccupava l’amante infiacchendone il corpo. Da quanto aveva capito, le visite alla costa gli avevano portato nuove visioni sulla via della Ricreazione. 
Tra le parole della passione, aveva abilmente nascosto domande, ma Rehab non aveva risposto lasciando al massimo cadere accenni che morivano in frasi legate ad altri ricordi. 
Aveva deciso di essere diretta: 
«Rehab, è il confronto con tuo padre che ti inquieta?» 
«Tu non lo saresti?» aveva risposto il giovane «Come dirgli che ho trovato altre vie?» 
«Hadramaut, che tu sia maledetta!» aveva proseguito Rehab «Mi recavo per curiosità e diletto; ed il viaggio aveva per premio quanto il mio corpo voleva. E cibo e abiti e gioielli e… no! Mia amata, mia bruna gazzella, non altre donne come chiedono i tuoi occhi inquieti. 
Vivevo così felice ed era una pausa dal duro tirocinio della Ricreazione del Tutto Indefinibile. La mia curiosità mi ha portato a frequentare i maledetti sapienti di altre verità che hanno piantato il dubbio nel mio cuore e contemporaneamente coltivato in me nuove certezze. 
Come posso dirti? Sono tre le vie che mi mostrano per una verità!» 
«Quale?» aveva chiesto la Cantora inquieta. 
«Quella di un Tutto Definito! Mi dice l’uno: tutto è definito, tu devi cercare di capire come. No, risponde l’altro, tutto è definito, ma tu puoi scegliere fra gli opposti del bene e del male interrogando il tuo cuore. Falso, risponde il terzo, non devi interrogarti, basta agire come dice chi prima di te ha capito il Tutto Definito.» 
La cantora aveva capito. Come alla fine del poema “La Città Perfetta” la parola “diverso” indicava l’inizio della rovina della città, così le parole di Rehab introducevano il seme di senape marcio nell’Atto di Ricreazione. 
«Sei stato il mio amore, la mia gioia, ma non ti seguirò né ti aiuterò!» aveva dichiarato con durezza la Cantora. «Tua è la scelta. Domani, quando parlerai con tuo padre, sarò alla caverna a vegliare. Guardami, e saprai se prendere la sfida!» aveva concluso.
ZACHARYAS 
Rehab riportò il pensiero alla folla degli ascoltatori che, seduti a seconda delle possibilità sui tappeti di Ferahan o su semplici stuoie, attendevano pazienti il confronto. 
«Signori,» iniziò il padre «come sapete io e mio figlio reciteremo la “Nascita del Drago”, ma questa sera non sarà più una gara fra due cantori che presentano la narrazione nei modi consueti secondo la tradizione che risale al nostro antenato che tre volte trenta generazioni fa, aborrì il gesto del fratello Abraham che voleva sacrificare il figlio, violando l’Atto di Ricreazione a fianco dell’Indefinibile, per godere della sicurezza della sottomissione. 
Come sapete, da allora siamo diventati cantori orgogliosi di ricreare assieme all’Indefinibile in ogni attimo l’Universo. Ma, oggi giorno malvagio, si ripete una situazione simile. Per la scelta fatta dai nostri avi, non possiamo impedire che avvenga. Possiamo solo lottare contro l’errore.» 
Disse questo con la morte nel cuore. 
Un freddo sudore lo avvolse nel caldo della notte stellata, ma poi la mente ebbe il sopravvento sulle emozioni. 
Analizzò il luogo. Il momento, la scena, come raccomandava Oblach “l’Occhio”. 
Analizzò il pubblico perché il suono fosse adatto alle loro orecchie e questo diceva sempre “Tamara, la Voce che Incanta”. 
Chiuse gli occhi per immaginare i gesti che avrebbero raccontato quanto le labbra non sapevano apportare. “Indica con le mani le separazioni e le unioni, l’alto e il basso, il vicino e il distante” raccomandava “Rehab il Cieco” il cui nome aveva dato per buon auspicio al figlio. 
Si raccolse in meditazione innalzando una muta preghiera: 
«Oh voi, maestri del passato che ci avete insegnato a narrare, aiutatemi perché anche questa narrazione sia simile eppure diversa da tutte le altre, sì che ancora una volta gli ascoltatori percepiscano la loro partecipazione all’Atto di Ricreazione!» 
Sospirò e per buon augurio fece cadere tre grani di incenso nel braciere. 
Unì le palme come per iniziare “Diluvio”, ma invece di separarle con moto costante come acque che si alzano, tenne ferma la destra indicando oscurità mentre la sinistra ondeggiava indicando la luce che nasce. 
Emise il fischio rituale che indicava il vuoto. 
Rapidamente le mani indicarono il Sopra e il Sotto, il Lato Destro ed il Sinistro. Il vuoto era intorno. Il vuoto nella sua parte oscura. 
Ora, i Ricreatori e il Ricreato complementari nell’ Atto di Ricreazione, ricreano l’Uovo. 
Ora, non sappiamo cosa è né cosa contiene l’Uovo. Lasciamoci cercare. 
Il padre iniziò a questo punto la narrazione della Ricreazione che durò sino a che sei volte le torce furono cambiate. Con abilità portò gli ascoltatori in infinite storie diverse che si intrecciavano. Talvolta, sempre più frequentemente le grida di approvazione coprivano la sua voce quando gli ascoltatori anziani si ricordavano delle versioni simili e non uguali. Facendosi poi vanto delle occasioni in cui le avevano udite. 
Le rare pause che si prendeva prima di intonare i canti dei sentimenti, erano riempite dai sorrisi di gratitudine della gente, dolci come i petali di fiori che gli gettavano. 
Si avvicinava la fine della recita. 
Ecco, tutto è compiuto. l’Uovo ovvero la vuota non conoscenza nata dall’oscurità, viene vinta dal chiaro ragionare, che unito ai moti del cuore nemici del vuoto e guidato dal Ricreato generatore di vita rompe il guscio, dando alla luce il Drago, simbolo della sapienza che si manifesta nella bellezza e unità della Ricreazione. 
Si fermò esausto. 
Questa volta aveva usato poche parole, scarse iperboli e quasi nessuna similitudine. 
Non si trattava di divertire, la cosa era terribilmente seria e lui sperava che i semplici accenni risvegliassero in ognuno degli ascoltatori la voglia di guardarsi nel profondo del cuore per decidere chi scegliere. 
La notte rinfrescava, non tanto da allontanare il pubblico, ma abbastanza per far serrare le vesti, avvicinarsi ai bracieri ed esprimere gratitudine per la decisione della cantora che, come anziana, supervisionava la cerimonia. 
Fu portata la grande pentola di rame che venne riempita di acqua e posta sul fuoco. 
Nel breve tempo necessario agli inservienti per riassettare la scena, l’acqua iniziò a bollire. 
La cantora valutando in cento circa gli anziani meritevoli di omaggio, fece portare dalla caverna tre giare di vino di datteri, un vaso di miele e una manciata di chiodi di garofano. 
Per le erbe bastò andare alla tenda dei carovanieri che avevano portato semi tostati da Moka. Questi rapidamente fatti polvere in un mortaio, vennero buttati nell’acqua bollente che scurì. 
Quando la polvere scese al fondo, la cantora unì miele e chiodi di garofano, versò il vino di datteri e poi richiamati i bambini, fece loro portare le ciotole ripiene del liquido bollente agli anziani. 
Quando tutti ebbero bevuto e i non degni ebbero preso quanto restava, la voce di Rehab invitò tutti a sedersi. 
«Ringrazierò mio padre» iniziò il giovane «per quanto mi ha insegnato, per la vita che mi ha dato, per il rispetto che gli devo. Altri dovrei anche ringraziare» e lo sguardo gli sfuggì sulla cantora «ma siamo già nella notte ed è tempo di portare a compimento quanto stabilito.» 
Poi, aggiunse: 
«Ogni volta che narrate, oh cantori, voi dite di creare una nuova storia diversa da tutte le altre, perché così si muove il mondo! 
Ma, in altri luoghi, uomini saggi mi hanno mostrato che la storia è sempre la stessa e la voce i gesti variano solo il modo di presentarla, non la storia stessa.» 
Attese che finisse il mormorio di disapprovazione, poi cominciò. 
«Ecco la storia: 
In un luogo definito, ma al momento a noi sconosciuto, si trova un uovo di Drago che è stato creato da un Essere che ha definito il futuro di sua sola volontà, senza aiuto e una volta per sempre. L’uovo verrà trovato, il guscio rotto e apparirà il Drago che porterà saggezza agli uomini. Questo è stato stabilito. Quello che vi narro è il come gli uomini con forza, saggezza, volontà, impiegando amore e odio, combattendo contro avversità sono pervenuti a compiere quanto stabilito da Colui che ha deciso. 
E le mani, la voce, i gesti non ricreano ma solo raccontano quanto esiste in eterno.» 
Certo, i suoi gesti, la voce, il gioco delle mani risentivano degli insegnamenti di quel grande maestro che era il padre, le parole però lasciarono tutti allibiti. 
Perciò, nessuno si meravigliò che, a racconto finito, le torce fossero bruscamente spente e tutti si allontanassero velocemente verso il sicuro rifugio delle tende. 
Intorno all’unico fuoco ancora acceso restavano seduti il padre, Rehab, la cantora. 
Restava un fondo di vino di palma che il padre versò in tre ciotole porgendole alla cantora e al figlio. 
Bevvero in silenzio. 
«Padre!» 
«Sono parole così blasfeme che voglio non aver capito. Non posso aver capito, non devo aver capito!» 
«È troppo tardi,» disse la cantora «ha ricreato, non possiamo più fermarlo. Lasciamo che chiarisca!» 
«Non difenderlo solo perché è entrato in te dandoti piacere!» rispose irosamente il padre. 
Anath la cantora sorrise. 
«Dovrei per la stessa ragione difendere te che mi hai penetrato prima che lui nascesse. Siete pari, avete penetrato la stessa donna e questo mi permette di decidere. Dunque, sediamoci e parliamo: Sii gentile, Rehab, spiega bene le tue ragioni!» 
«Padre, non è mancanza di rispetto, solo che non vedo come i tuoi racconti possano ricreare l’universo, la mia mente rifiuta di pensare che vi siano infiniti universi esistenti perché tu hai fatto un gesto con la mano o perché hai detto cane invece di scimmia. Padre, mi sento perduto quando parli di un Ricreatore che ha bisogno di noi. 
Quale responsabilità! 
È un futuro che dipende da ogni atto di ogni singola persona in ogni singolo attimo!» 
Il gesto irato del padre non riuscì a fermarlo. 
«Là, a Hadramaut, parlando con uomini saggi, ragionando con loro, ho visto le cose diversamente. 
Mi hanno parlato di un unico Creatore che fece un patto con Abraham promettendo che avrebbe definito il futuro, togliendo dalle spalle degli uomini il fardello della Ricreazione, dando loro la sicurezza e questo in cambio della semplice adorazione senza la fatica della partecipazione. 
Certamente il modo di percorrere la strada è diverso tra i saggi. 
Come ti ho detto, alcuni cercano di capire, altri adorano un dio morto ma risorto per indicare la via, altri si limitano ad applicare alla lettera le prescrizioni del dio. 
Per il momento tutto mi va bene!» 
Cosa avrebbe potuto rispondere a suo figlio? 
Come spiegargli che questo non definito in spazio e tempo di cui facciamo parte e che fa parte di noi viene plasmato da noi e ci plasma come il mare composto da infiniti esseri viventi, non viventi e gocce di acqua, viene da tutti questi plasmato e chiamato mare e al contempo chiamandosi mare plasma e muta gli infiniti elementi che li compongono creando un equilibrio di influenze reciproche in cui la variazione dell’infinitamente piccolo altro non è che la correzione alla variazione dell’infinitamente grande. 
E ora suo figlio rinunciava a tutto questo per essere un viandante sulla strada scritta da altri? 
Non gli fu necessario parlare; guardò la cantora che capì; e si ritirò! 

ANATH 
«Allora?» chiese Rehab. 
«Tutto bene!» risposi «Tuo padre dovrà riflettere alle tue parole, dal tempo. Ma ora,» continuai «mio torello, la notte sta per finire e i miei lombi hanno fame delle tue carezze. Hai vinto la battaglia delle parole, vediamo se saprai vincere anche me. Attendi e al grido del gufo raggiungimi!» 
Mi feci bella come una amante che perda il suo amato per sempre a favore di una stupida vergine che lo sposerà. 
Mi profumai e mi adornai canticchiando: 
«Quanto sei bello, quanto sei piacevole, oh amore mio, in mezzo alle delizie!» 
Preparai tre coppe di vino, quello di uva portato dai forti monti del Libano, atto a rincuorare gli amanti stanchi. 
In quella per lui, al vino aggiunsi un pizzico di cantaride che rende l’uomo potente come uno stallone persiano, nella mia, al vino aggiunsi acqua perché non è bene che la donna diventi troppo lasciva anzitempo e nella terza…. della terza vi narrerò dopo. 
Lo accolsi come un vincitore, e detti tutta me stessa per soddisfarlo in tutti i modi che volle. 
Ma non riuscii ad ingannarlo. Durante un attimo di tregua, sfiniti riposavamo fianco a fianco. Si girò puntellandosi sui gomiti e guardandomi negli occhi mi chiese: 
«Perché amore mio mi prendi come se fosse l’ultima volta? Perché mi sento in te come se tu volessi impregnarti del mio ricordo?» 
«Taci, taci amore mio!» mentii. 
Oh, come sapevo recitare; oh come sapevo recitare; non per niente ero la cantora! 
«Voglio solo essere gradita ai tuoi occhi, farmi perdonare l’altra notte!» 
E senza dargli tempo, lo ripresi in me chiedendo alle sue mani di stringere i miei seni sino a farmi gemere di dolce dolore. 
Venne il mattino e quando fui sicura che il mio possente stallone finalmente fosse sfiancato, gli offrii la terza coppa. 
Me maledetta, avrei preferito berla io; ma cosa potevo fare? 
Mi era bastato il cenno del capo di suo padre per capire: morte! 
A rischio della vita preparai l’infuso che dà la morte apparente, ma questo non bastava, così aggiunsi le erbe che danno l’oblio, quelle che sconvolgono la mente e quelle che rendono muti e sordi. 
Al mattino lo feci portare fuori dalla caverna perché vedessero che era morto. 
Con un ferro rovente gli marchiai la coscia perché fosse evidente la morte e poi, essendo ormai impura, lo issai su un cammello con l’ordine di seppellirlo da qualche parte nelle dune in un luogo ignoto perché fosse dimenticato e il suo nome maledetto. 
In verità il cammelliere che ambiva andare nel paese dei mori a fare fortuna, lo portò per mio ordine a Hadramaut. 
Confidavo che almeno uno dei sapienti che avevano pervertito la sua mente ne avesse pietà. 
Con lui finì anche il desiderio della mia carne che divenne inutile copertura alle ossa. 

HARUN
Di tutti questi avvenimenti non sarebbe rimasta traccia se, nel 1914, Joshua (detto Johan) Sarfatti, figlio del Primario di Neurologia agli Ospedali riuniti di Vienna, richiamato nell’Imperial Regio esercito con il grado di sottotenente, essendo il padre nato a Costantinopoli, non fosse stato destinato all’Oriente come ufficiale di collegamento con l’esercito turco. 
Non sarebbe stata una brutta vita ad Istanbul dove già i parenti turchi si preparavano a presentargli innumerevoli, adorabili giovinette da sposare. Ma sfortuna volle che il ragazzo studiasse arabistica. Così venne destinato alle guarnigioni della penisola Arabica. 
Scartabellando alla Biblioteca Imperiale la documentazione sulla penisola Arabica, si imbatté nella cronaca di viaggio di Zacharyas al Dahiri scritta in arabo, metà sedicesimo secolo, che riportava storie e leggende di Hadramaut. 
Assieme a storie inverosimili di principesse chiuse in palazzi, di lotte fra romani e persiani, di fratelli del Salvatore, del Salvatore stesso che sarebbe fuggito con la Maddalena verso il paese dei Mori, di templari alla ricerca del ver sacro, (Graal), trovò una storia intrigante ma che stimò riferirsi a fatti realmente accaduti. 
Recitava la cronaca in arabo: 
Nell’anno quattrocento dell’Egira, in Hadramaut felicemente protetta dall’emiro Alì ben Fuldan, sempre sia ricordato come fedele e pio, venne trovato un povero di spirito che viveva di elemosine. 
Talvolta, essendo sordo e muto tracciava strani disegni simili a mappe nella polvere. Alcuni pensavano essere vie ad un tesoro, altri, scettici li consideravano semplici scarabocchi di una mente ammalata. 
Avvenne che l’imam Harun ben Issar, di ritorno dalla Mecca dove si era fermato per dieci anni, pensasse di aver riconosciuto nel giovane un suo discepolo, fatto confermato dal comportamento del giovane, che visto l’imam, iniziò a piangere ininterrottamente. L’imam chiese di poter curare il giovane. L’emiro prontamente acconsentì permettendo che il giovane, visto che si pensava che la vista del mare fosse salutare ai deboli di mente, potesse abitare nei resti del palazzo bruciato, evitato dalla gente perché detto sede di djinn. Le cure furono benefiche, avendo l’imam scoperto che non di maleficio o malattia si trattava, ma di un remoto avvelenamento. 
Alle cure mediche si alternarono letture del Corano, sino a che il giovane poté biascicare qualche parola. 
Il racconto che fece lo sventurato, sussurrato all’orecchio dell’imam, generò tale terrore e orrore che, questi trascinato con forza il giovane, lo costrinse a ripeterlo all’emiro. 
Dovete dunque sapere, raccontò lo sventurato, che oltre le dune ai piedi delle montagne, vive la mia tribù. Gente empia che sostiene che attraverso le narrazioni che essi fanno sono diventati creatori dell’universo e che Dio, sia benedetto il suo nome, non può agire senza il loro aiuto. 
Dio non avrebbe determinato i nostri destini. Questi verrebbero modificati dal volere umano e ogni atto compiuto, anche il più insignificante, potrebbe influenzare l’Armonia dell’Universo. 
L’emiro si coprì le orecchie a tale abominio e decise immediatamente lo sterminio degli empi. Guidati da Rehab, così aveva farfugliato il giovane alla domanda quale fosse il suo nome, una truppa di quattrocento cavalieri partì alla ricerca della tribù. 
Dopo alcuni giorni, arrivarono a quello che i beduini chiamavano l’oasi dei Cantori. Era un piccolo gruppo di tende, circa 80-90 abitanti stimò il comandante, site ai piedi di una collina. Una strada ornata di pali intagliati portava dalle tende ad una caverna. 
Deve essere la dimora del capo dedusse il comandante. 
L’ordine era di uccidere tutti. Così irruppero nelle tende, raccolsero le genti e le portarono sulla piazza. Vennero loro legate le mani e imbavagliati perché non proferissero bestemmie. Quattro dei più fidi irruppero nella caverna dove trovarono una donna anziana. 
Per rispetto non la imbavagliarono ma la trascinarono dove gli altri legati e imbavagliati attendevano. 
L’esecuzione venne iniziata e finì velocemente. Con perizia e coltelli affilati tagliarono le gole. Dopo pochi attimi era restata solo la donna anziana. 
Quando Rehab la vide, iniziò a urlare e piangere. 
La Donna volse lo sguardo stupita e iniziò a cantare un poema: “La nascita del Drago”. 
Stupiti, i militi si fermarono sentendo cantare quel bel poema che tutti conoscevano. Ma immediatamente si resero conto che non era la versione conosciuta e amata. Rehab urlò con quanta voce avesse: 
«Uccidetela!» 
La donna si zittì; e poi levò un canto dal ritornello: “Oh, quanti Universi ricreiamo con Te in Te per Te”. 
Il canto si spense con il taglio della testa della donna. Il fendente del comandante arrivò dopo che le avevano tagliato le mammelle e aperto il ventre per spregio. 
Rehab urlò di nuovo e cadde morto. 
Fu l’unico a essere seppellito. Gli altri furono lasciati alle iene perché empi. 
«Bah, si disse Johan, è la solita storia, questi testi sono privi di qualsiasi informazione utile. Non sai mai dove finisce la verità e iniziano le balle!»

Perché mi fai questo? è un racconto di Peter Hubsher 

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