Chiariamo
subito dove stanno queste acque lontane; non sto parlando né di oceani, né di
mari glaciali; sto parlando semplicemente del mar Ligure, che, visto da Ancona
è dall’altra parte dell’Italia e quindi abbastanza lontano.
Io e Roberto Santucci
eravamo emigrati al Nord; dopo esserci congedati dalle scuole secondarie, io,
dopo una breve esperienza esplorativa alla Accademia Navale di Livorno, avevo
deciso di iscrivermi ad Ingegneria Aeronautica a Milano (zona Politecnico),
perché in Ancona università non ce n’erano (parlo del 1964); lui, dovendo
assolvere il servizio militare, qualche anno dopo aveva trovato lavoro a
Castellanza (zona Montedison), perché i “Navigator” non erano stati ancora
inventati.
Milano e Castellanza tra
di loro non si possono dire né lontane, né vicine, ma da quelle parti c’era e
c’è ancora un posto, all’estrema periferia Est di Milano dove tutti gli amanti
degli sport acquatici si ritrovavano ogni fine settimana, così come gli animali
della savana africana si ritrovano intorno alle pozzanghere durante i periodi
di siccità.
La pozzanghera di cui
parlo, a Milano la chiamano “Idroscalo”: è un buco pieno d’acqua, a pianta
rettangolare, abbastanza lungo da permettere l’arrivo e la partenza di un
idrovolante; nel tempo però ha perso la sua funzione commerciale, sostituito
dalla pista di Linate, che gli è stata costruita affianco; in compenso ha
assunto una notevole importanza sociale: il suo impego migliore sarebbe lo
svolgimento di regate di canottaggio, grazie alla mancanza di correnti e alla
possibilità per il pubblico di seguire la regata dalla partenza all’arrivo,
disponendo di una bicicletta e pedalando sul sentiero che lo affianca sul lato
più lungo; però c’è anche gente che ci fa il bagno e gente che ci va in barca a
vela.
Quindi anche io e Roberto
ci ritrovavamo all’idroscalo, dove venimmo assunti da due proprietari di F.D.
per portarli a spasso sui campi di regata organizzati, di solito, sui laghi
circostanti.
Tra i frequentatori
dell’Idroscalo c’era anche una simpatica coppia, proprietaria di uno “Strale”;
purtroppo il marito, Edoardo Bianchi, detto Edo, era stato assalito da problemi
alla schiena e la coppia non poteva più cimentarsi in regate con la frequenza
che avrebbe desiderato; però erano persone sportive e fu così che ci offrirono
(a me e Roberto) il loro Strale (I-207) per partecipare ad una regata nazionale
a San Remo; anche per vedere quali fossero le potenziali prestazioni della loro
barca.
Era
il periodo di Pasqua del 1969 e faceva un freddo cane.
Il giorno della prima
prova il vento, credo tramontana, era pure piuttosto forte.
Ormai ci eravamo
specializzati nei ruoli; io al timone e lui al trapezio; poiché io avevo visto
quella barca più spesso di lui, fui io ad armarla. Lui però ebbe da ridire
sulla lunghezza del cavo del trapezio: secondo il manuale del perfetto
prodiere, il gancio del trapezio deve stare a livello della coperta, in modo
che il trapezista stia in posizione orizzontale (massima coppia raddrizzante)
quando la barca è in assetto; è inoltre consigliabile anche un gancio più in
basso della linea di coperta, in modo che il trapezista possa stare in
orizzontale, anche con la barca un po’ sbandata sottovento; quindi spostò in
basso in ganci, che, secondo lui, erano troppo in alto.
Siamo scesi in mare con un
umore piuttosto ambiguo: eravamo curiosi di vedere cosa saremmo riusciti a fare
su una barca mai provata, ma avremmo preferito farlo in una giornata più
clemente e non con quel vento e quel freddo. Alla prima raffica, Roberto
sperimentò l’efficacia del gancio basso; la barca rispose alla sua manovra con
una docilità eccessiva ed imprevista e lui finì sott’acqua; ovviamente non
riuscii a sentire le sue imprecazioni subacquee; una volta riemerso s’era già
calmato e presto rimise i ganci del trapezio in posizione più umana; (il bagno
gelato gli aveva schiarito le idee).
Durante le operazioni di
partenza, o meglio quando erano già iniziati da un po’ gli ultimi 5 minuti, una
maglia della drizza metallica del fiocco si mollò dalla sua galloccia; Roberto
mi guardò con l’occhi torvo di chi intende dire:
“l’hai fissata te e adesso
la sistemi te”.
Di conseguenza ci
cambiammo di posto: io passai a prua e lui al timone; per rimettere in tensione
la drizza del fiocco, l’unico metodo utile era mettersi in poppa usando il vento
per inclinare l’albero più in avanti possibile; così facemmo, e dopo un po’ la
drizza era di nuovo sistemata, permettendoci di riprendere i nostri posti
originari.
C’eravamo appena rimessi
di bolina che sentimmo il colpo di cannone; le vele delle barche sulla linea di
partenza erano incredibilmente piccole, per quanto erano lontane. Roberto
stavolta, nonostante fosse piuttosto incazzato, trovò le parole per esprimere
il suo disappunto:
“Che
ci stiamo a fare qui, torniamo a terra, tanto da questa distanza non li
riprendiamo più”.
Io invece mi sentivo in
debito con i proprietari della barca e non volevo iniziare con un ritiro il
test che ci avevano commissionato:
“Siamo qui per provare
questa barca e la proveremo, a costo di fare la regata da soli; cerchiamo
magari di non arrivare ultimi”.
Quasi alla fine della
prima bolina, potendo navigare in aria libera, avevamo raggiunto l’ultimo della
flotta; anzi, nel superarlo, ci guardammo soddisfatti: non eravamo più ultimi.
Ci
sbagliavamo, perché il “nuovo ultimo” pensò bene di scuffiare, per farci
tornare ultimi di nuovo.
Ma ormai eravamo in ballo
e non ci restava altro da fare che continuare a ballare.
Durante i due lati di
lasco (si regatava sul classico “percorso olimpico” di allora) la sequenza di
eventi si ripetè ancora molte volte: raggiungevamo e superavamo l’ultimo,
l’ultimo scuffiava, ridiventavamo ultimi; sembrava una maledizione.
Nel corso della seconda
bolina cominciammo a pensare che forse la maledizione non perseguitava noi,
costretti a rimanere ultimi, ma perseguitava gli altri, che da penultimi
diventavano “non classificati”. La nostra motivazione a rimanere in gara stava
così prendendo una piega diabolica e alquanto sadica: non eravamo più lì per
vedere come andava la barca, non più per non arrivare ultimi, ma per vedere
quanti ne avremmo fatti scuffiare.
Il lato di poppa si rivelò
decisamente impegnativo e fu quasi una mattanza. Eravamo tra i pochi ad usare
lo spinnaker; inevitabilmente in poppa quelli dietro tolgono il vento a quelli
davanti; quindi raggiungere l’ultimo di turno era un gioco da ragazzi; una
volta aver coperto l’ultimo avevamo due alternative: orzare per prevenire il
suo tentativo di difesa, o poggiare e tentare il sorpasso sottovento, a
sufficiente distanza; la decisione dipendeva dalla situazione del momento, ma,
in ogni caso, dopo la nostra manovra il malcapitato raggiunto non era più
sventato e, investito dalla conseguente raffica improvvisa, inesorabilmente
scuffiava.
Ma
le emozioni non erano ancora finite: mentre col timone cercavo di tenere la
barca su una rotta utilmente veloce, contro le onde che da poppa ci spedivano
di qua e di là, Roberto saltava come un grillo da un lato all’altro della
barca, sia per tenerla diritta, che
per assecondare le mie manovre col timone. Ad un certo momento però mi sono
accorto che la mia mano destra, pur potendo ancora agire sulla barra, non si
poteva più staccare da essa; prima o poi, quando si fosse resa necessaria una
abbattuta, io avrei dovuto cambiare mano sul timone; la mano destra invece ci
era rimasta incollata con le dita congelate piegate ad artiglio senza alcuna
possibilità di ritornare diritte. Istintivamente cominciai a massaggiare con la
sinistra le dita della mano destra, cercando nello stesso tempo di raddrizzarle
e staccarle dalla barra del timone; per fare questo distolsi lo sguardo dalla
prua e non potei più seguire l’andamento delle onde; dopo pochi secondi di
questo anomalo andazzo, Roberto si insospettì e decise di girarsi per dirmi
qualcosa che mi riportasse alla consapevolezza della situazione; mi accorsi con
la coda dell’occhio del suo movimento e cercai di guardarlo in faccia per
fargli capire cosa stessi realmente facendo e perché; in un attimo vidi la sua
faccia trasformarsi da incazzata a terrorizzata; aveva capito benissimo da solo
cosa stava succedendo; per fortuna capì immediatamente che la cosa migliore che
gli restava da fare era tacere e girarsi di nuovo verso prua per continuare a
saltare di qua e di là; non solo doveva tenere la barca dritta, ma doveva anche
cercare di influire sulla sua rotta con l’unico strumento a sua disposizione:
lo spostamento del peso.
Bisogna
ammettere che il quel frangente ci siamo dovuti affidare al nostro culo (in
senso metaforico) e al suo culo (in senso letterale).
Fortunatamente questa
situazione si protrasse solo per alcuni secondi (10? 15?); non credo che
saremmo potuti restare in piedi per un tempo più lungo; dopo essere riuscito,
tenendo il timone con la sinistra, a ristabilire la circolazione del sangue
nella mano destra, aprendola e chiudendola più volte, oltre a scuoterla verso
il basso in modo che il sangue ritrovasse il suo naturale percorso, ripresi ad
usare il timone nel modo più corretto e anche Roberto recuperò il suo stato di
normale concentrazione.
In
vista della boa di poppa una nuova scoperta ci riportò in un poco piacevole
stato di ansia: la boa non era più circondata da acqua navigabile, ma da un
arcipelago di carene rovesciate di Strale ed F.D. Per fortuna erano tutte
rovesciate con l’albero in verticale sott’acqua e non con le vele sdraiate
sull’acqua, cosa che le avrebbe rese ancora più ingombranti. La boa di poppa,
richiedendo una abbattuta, aveva mietuto in pochissimo tempo tante vittime che
noi non avremmo altrimenti raggiunto.
La
fortuna inoltre continuava ad aiutarci: nel tempo a noi necessario per
raggiungere la boa sotto la spinta del vento, lo stesso vento si incaricò di
far scadere sottovento l’arcipelago, quel tanto da creare intorno ad essa un
po’ di acqua navigabile e permetterci così di girarla.
Durante l’ultima bolina
eravamo rimasti veramente in pochi; tutto quello che poteva succedere quel
giorno, ormai era già successo; probabilmente raggiungemmo ancora qualche
barca, che, una volta raggiunta, inevitabilmente scuffiava; ma, a quel punto,
non ci facevamo più caso.
Arrivammo
sesti su sette; forse è ciò che preferisco ricordare, essendo ancora oggi
vittima del desiderio di non essere arrivati ultimi. Magari siamo arrivati
sesti su sei o settimi su sette; questo però significherebbe che, dopo tutta
quella fatica, siamo arrivati ultimi comunque.
Roberto
invece sostiene che siamo arrivati quinti su sei: anche lui preferisce
ricordare che non siamo arrivati ultimi; secondo lui abbiamo fatto l’ultimo
sorpasso così vicino all’arrivo che il sorpassato non ha avuto il tempo
materiale di scuffiare.
Penso però a chi quel
giorno patì più di ogni altro, cioè alla squadra dei soccorritori: quel giorno
si sono rovesciati almeno trentatré meno sette Strale e quindici meno sette
F.D. per un totale di almeno ventisei più otto uguale a trentaquattro barche e,
in un modo o nell’altro, le hanno dovute recuperare tutte.
Che
giornata ragazzi, che avventura!
Un'avventura in acque lontane è un racconto di Guido Cortese
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