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LUIGI SALERNO
CRONACA DEL DODICESIMO
Si attendeva
l'arrivo dei genitori di Sauk. Il soggiorno del ragazzo era durato dodici
giorni. Dodici giorni in cui i genitori di Sauk non si erano mai fatti vivi. La
giornata di martedì cominciava all'insegna dell’attesa. Dal balconcino
soleggiato esplodeva il giallo dei campi, insieme al canto radioso delle cince
e dei fanelli, che svanivano nel cotone azzurro del cielo. Poco lontano
spiccava il tendone del circo Medrano. Il vecchio Saumek era seduto ad occhi
chiusi sulla sua poltrona, sfiorandosi con una mano la barba bianca, accanto
alla finestra socchiusa. Quel mattino appariva riposato e sereno. Il suo unico
nipote, Sauk, che per la prima volta gli era stato affidato, rimaneva tra le
persone più care e importanti della sua vita, forse l’unica al mondo a contare
davvero per lui. Saumek lavorava ancora i campi ed era un appassionato
giocatore di scacchi. Nei caseggiati vicini il vecchio scacchista era diventato
una leggenda. Studiava per giorni interi le sue mosse con le tecniche più
sofisticate di apertura e in tutta la zona risultava ancora un giocatore
perfetto e imbattuto.
Una lunga lista di
appassionati del gioco degli scacchi, anche da località più lontane, aveva da
tempo in animo di sfidarlo. Era l'ambizione di molti sfidare e vincere a
scacchi il vecchio Saumek. Uno sparuto gruppo di giocatori più giovani ambiva a
prendere da lui delle lezioni di scacchi e a volte anche di resistenza alla
solitudine, senza osare ancora sfidarlo in nessuna delle due arti. Volevano
capire soprattutto il funzionamento della sua mente, nelle dinamiche dei suoi
congegni creativi o attraverso il ragionamento sugli schemi tattici più
ingegnosi, che Saumek sviluppava con sofisticate strategie, sempre più
mirabili, a detta dei più esperti. Il vecchio Saumek, dal suo canto, diceva di
non essere affatto un maestro di un bel nulla e che tutto quello che aveva
appreso sugli scacchi non sarebbe stato mai in grado di insegnarlo a nessuno.
Anche agli sfidanti dava ben poche possibilità: ne accettava al massimo un paio
ogni mese, mai di più, e solo dopo un'accurata selezione.
In quegli ultimi
dodici giorni, Saumek aveva mutato di colpo le sue abitudini, così come il suo
umore e il suo aspetto esteriore. Nemmeno i due sfidanti fissi del mese avevano
ottenuto il diritto di disturbarlo. Finanche il lattaio, che veniva tutte le
mattine, non poteva più suonare alla sua porta per salutarlo e scambiare con
lui quattro chiacchiere sul tempo o su quello che succedeva in paese, come
accadeva quotidianamente, quando Saumek era da solo. Avrebbe lasciato la sua
bottiglia bianca sull’uscio. Saumek lo aveva già pagato in anticipo per le
consegne di quel periodo. Nell'arco di quei dodici giorni, nessuno doveva più
avere un contatto diretto con il vecchio; era questa la sua regola.
Il mattino presto
del dodicesimo giorno, il vecchio non disse una parola. Suo nipote Sauk avrebbe
presto saltellato come un passero tra le stanze luminose della casa,
avvicinandosi ai vetri polverosi delle grandi finestre e cercando di aguzzare
la vista al tendone del circo Medrano e l’udito a qualche auto dal motore
appena più familiare, nell'attesa che i suoi genitori ritornassero a prenderlo,
non avendo specificato l'orario del loro arrivo, che sarebbe potuto accadere da
un momento all'altro. Il tempo passava con lentezza, nel silenzio ruvido e
maestoso di quell'ultimo giorno di vita solitaria col nonno. La colazione di
Sauk era già pronta sul tavolo della grande cucina di campagna. Il suo
bicchiere ricolmo di latte, con accanto del pane integrale, yogurt magro e
conserve di fichi verdi e rosa canina. Ogni piccola cosa, in quei dodici
giorni, gli era stata dedicata con un amore ruvido e silenzioso, che il ragazzo
non aveva mai ricevuto con quella particolare intensità. Ma Sauk quel mattino
non aveva toccato cibo. Era troppa l'eccitazione per la sua partenza e per il
ritorno alla sua vita regolare di sempre. Neanche il nonno quel mattino aveva
mangiato nulla. Non aveva nemmeno approntato per sé, come invece aveva fatto
nel disordine di tutte le altre mattine, dal primo giorno della venuta di Sauk.
Durante quei
dodici giorni, il vecchio e il ragazzo avevano parlato a lungo. Per Sauk,
Saumek era un libro antico e prezioso. Sauk avrebbe chiesto e avrebbe sempre
saputo, a qualsiasi livello di profondità. A qualsiasi domanda avrebbe ricevuto
sempre una risposta completa, articolata in ogni sua minima parte. Una risposta
saggia e amorevole. Il vecchio e il ragazzo non avevano fatto altro che
inoltrarsi dentro i fondali crepuscolari della saggezza. Il ragazzo chiedeva,
il vecchio allora gli rispondeva, sempre con molto garbo e pazienza, senza mai
affrettarsi a concludere un suo pensiero.
I due cenavano sul
presto, con l'ultimo sole che si abbatteva sulle loro braccia vicine, che per
quanto fosse piccolo il tavolo in certi momenti quasi si toccavano. Finita la
cena, i due rimanevano sempre seduti sul balconcino a guardare il piccolo mondo
di Saumek spegnersi a poco a poco, appannandosi nei vapori celesti dei campi,
mentre le prime stelle cominciavano a fendere il buio misterioso della notte e
della loro vita. In quei momenti sospesi, il loro discorso notturno continuava
a crescere in un sottovoce malinconico, che nascondeva al suo interno pagine
segrete di poesia e di dolore. Quando il buio calava del tutto, la voce del
vecchio Saumek riprendeva a parlare, con un tono alquanto più spento e
sofferto, esattamente dallo stesso punto in cui si era interrotta, negli ultimi
barlumi di luce. Di solito era una parte di risposta appena iniziata, quella
travolta da tenebre più gentili, ancora infestate di azzurro e di rosa antico.
Il ragazzo attendeva con fiducia la risposta ispirata di suo nonno Saumek,
mentre i loro occhi si sfioravano appena, intrisi della stessa pazienza e
sottomissione. Quando il dodicesimo giorno si faceva più vicino, i silenzi dell'imbrunire
tra i due diventavano più fecondi e violenti. Quel mattino, l'ultimo dei
dodici, era impregnato dello stesso silenzio della prima sera, ma intorno a
quel silenzio c'era ancora un vortice di luce, la vita radiosa dei campi, il
passaggio di un gregge, un gruppo di anziane vestite di nero, che serpeggiavano
dalla chiesa per raggiungere a fatica il mercato. Sauk si perdeva nelle
risonanze segrete di quella strana giornata di addio e di ricordi, che sentiva
ancora diversa e forse ancora migliore, anche se più difficile, rispetto
all'armonia e alla leggerezza delle altre. Saumek, dal suo canto, soffriva al
pensiero di non poter più condividere con il ragazzo i silenzi pietrosi e
impenetrabili dell'imbrunire, insieme alle tenere consuetudini dei loro dopocena.
Il suo unico nipote riusciva a dargli quello che a Saumek mancava, senza che
Saumek dovesse mai chiedergli o dirgli con precisione quello che davvero gli
mancasse. E resisteva a stare insieme a Sauk senza perdere il fascino della sua
solitudine. Saumek, con Sauk, riusciva a rimanere solo pur stando in compagnia,
e a rimanere con un altro essere senza perdere la bellezza silenziosa dello
star soli, rimaneva un avvenimento raro quanto prezioso; nel suo caso un
avvenimento davvero unico. Anche Sauk riusciva a ricevere dal vecchio Saumek
tutto quello che gli mancava, e riusciva a stare insieme a lui senza perdere il
fascino della sua solitudine, allo stesso modo.
Saumek, una delle
prime sere, aveva detto a suo nipote di non aver mai avuto un'anima prima di
conoscerlo. E che se Sauk non fosse mai esistito, il vecchio Saumek si sarebbe
perso, proprio come gli stava accadendo in quel mattino, come si perdono tutti
quelli che non hanno un'anima. Il vecchio aveva sentito di possedere un'anima
solo in presenza di suo nipote Sauk, gli disse. La sua anima aveva solo
quattordici anni e dodici giorni. Quando Sauk partiva, allora era l'anima di
Saumek che se ne andava, e quello che restava era solo un tratto bianco di
roccia, la superficie di una radura vuota, senza tracce di amore, di paesaggi
campestri all'imbrunire e di vita. Anche per Sauk era lo stesso: il nonno era
la sua unica anima, un'anima di quasi ottant'anni e dodici giorni. Tutte le
volte che Sauk stava col nonno, allora sentiva frusciare il fresco dell’anima
nei suoi quattordici anni, grondanti di malincuori e desideri.
Il vecchio Saumek
aveva appena sfiorato con i dorsi delle mani i suoi gerani imperiali color
cremisi, che teneva sul davanzale della sua finestra, curati da sempre con la
massima premura. Si era riempito un bicchiere di vino Taurasi, che sorseggiava
con lentezza, vagando per le stanze deserte della casa, quando suo nipote
ancora dormiva, facendo attenzione a non svegliarlo, nonostante non vedesse
l'ora di parlargli, di sentirlo vivere, domandare, correre fuori e poi girarsi
e sorridergli con affetto. Anche Sauk, in quegli undici giorni, aveva
riflettuto a lungo sulle parole del nonno. Non soltanto sulle sue risposte, ma
anche sulle singole parole di quelle risposte, che in effetti non erano
necessariamente collegate alle sue domande, ma dicevano di molto altro ancora,
di più grande e profondo, secondo lui. Di cose che Sauk non aveva ancora mai
chiesto, perché non sapeva nemmeno di quel minimo necessario per poter chiedere
di loro, ma alle quali aveva misteriosamente ricevuto una risposta segreta,
ancor prima di domandare o anche solo di conoscere la possibilità di una
domanda che in qualche modo le stimolasse. Il vecchio Saumek gli aveva sempre
detto che per formulare una domanda, anche semplicissima, c'era bisogno di un
margine minimo di conoscenza anteriore di risposta, quanto meno di una sua
lieve ipotesi. Nessuna domanda nasceva dal buio fitto, secondo Saumek. Il
ragazzo Sauk rifletteva a lungo su quelle parole difficili e cercava risposte a
domande che ancora non gli aveva rivolto, chiedendosi se fosse mai possibile
arrampicarsi e addentrarsi verso qualcosa che non si conosceva e formulare
domande su territori che lui sentiva ancora così oscuri e insondabili.
Quel dodicesimo
mattino i terreni, gli alberi e le case erano divorati di azzurro. Sauk aprendo
gli occhi si accorse di quanto fosse generosa la campagna nel chiaro
dell'ultimo giorno, che chissà per quanto tempo non avrebbe più rivisto, come a
lungo pensò. La sua colazione era già pronta. Un'ape sostava, ronzando, sul
bordo del suo bicchiere di latte. Quando il ragazzo entrò in cucina, l'ape
interruppe l'esercizio del suo ronzio e si fermò a guardarlo. Anche Sauk la
fissò. Il nonno gli sorrise appena, sotto la porta, con il sole rosso sulla
barba e senza muovere un solo passo verso il nipote, ancora travolto dal sonno
e dai desideri. Accanto alla tazza azzurra di latte, Saumek aveva posato uno
stelo di geranio imperiale. La sua fragranza allontanava gli insetti, era ormai
risaputo, ma l'ape rimaneva ancora sul bordo del bicchiere, e il ragazzo sotto
la porta, con il nonno immobile, a pochi passi da lui. Le campane della chiesa
russa risuonavano in lontananza, gli uccelli cantavano a squarciagola, senza
trovare un solo attimo di tregua dalla loro parata di follia.
Nemmeno una
telefonata in dodici giorni. Lo pensavano entrambi, nonno e nipote, anche senza
dirselo. Lo avevano pensato e intuito a partire dal quarto giorno di silenzio.
I due genitori del ragazzo avevano detto che avrebbero chiamato fin dal secondo
giorno, per avere notizie del loro Sauk e anche per raccontare del loro viaggio
misterioso, di cui avevano detto così poco a entrambi, qualcosa solo a Saumek,
ma giusto un accenno, per non preoccuparlo. Dal secondo giorno al quarto, nonno
e nipote non avevano pensato per niente a quel silenzio ancora lontano. Ma dal
quarto giorno in poi, il silenzio dei genitori di Sauk fu il loro primo
pensiero in comune e cominciò a preoccuparli e a farsi sempre più vicino.
Il ragazzo voleva
ancora parlare al nonno dell'anima e dell'esistenza, ma in quell'ultimo giorno
le parole fecero fatica ad uscire. Saumek beveva il vino Taurasi e lo guardava
fisso. Il latte del ragazzo era fermo nel bicchiere, accanto all'ape, posata
sul bordo fresco di vetro.
Non un filo di
vento in quel mattino, dove tutto appariva così calmo e limpido da non sembrare
nemmeno più vivo. Sauk voleva uscire per raggiungere il mercato. Vai pure, gli
fece il nonno Saumek. Io rimango qui, e così fu. Il vecchio rimase da solo,
nelle sue abitudini solitarie di sempre, e lasciò andare Sauk da solo al
mercato, come era capitato anche altre volte. Dalla finestra il vecchio
guardava il ragazzo sbiadire nella luce, annientandosi nei riverberi dei campi
azzurri e nel vociare delle poche persone di passaggio, che arrancavano
nell'innocenza dolce di quell’ora. Sauk si faceva sempre più magro e nella
distanza sempre più sbiadito e infelice. Sembrava un altro, eppure in quella
strisciolina c'era anche l'anima turbinosa di Saumek, pensava il vecchio,
immaginando quello che avrebbe provato quando tra poche ore sarebbero venuti a
riprenderlo: quando da quella stessa finestra lo avrebbe visto svanire insieme
alle lunghe ombre dei suoi giovani genitori, i fari rossi della loro macchina
spedita nel buio, sempre più lontani, poi lontanissimi e minuscoli come delle
api, fino a diventare rosa e poi tutti neri, come la fine di un giorno di festa
o di un'intera esistenza. Saumek osservò la colazione intatta del nipote, il
geranio imperiale e rosso cremisi che ormai si appassiva accanto alle due
conserve, mentre l'ape era appena affogata nel bicchiere ricolmo di latte di
Sauk.
Durante l’assenza
del nipote, Saumek rimase pensieroso, in cucina. Il rumore della pendola
riecheggiava in tutta la casa e dentro la gola chiusa dei suoi ricordi. Quei
rintocchi erano lunghi come anni. Il vecchio allungò un dito nel bicchiere di
latte, raccolse l'ape spugnata nel bianco e la ingoiò.
Pensando ancora a
quello che sarebbe stato di lui senza il suo piccolo Sauk. Dopo quei giorni,
così fragili e intensi, erano accadute in apparenza solo parole o fantasmi di
parole, nessun fatto, nessuna azione particolare che potesse ridurlo così. Ma
da quelle parole si era smosso qualcosa di tremendo, una sorta di vincolo, che
prima non era mai accaduto. La sua anima adesso era al mercato e quella di Sauk
accanto ai vetri sporchi di sole della grande cucina, come Saumek immaginava.
Il vecchio pensava a sua figlia, la giovane madre di Sauk, ai suoi capelli
raccolti, alla sua nuca triste da studentessa e al motivo terrificante di quel
loro silenzio, così ostinato e continuo, ancora diverso da quello che il
vecchio Saumek gustava con il suo unico nipote, tutte le sere, dopo aver
cenato, come poi ancora ricordò, con un filo di dolore al centro del petto. Che
cosa sarebbe mai accaduto? E se quella sera non fossero più tornati a
riprenderlo, che cosa sarebbe ancora mai successo o nemmeno mai più stato tra
loro due, nonno e nipote, oltre quella lunga carovana di giorni? Sauk sarebbe
rimasto insieme a lui con lo stesso piacere ed entusiasmo di quei dodici
giorni, oppure avrebbe vissuto quel prolungamento come una sorta di prigionia e
di castigo? Il vecchio Saumek sarebbe rimasto ancora lo stesso davanti ai suoi
occhi scontrosi e castani o invece no? Avrebbe costituito ancora per lui la sua
anima, o soltanto un chiodo nero di ruggine da cui sganciarsi? Il vecchio
attaccò una lunga sorsata di latte, sperando di placare l'ansia dei suoi ultimi
pensieri. L'ape, dentro di lui, pareva risvegliarsi nella crema rosata del
flusso, non era morta ma solo svenuta, e adesso gli ronzava dentro, sfiorando
come steli tutti gli organi interni e imbiancati, riposandosi in ultimo sulla
punta affilata del suo cuore. Il pungiglione ancora ammollato adesso cominciava
a seccarsi nel buio dei sentimenti di Saumek. L'ape tremolava sui rovi del suo
miocardio, forse aveva raggiunto un ventricolo atriale, mentre Sauk comprava
delle tendine rosse con i suoi risparmi, per regalarle al nonno e fargliele
sistemare al più presto in cucina, dove il sole inondava di troppa luce le sue
povere giornate, fino a pomeriggio inoltrato. Quelle tendine rosse avrebbero
invece sedato la violenza del sole della campagna e reso quella cucina immersa
nel tramonto del tessuto, quasi come un lume rosa di candela, si diceva il
ragazzo, avviandosi verso casa.
Il vecchio Saumek
era ancora fermo. L'ape stordita, che riposava sul suo cuore come sulla schiena
curva di un ragazzo soldato. Il nipote, di ritorno dal mercato, abbracciò
Saumek con affetto, come se non lo vedesse da mesi; lo strinse ad occhi chiusi
in quell'abbraccio maldestro dell'ultimo giorno, un abbraccio che sembrava
allontanarli per quanto si intensificasse la stretta tenace dei due corpi. Poi
gli chiese se durante la sua assenza avevano telefonato per lui, ma Saumek non
gli rispose. Sauk lo vide diverso; fece finta di niente e intanto svolse le
tendine nuove, che erano arrotolate in alcuni fogli di carta da pacchi,
distendendole con cura sul tavolo della cucina. Sauk attendeva una risposta,
almeno dal suo sguardo. Saumek guardò le tendine con attenzione, poi sollevò il
viso e un po' gli sorrise.
“Ti piacciono,
Saumek? Sono un mio piccolo regalo per te”.
“Un tuo bellissimo
regalo, Sauk, e nemmeno così piccolo, sai? Sono davvero belle. Ti ringrazio di
cuore, ma non dovevi”.
“Certo che dovevo,
invece. Le sistemiamo insieme, prima del tramonto. Prima che io vada, quindi.
Te lo prometto”.
“Prima che tu
vada, d’accordo. Siamo ancora in tempo, Sauk”.
“Al mercato faceva
un gran caldo. Un caldo infernale, sai?”, gli fece Sauk.
“Ho ingoiato l'ape
caduta nel bicchiere di latte. Credevo fosse morta, Sauk. Ma invece credo che
sia ancora viva. Dentro di me. La sento solo dormire e appena appena tremare;
sarà stordita, immagino. Non mi è mai successo, è la prima volta”.
Sauk guardò il
nonno, il bicchiere di latte, poi di nuovo il suo viso stanco e rabbuiato.
“Davvero? Un'ape è
caduta proprio dentro di te?”
“Proprio così,
Sauk. Anche se non credo che resisterà a lungo laggiù, dico nel mio abisso, o
chissà...”.
“Un'ape nel tuo
abisso, Saumek, penso proprio che non arriverà mai alla fine”, gli fece Sauk,
abbassando di colpo lo sguardo, pensieroso e sempre più turbato.
Saumek non gli
disse altro e nemmeno il nipote, che intanto palpava ancora le tendine rosse
distese sul marmo del tavolo; se le lasciava scivolare tra le dita, con un
certo affetto, quando suonarono al telefono. La pendola in quel momento
staccava le dodici.
Saumek si ritirò
nella stanzetta, l'unica dove aveva il telefono. Chiuse la porta e rispose con
un filo di voce, socchiudendo gli occhi. Sauk fu invece preso da un fremito.
Lasciò andare le tendine e si precipitò giù in strada, correndo di nuovo verso
la fornace del mercato.
Intanto Saumek
parlava con sua figlia al telefono:
“Arriveremo verso
sera, papà. La questione è stata complessa, come immaginavo, d'altra parte. Non
abbiamo avuto modo di avvertirti, poi ti spiegheremo meglio da vicino. Ma Sauk?
Avrà fatto le sue solite domande, anche sul nostro silenzio, immagino. È così?”.
Saumek ascoltava
la voce di sua figlia in un silenzio religioso. Non la interrompeva mai e
ritardava anche a risponderle.
“Ci sei ancora,
papà?”.
“Ho ingoiato
un'ape viva. Svenuta e invece creduta morta, pensa..., solo questo”.
“Che cosa dici?”.
“Sauk è stato
molto felice in questi dodici giorni. Non credo che sia stato mai così felice e
nemmeno io lo sono mai stato, credimi. In paese è arrivato anche il circo
Medrano. Quel tendone ci ha tenuto compagnia fin dal secondo giorno. Mutava il
colore nel tempo della luce, ogni mattino, senza lasciarci mai la mano e lo
sguardo, fino a quando fuori non faceva buio e non cominciavano le stelle”.
“Papà, per favore:
perché non cerchi di seguirmi? Stai bene, vero?”.
“Mi ha anche
comprato delle tendine rosse per la cucina. Le metteremo poco prima del vostro
arrivo, me lo ha promesso, in modo che...”.
“... vorremmo
arrivare prima di sera, se ci riesce, così abbiamo tempo di salutarti e di
stare ancora un po’con te. Mi ascolti, vero?”.
“Volete cenare
qualcosa, allora?”.
“Non preoccuparti
di questo, dimmi solo dov’è Sauk, adesso. Come sta?”.
“In cucina, penso.
Tuo figlio sta bene. È stato sempre bene con me, nella mia casa, ma anche
fuori. Dal primo all’ultimo giorno”.
“Non sa che stai
parlando al telefono con me?”.
“Non credo che lo
sappia, potrebbe appena immaginarlo, o forse nemmeno”.
“Sauk ha ucciso
una ragazza, papà. Tu questo non devi mai dimenticarlo, ormai non ci sono più
dubbi”.
“Non è ancora
sicuro, Martina: è così che mi avevi detto l’ultima volta, era solo un'ipotesi”.
“Adesso non più.
Abbiamo fatto il possibile, anche oltre. Abbiamo creduto a un errore, ma
purtroppo... maledizione quanto è difficile... purtroppo è tutto vero, invece.
Domani dobbiamo consegnarlo. Ci sono diversi testimoni ad averlo visto. Non c’è
più tempo, ormai. È tutto finito, cerca di fartene una ragione, Saumek”.
“Non credo che
resisterà a lungo laggiù”.
“Hai capito quello
che ti sto dicendo?”.
“Parlavo solo
dell'ape”.
“Ancora insisti,
papà? Ma che cosa ti succede? Non riesco più a seguirti”.
“Quanti anni aveva
la ragazza?”.
“Ventisei”.
“Sauk ne ha solo
quattordici. Non può essere possibile che abbia fatto una cosa del genere a una
ragazza che ha quasi il doppio dei suoi anni”.
“Lo so, ma in
certe dimensioni così estreme nemmeno più esiste il tempo e quindi nemmeno
l'età e le sue distanze. Dobbiamo rassegnarci, è tutto quello che ci resta”.
“Che cosa gli avrà
preso?”.
“Vorrei saperlo
anche io. Non riesco a immaginarlo. Ci stiamo impazzendo, ma non ci arriviamo a
capire. Forse... forse non c’è più niente da capire...”.
“Tuo figlio Sauk è
la mia anima”.
“Più di qualcuno
lo avrebbe visto, papà. Tre testimoni oculari, al momento, ma credo che se ne
aggiungeranno degli altri. Sauk era parte del gruppo che la seguiva da tempo.
Abbiamo fatto il possibile per convincerli a tacere, anche se Riccardo non era
d’accordo e mi ha fatto guerra, fin dal primo momento in cui ho ipotizzato una
sorta di trattativa. Abbiamo litigato, in questi dodici giorni, proprio per
questa ragione. Ho proposto loro, ai loro famigliari, una somma importante, ma
non c’è stato verso. Hanno deciso di parlare e di raccontare tutto. Lo faranno
quanto prima, papà. Dicono che sia giusto così. Anche Riccardo lo dice, lo dico
anche io, adesso e credo che lo dirai anche tu, non è così, papà Saumek?”.
“Le tendine rosse
nella cucina le ha comprate lui, di sua iniziativa, con i suoi pochi risparmi,
senza che io gli dicessi nulla. Era preoccupato per la troppa luce del giorno,
capisci?”.
“Sei sicuro che
non ti stia sentendo, papà?”.
“L’ho lasciato in
cucina, ma adesso non so se sia ancora lì”.
"A te ha
detto qualcosa?".
"Di questa
ragazza niente. Nemmeno del resto".
“Vorremmo che la
cosa rientrasse al più presto e che il ragazzo si consegnasse con noi, per
evitare ulteriori complicazioni, capisci? Meglio arrivare prima degli altri.
Riccardo adesso sta mangiando un toast con l’avvocato. È una donna di Trento,
molto in gamba. Si chiama Astrid, il nome forse è un po’ strano, ma questo
adesso non conta. Si è da sempre occupata di minori ed è preparatissima
sull'argomento. Sta scrivendo molto, prende appunti e non ci lascia un momento.
Ci parla a lungo di storie tremende legate a reati di minori, di tanti altri
ragazzi indiavolati, dell’età di Sauk e anche più piccoli e forse anche più
feroci di lui. Sarebbe importante che tu in qualche modo lo preparassi, o al
limite potresti accompagnarci, non credi? Potrebbe essere importante che tu ci
fossi. Dovremmo raccontare che Sauk è scappato, o che si è sentito male o che
ha perso conoscenza e noi non sapevamo più dove trovarlo, ma non diremo a
nessuno che è stato da te. Inventeremo qualcos'altro, di sicuro, vedremo quale
versione possa fargli ancora del bene, questo lo valuterà l’avvocato,
naturalmente. Qualcosa che non lo danneggi e che non aggravi di più la sua
situazione già compromessa, ecco, ma tu, papà, ne rimarrai fuori. Voglio che tu
lo sappia, te lo prometto”.
“Non potrò
accompagnarvi, purtroppo. Ho alcune sfide di scacchi e altre incombenze che non
posso più rinviare. Mi dispiace”.
“... tre persone
diverse, che non si sono mai incontrate, dicono e giurano che la ragazza morta
era cieca, ed è stata colpita e uccisa da nostro figlio con una freddezza
terrificante, sono state le loro parole. Questo fattore della cecità della
vittima rappresenterebbe un'aggravante importante, di enorme rilievo. Dicono
che le sue sassate le hanno squarciato la gola. La ragazza lapidata avrebbe
sbarrato gli occhi nello squarcio delle sassate di Sauk. Era una ragazza cieca
e quindi indifesa, papà. Non credo vi siano più speranze per il nostro
uccellino”.
“Nessuno sa che
Sauk è qui con me?”.
“Nessuno. Tranne
noi due e mio marito e poi l'avvocato Astrid”.
“Tuo marito che
cosa dice?”.
“Riccardo parla
poco, sempre di meno, dovresti conoscerlo. Ormai cosa c’è più da dire, poi. La
sua vita è distrutta, come è distrutta la mia, la nostra e anche quella di
Sauk”.
“Dobbiamo fare
qualcosa. Sauk è innocente, me lo sento".
“Anche noi
vorremmo che fosse così, papà, ma non cambia molto quello che noi vorremmo che
fosse. Adesso devo attaccare. Ti prego di non fare parola di quello che ci
siamo detti, ma cerca solo di prepararlo, come sai fare tu. Lo sai bene quanto
ci tiene a te...”.
“Ci proverò. Non
sarà facile”.
“Lo so bene,
questo. E so anche che adesso ti amo di più, papà Saumek. In ogni caso, e
qualsiasi cosa ci succeda”.
“A stasera,
allora?”
“A stasera, papà
Saumek”.
I due rimasero in
silenzio prima di abbassare i ricevitori. Anche fuori regnava lo stesso
silenzio che avvolse il loro breve respiro. Il mercato vecchio scioglieva i
suoi tendoni e Sauk ritornava a casa sorridente, con un medico che arrancava
trafelato al suo fianco, un vecchio magrissimo e molto miope, che Sauk stava
trascinando di furia a casa del nonno per la questione singolare dell'ape
ingoiata viva, che a quanto pare lo aveva sconvolto.
Il medico entrò
nell'ombra fresca della casa, asciugandosi la fronte grondante con un
fazzoletto nero, grande quanto uno strofinaccio. Sauk gli faceva strada,
annunciandosi al nonno con un lungo fischio. Saumek era già in cucina, le
spalle alla porta, a cucinare fagioli di Spagna nel fumo bianco.
“Allora, buon
Saumek! Che cosa mi fai sentire? Hai davvero ingoiato un'ape viva?”.
Saumek si girò con
uno sguardo freddo, scostante, che attraversò prima il vecchio dottore poi il
viso sovreccitato del nipote Sauk, che affannava anche lui, più per l'emozione
della sua impresa che per la corsa.
“Non capisco”.
“Tuo nipote Sauk,
è lui che me lo ha detto. È venuto a chiamarmi di corsa, dicendomi di fare
presto. Allora? Mi spieghi come sono andate le cose?”, scostando una sedia dal
tavolo e prendendo posto.
“Non è successo
niente. Sto bene, come puoi vedere. Ci berrò su del vino e la farò annegare del
tutto. Non preoccuparti per me, non è il caso”.
“Vuoi che ti
visiti, Saumek? Sei sicuro che vada tutto bene?”, gli disse il medico.
“Sicuro, va tutto
benissimo, fidati. Se vuoi pranzare qualcosa con noi sei il benvenuto, e lo
sai... Ci saranno fagioli e poi del formaggio e delle olive nere, e anche dei
pomodori secchi”.
“Ti ringrazio, ma
devo ritornare allo studio. Fammi sapere tue nuove, in ogni caso. Se mi riesce
farò un salto stasera, d’accordo?”, gli disse, alzandosi in piedi con
stanchezza e asciugandosi ancora una volta il sudore dalla fronte perlata.
“Stasera non sarà
possibile”.
“Allora nel
pomeriggio”.
“Nemmeno questo
pomeriggio, mi dispiace”.
“Facciamo così,
Sauk. Se qualcosa dovesse andar storto, questo è il mio nuovo numero. Avanti,
carta e penna e scrivilo come si deve, ragazzo”, rivolgendosi al ragazzo, che
si precipitò a rimediare foglio e penna, per sedersi al tavolo e scrivere con
cura il nuovo numero che il medico gli dettava con una lentezza d'altri tempi,
mentre l'ape in quel momento usciva dalla bocca di Saumek slanciandosi verso i
vetri soleggiati della finestra.
“Ce l’ha fatta, la
maledetta! Finalmente sei libera, mia regina...”, disse Saumek, rischiarandosi
per un attimo in viso.
Gli occhi di Sauk
e del medico ruotarono incantati fino al punto preciso dove l'ape, ancora
spugnata di latte, si era fermata, adesso tremando leggermente con le ali come
con le ciglia delle sue zampette. Quegli occhi erano lucidi e leggeri dentro la
luce feroce del mezzogiorno.
“Meglio così,
allora: significa che al momento non avrai bisogno di me”, fece soddisfatto il
medico.
“Questo me lo
tengo lo stesso”, disse Sauk, impugnando con sicurezza il foglio con il nuovo
numero di telefono del medico. “Per ricordo. Stasera parto”.
“Ma davvero? Il
tuo ragazzino riparte?”, disse il medico, guardando fisso la nuca stanca di
Saumek, che intanto girava i fagioli di Spagna nel suo tegame fumante, sempre
nello stesso verso meccanico, senza più vita.
“Questa sera
passeranno a prenderlo mia figlia con suo marito, prima che faccia buio, al
crepuscolo. Lo riporteranno a casa”, gli disse Saumek, senza voltarsi.
“Era così in pena
per te, avresti dovuto vederlo. Mi ha trascinato di forza, senza darmi il
tempo”, fece il medico, adesso guardando con dolcezza Sauk.
“Siamo arrivati al
dodicesimo giorno, ormai”, sussurrò Saumek, mentre una sua lacrima scivolava
nel tegame.
Il medico andò via
con un passo più calmo e l’aria rasserenata. Sauk rimase sull'uscio a guardarlo
svanire, con un braccio ancora alzato in segno di saluto. Suo nonno rimase
ancora fermo, di spalle alla porta, il viso sommerso nel fumo dell'addio.
I due pranzarono
presto, senza troppo appetito.
“Il medico ha
detto che hai un viso buono. Che sei un bel ragazzino e che eri molto in pena
per me”, gli disse Saumek, con una voce severa e misteriosa.
“Chi era al
telefono, nonno Saumek?”, fece Sauk.
“Tua madre. Mi ha
detto che arriveranno prima di sera”.
“Ma... perché in
tutti questi giorni non si sono fatti vivi?”.
“Credo che abbiano
avuto dei problemi per chiamarci”.
“Di che tipo?”.
“Non me lo ha
detto di che tipo. Tua madre li ha chiamati solo problemi”.
“Non ti ha chiesto
di me?”.
“Certo che mi ha
chiesto di te, perché non avrebbe dovuto!”.
“E tu che cosa gli
hai detto di me?”.
“Che tu sei la mia
anima e che io la tua”.
“Davvero? Hai
detto proprio questo alla mamma?”
“Certo che gli ho
detto questo”.
“E lei?”.
“Lei ha ascoltato
e credo che sia stata contenta delle mie parole”.
Sauk lasciò la
posata sospesa, e guardò fisso suo nonno negli occhi grigi.
“Tu credi davvero
a tutto questo?”, gli chiese Sauk.
“Certo.
Profondamente, ragazzo mio".
"Anche io lo
credo profondamente, ed è anche per questo che mi mancherai moltissimo, più di
quanto tu possa immaginare, Saumek".
“Prima di sera
metteremo le tendine rosse alla finestra e allora tu mi racconterai tutto per
bene, prima che arrivino i tuoi. Mi racconterai tutto quello che devi ancora
dirmi: lo farai con la massima precisione, nella loro attesa: sei d’accordo,
Sauk?”.
Il ragazzo non gli
rispose subito. Riprese a mangiare con un filo di appetito in più, forse non
aveva colto bene la domanda del vecchio Saumek e nemmeno il suo sguardo, che si
faceva sempre più cupo e minaccioso, mentre ruotava dagli occhi smarriti di
Sauk al cibo fumante che gli brillava nel piatto ancora mezzo pieno.
“Ormai manca così
poco al loro arrivo; pare che questo tempo sia volato, che strano, all'inizio
sembrava non passare mai”, gli disse piano Sauk.
“Potresti dirmi
anche la verità, allora. Almeno l'ultimo giorno, non credi? Abbiamo ancora del
tempo, prima che faccia sera. Un tempo che farà più fatica a passare e a
morire, perché sarà meno giovane di quello dei giorni precedenti”.
“La verità? La
verità di cosa, poi? Non ci arrivo, Saumek, questo discorso è troppo difficile
per me”.
“Lo sai benissimo
di quale verità sto parlando!”.
“Andiamo, adesso
esageri, nonno. Mi sembra un interrogatorio”.
Il nonno sollevò
gli occhi e trafisse Sauk con uno sguardo bruciante.
“Che cosa ti
succede? Non stai più bene, Saumek?”, gli fece il ragazzo, adesso impaurito.
La campagna
sprofondava nel suo squarcio ancora azzurro, anche lei rapita dall’ascolto
della verità e della sua prima tensione verso quella mossa azzardata da parte
del vecchio giocatore imbattuto. Il solitario, come diversi appassionati erano
soliti chiamare Saumek.
“Che cosa si prova
ad ingoiare un'ape viva, nonno?”, cambiando subito discorso, Sauk, con una
disinvoltura che lasciò spiazzato il vecchio.
“Non sapevo
nemmeno se fosse viva o morta”, gli rispose, con vaghezza, stando quasi al suo
gioco.
“E poi?”.
“Poi..., insomma:
ho solo pensato che forse mi stava ingannando, e allora ho capito che era soltanto
svenuta per finta nel latte, per prendersi gioco di me e anche di noi, quindi,
per spaventarci, infatti con te la regina ci è riuscita alla perfezione”.
“Dormirai da solo,
stanotte. Avrai perso un po' l'abitudine, vero? Ritornerai di nuovo il re della
tua casa, il re solitario, come ti chiamano gli altri scacchisti”, gli fece
Sauk, guardando fuori.
“Abbiamo parlato
così a lungo e tu mi hai tenuto nascosta una cosa così importante. Non riesco a
crederci. Non me lo sarei mai aspettato da te, Sauk, per quanto grande sia
l'amore che ci lega”.
“Non capisco,
Sire. Non ci arrivo ancora, mi perdoni, ma non riesco proprio a seguirla
stavolta”.
“Tu non sai perché
sei qui, Sauk?”.
“Non mi guardi
così, per favore... Mi sta mettendo paura, Maestà”.
“Il motivo per cui
tua madre e tuo padre ti abbiano portato qui, per dodici giorni. Sei sicuro di
non averlo compreso ancora, fino ad oggi, intendo?”, gli disse Saumek, in un
crescendo di ansia.
“Non credo che
debba esserci un motivo particolare. Impegni loro, forse, immagino solo
questo”, ritornando di colpo più serio e anche smarrito.
“Io conoscevo il
motivo della tua venuta, invece; non lo credevo e non lo volevo possibile, ma
in qualche modo ne ero già al corrente, Sauk. Non è vero che tu non ci arrivi!
La tua mossa è sbagliata”.
“Perché sta
diventando tutto così difficile, proprio il nostro ultimo giorno, poi? Sei diventato
un altro re. Hai un viso che non riconosco più e tutto questo non è giusto e fa
male a tutti e due, soprattutto a me”.
"Un altro
re... è dove comincerebbe il mio impero?".
"Nella tua
anima, Saumek... ma non quella del primo giorno", ritornando a guardarlo,
adesso con gli occhi lucidi, il ragazzo.
"Questo
giorno è uguale al primo, al secondo e al quarto, come al decimo e all'ottavo o
al sesto. Ormai sono ritornati tutti uguali, senza speranza".
"Perché dici
questo, adesso? Io invece penso che tu... "
A quel punto
Saumek sferrò un pugno sul tavolo di marmo, facendo oscillare piatti e posate,
schizzare fuori i fagioli di Spagna e il vino dal bicchiere sul polso di Sauk,
che sussultò e balzò in piedi per lo spavento. Fissò Saumek, con il fiatone e
lo sguardo atterrito, stentando a riconoscerlo per quella improvvisa ondata di
violenza, che gli aveva spezzato le ossa delle sue ultime parole nella bocca.
“Adesso mi
racconterai tutto quello che è successo!”, gli disse Saumek, con gli occhi
infestati di sangue e di amore.
“Non so di cosa
parli, nonno Saumek, te lo giuro”.
“Sai benissimo di
cosa parlo, Sauk!”, sferrando un pugno ancora più violento sul tavolo, facendo
rovesciare e poi rotolare un bicchiere vuoto, che Sauk raccolse per tempo,
prima che si infrangesse.
I due, dopo i
colpi tremendi sul tavolo, ritornarono distanti, segregati in un altro
silenzio, così diverso da quello che aveva accompagnato le loro conversazioni
crepuscolari e poi notturne. Il vecchio riprese luce a fatica, calmando appena
il suo respiro. Il nipote gli chiese sottovoce quello che avrebbe mai saputo,
ancora atterrito dagli effetti dell’esplosione e dal cambiamento spaventoso,
avvenuto di colpo nel suo vecchio e amato Saumek.
“Tre persone
diverse ti hanno visto colpire a morte una ragazza cieca. È qualcosa di
tremendo e di imperdonabile, Sauk. Sei qui perché i tuoi genitori volevano
cercare una verità prima che fosse troppo tardi, e tenerti al riparo, in un
luogo che fosse difficile da raggiungere e che nessuno al momento conoscesse, ma
a quanto pare...”.
“...non l'hanno
trovata più una verità?”, disse Sauk, con gli occhi perduti, un'espressione
astratta che lo sbiadiva.
“Dovrai
consegnarti e confessare, entro domani. Ti hanno riconosciuto. Coincide tutto
quello che hanno visto, come quello che tu mi stai negando. Me lo ha
detto tua madre, al telefono, poco prima che tu ritornassi dal mercato. Non può
non essere vero, allora, capisci? Mia figlia non mi ha mai mentito”.
Sauk non disse
altro. Fissò con dolore il piatto di fagioli di Spagna, ancora mezzo pieno, con
le chiazze di olio verdastro che si espandevano alla luce ancora forte del
giorno.
“Stasera metteremo
le tendine rosse insieme, Saumek. Prima del tramonto, come ti avevo promesso.
Può essere che in quel momento riuscirò a ricordare qualcosa, ma adesso non
parliamone più, per favore. Siamo stanchi, tutti e due. Prendiamoci ancora del
tempo, per favore. Potrebbe farci troppo male e io non voglio più questo,
capisci, sopratutto oggi, che dobbiamo salutarci”, disse, ancora spaventato e
ormai sfinito, Sauk.
“Che cosa ti è
successo, Sauk? Non abbiamo molto tempo, dimmelo adesso, altrimenti mi farai
morire..., potrebbe esplodermi il cuore, prima che tu riparta, te ne pentiresti
per l'eternità; così diventerei la tua maledizione e non più la tua anima”,
avvicinandosi con lentezza al nipote e oscurandolo della sua grande ombra, che
si allungava sulla figura minuta del ragazzo, come quella di una quercia
selvatica.
E solo allora
qualcosa in Sauk sembrò smuoversi e lo portò a cominciare, con estrema lentezza
e con un filo di voce; sembrava la voce debole di un vecchio e non più quella
di un ragazzo. La voce oscura di Saumek, giusto quella dell’ultimo giorno,
durante quel suo primo incontro in cui ne usciva battuto, come non gli era mai
successo, in nessuno dei suoi incontri di scacchi.
“La seguivo da
giorni. Non sapevo che fosse cieca o quasi cieca. Non avevo mai visto una
ragazza quasi cieca prima di allora. La sua accompagnatrice, invece, era molto
grassa, non quasi, e mi guardava troppo, mangiando sempre qualcosa di dolce
mentre mi sorrideva con la bocca sporca, credendo che io guardassi lei, mentre
invece non era così. Solo una volta sono riuscito a incontrare quella ragazza
da sola, senza accompagnatrice, che era quasi scesa la sera, o forse era ancora
più tardi della sera, ma questo non me lo ricordo. Mi trovavo in un luogo
isolato e con poca luce, non molto lontano dal suo portone bluastro, ormai
sapevo bene dove abitava la ragazza, che doveva essere più grande di me. Non
capiva molto bene quello che le dicevo, perché le parlavo sempre a denti
stretti e nelle ombre e le ripetevo cose confuse, a volte anche un po' comiche
e senza senso, ma solo per intrattenerla e trovare il momento giusto per
sorprenderla e inventarmi qualcosa, qualcosa di nuovo e di emozionante, ma da
persona grande, semmai un complimento o una frase simpatica e non
troppo sconcia, che la facesse ridere, o anche soltanto sorridere e prendere
fiducia, mentre gli altri intanto mi guardavano, ché si erano nascosti
nell'attesa di quello di cui sarei stato capace e che nemmeno io conoscevo e
immaginavo di poter fare. Fino all’ultimo non ero in grado di conoscermi, per
sapere chi fossi in quel momento, davanti a lei e anche davanti a loro, che mi
erano alle spalle, ma che lei, la ragazza, non avrebbe potuto vedere, così come
non poteva vedere me. Mi sentivo una persona sconosciuta, così come doveva
avvertirmi lei, nel buio. A un certo punto le alzai tutta la gonna e le sputai
addosso e sulle cosce, non so nemmeno perché lo feci, e quando lei si girò di
spalle per scappare io le corsi dietro. Si mise a strillare e diventò sempre
più impaurita dentro gli strilli e anche nei capelli lunghi che le scendevano tutti
sul viso, come un velo e sotto i miei sputi che la inseguivano come lucciole.
Io mi accanivo e non la lasciavo più andare. Gridava ancora, sempre più forte e
io ridevo e non riuscivo più a fermarmi, non sapevo più come funzionavo e dove
mi spegnevo, mi sentivo un altro e anche lei sembrava un’altra da quella che
ricordavo. Poi l’ho afferrata e le ho detto di calmarsi, che non le avrei fatto
niente, davvero, le feci, fai la brava, proprio così. Lei allora si è staccata
e ha ripreso a correre e poi a sbandare e a cadere, proprio come una persona
che non vede, ma in fondo anche io, in quel momento, non vedevo. Non vedevo più
niente, ma in compenso sentivo tutto il fuoco azzurro del mondo, che mi
bruciava dentro. Io ero lì vicino quando lei è caduta. Aveva gli occhi chiusi,
si era fatta male a un braccio e non riusciva più a muoversi per il dolore,
immagino che quel braccio si fosse rotto. Il braccio rotto era sporco di terra
e di sangue, e a me sembrava solo sporco di gelato, è per questo che non le ho
chiesto più scusa”.
“Poi?”.
“Era solo un po'
cieca, o quasi, pensai, quando la vidi a terra. L'accompagnatrice l'aveva
lasciata prima perché ormai...”.
“Come è possibile
tutto questo, Sauk? Ti fermi un momento? Guardami, per favore”.
“Senza una
ragione, Saumek. Mi dispiace un sacco. Non me lo spiego, adesso basta, per
favore, non respiro...”, stringendo forte gli occhi, Sauk.
“E tutti gli altri
che erano con te?”.
“Sono rimasti a
guardare, non hanno fatto molto. Erano spaventati a morte ma erano lì solo per
vedere dove sarei mai arrivato da solo, senza la loro paura. Loro non
immaginavano che io trovassi il coraggio, ma forse alcuni di loro lo avrebbero
desiderato quel coraggio, ancora di più di quella ragazza, ma questo non lo
ammetteranno mai. Anche a loro quella ragazza piaceva un sacco, anche se non li
vedeva”.
“Senza una
ragione, quindi?”.
“Non lo so più,
forse, è possibile che sia solo così... Non me lo spiego, nemmeno ora, mi
dispiace tantissimo, Saumek”.
Il vecchio Saumek
non gli disse e non gli chiese altro. Si alzò e si spostò con fatica nella sua
stanza da gioco, trascinandosi dietro tutto il presagio e l'impero del suo
rabbuio. Sprofondò sulla poltrona, accanto alla finestra, con gli occhi vitrei
di un convalescente. Allungò una mano verso la sua scacchiera. La dispose sulle
ginocchia e poi la aprì. Al suo interno era riposto un pugnale affilato, dove
si stagliava la luce appena più debole del giorno. Lo guardò con attenzione;
poi chiuse gli occhi.
Sauk sparecchiava
intontito la tavola e fischiettava un motivetto leggero. L'ape dalla finestra
ronzava forte, ormai perfettamente asciutta e in gran forma, dopo il suo breve
viaggio nell'abisso solitario di Saumek. Sauk si avvicinò al vetro ancora
tiepido, la cinse in un bicchiere sporco e la richiuse lesto, con il palmo
sinistro. La lasciò dibattersi per qualche secondo, poi la uccise.
Proprio in
quell'istante Saumek riapriva gli occhi. La scacchiera ritornò vuota del suo
pugnale affilato, nella luce già greve dei campi.
Da quel dodicesimo
giorno Saumek e suo nipote Sauk non furono mai più ritrovati.
Cronaca del dodicesimo è un racconto di Luigi Salerno
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