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SALVATORE ESPOSITO
BLACKOUT
Il temporale aveva
imperversato per tutta la notte, con lampi e tuoni, pioggia e grandine. Le
temperature erano calate di colpo. Tutto lasciava intuire che l’inverno fosse
ormai arrivato. Finalmente (si fa per dire) la stagione meno desiderata avrebbe
preso il sopravvento dopo un’estate torrida e un autunno caldo, che - a memoria
d’uomo - non si erano mai visti prima, a questa latitudine.
Due giorni fa ero
stato al mare, non per combattere l’afa, ma per fare il gradasso sui social e
far morire d’invidia i miei amici che abitano a nord del Garigliano, costretti
già a imbacuccarsi per non morire di freddo. Alla faccia dell’unità d’Italia.
C’è poco da fare, morfologicamente il Bel Paese non sarà mai una nazione.
Nell’epoca della comunicazione in tempo reale, come si fa a unire sotto
un’unica bandiera un popolo che vive nella stessa giornata grandi differenze
climatiche da una zona all’altra?
Nelle ultime
dodici ore le cattive condizioni meteo avevano però messo tutti d’accordo lungo
lo Stivale. La protezione civile aveva lanciando l’allarme nubifragi un po’
dappertutto, come se qualcuno avesse deciso di non scontentare nessuno. Secondo
l’adagio: guaio comune mezzo gaudio.
Molte scuole erano
rimaste chiuse in via precauzionale, stessa sorte invece non era toccata agli
altri uffici pubblici, regolarmente aperti.
La mattinata
livida aveva accentuato in me la voglia di tepore e reso più difficile il
risveglio non solo muscolare, infondendo in tutto il mio corpo un torpore che
difficilmente sarei riuscito a scrollarmi di dosso. Da buon meteoropatico, il
cielo plumbeo aveva inciso negativamente sul mio umore.
“Ecco - pensavo
tra me e me - ci vorranno almeno sei mesi prima di riuscire solo a pensare di
uscire senza l’ombrello”.
Appena fuori dalla
metro, si aprì innanzi a me uno scenario semi apocalittico: le strade si erano
trasformate in alvei di torrenti, i giardini erano diventati acquitrinosi come
paludi. Si camminava a stento spalando con i piedi la melma fuoriuscita dai
tombini, mischiata a terreno e detriti trasportati da chissà dove. Ovunque
regnava un olezzo maleodorante.
Per giunta, in
tutta la zona c’era stato il blackout dell’energia elettrica a causa di un
fulmine che aveva colpito una cabina.
Questo voleva dire
niente computer, niente connessione a Internet, niente posta, niente stampe e
fotocopie e soprattutto niente luce. Solo allora presi coscienza di quanto il
mio lavoro fosse dipendente dall’elettricità.
“Beata modernità”
– pensai.
Proprio mentre
discettavo di queste cose entrai nel grattacielo, anonimo e privo di
personalità, dov’era allocato il mio ufficio, al diciottesimo piano.
Con gli ascensori
fermi, era impossibile pensare di usare le scale rischiando l’infarto.
Raggiunsi quindi
la grande hall che si trova al pian terreno, illuminata dalla luce naturale,
facendo attenzione a non inciampare. Lì c’erano anche i miei colleghi del
settore contenzioso, apparentemente infastiditi da questo impedimento
imprevisto che avrebbe ritardato la ripresa del lavoro, traditi però da una
strana espressione da collegiali, che mostrava chiaramente la malcelata
speranza di poter andare via prima del tempo. Una sorta di filone collettivo a
costo zero. Bigiare alla nostra età equivaleva a risvegliare il senso sopito di
una ribellione dal sapore antico, quasi dimenticato, che parlava all’anima,
raccontando di una stagione bella e spensierata che si chiama giovinezza.
Il ritrovato clima
goliardico aveva favorito il diffondersi di una proposta dal chiaro intento
edonistico: una bella gita in montagna, con relativo pranzo luculliano a base
di carne, da consumare presso il solito ristorantino dove si mangia bene e si
paga poco, che poi non è mai così, ma poco importa. Un ritorno al passato da
concludere rigorosamente entro l’orario canonico di fine lavoro, per non
stravolgere la routine familiare.
Si ragionava così,
a briglia sciolte, dimenticando doveri e responsabilità, mentre audaci occhiate
sollevavano il velo del pudore lasciando intravedere in lontananza la
trasgressione, inconsapevolmente libera dalle catene delle convenzioni sociali
e culturali, fuoriuscita dai desideri incompiuti, inespressi, lasciati a metà,
alla base di ogni relazione scellerata.
Purtroppo, ci
rendemmo ben presto conto che invece di poter fuggire via, avremmo dovuto
trovare solo un modo per far trascorrere qualche ora in attesa che la squadra
di tecnici riparasse il guasto alla meno peggio.
Fu allora che
decidemmo di prendere possesso del salottino, per stare più comodi, con una
sortita fulminea che spiazzò i colleghi degli altri uffici, ancora imbambolati
sul da farsi. L’ideale sarebbe stato poter sorseggiare una buona tazza di
caffè, magari con una sfogliatella calda calda, ma anche il bar all’angolo era
vittima del blackout.
Seduti comodi,
restammo per un po’ a ridere e scherzare, ricordando i tic, le manie, i difetti
di colleghi in pensione ed ex capi particolarmente invisi.
A tutti sembrò
davvero molto strano dover fare i conti con il tempo trascorso e prendere coscienza
di quante cose fossero cambiate in così poco tempo e della facilità con la
quale le avevamo vissute e poi dimenticate. Anche il nostro lavoro era mutato
radicalmente, l’informatizzazione aveva cambiato i ritmi e le abitudini e ci
aveva isolati, ognuno davanti al proprio monitor, riducendo all’osso le
occasioni per poterci confrontare vis-à-vis, tanto bastava solo un click
per instaurare una comunicazione virtuale, non verbale.
Poi venne il
momento del silenzio, dell’imbarazzo di non sapere cos’altro dire. Anche
ispezionare il cellulare passivamente ci aveva stufati. Fu allora che iniziammo
a guardarci realmente in faccia a notare tratti mai focalizzati, come se ci
fossimo visti per la prima volta.
E per la prima
volta eravamo insieme, l’uno di fronte all’altro, senza dover lanciare lo
sguardo furtivo al di là di un vetro o di una scrivania.
Questo nostro
scoprirci casualmente vicini trasmise il senso di una familiarità inattesa,
nascosta, latente, scoperta, che ci fece sentire più uniti.
Questo sentimento
fu rafforzato dalla mia spontanea osservazione di quante ore trascorrevamo
quotidianamente insieme, immersi ognuno nel proprio lavoro, ma in ogni caso più
di quante ne riuscivamo a vivere con le rispettive mogli, mariti e figli. Fu
una scoperta che sorprese anche me.
Eppure, tra noi
era mancata finora una cosa importante: l’intimità, quell’esperienza che aiuta
a unire le persone creando un rapporto di complicità. Ma che può anche
scatenare sentimenti incontrollabili come la gelosia, difficile da gestire in
un ambiente lavorativo.
In questo clima
confidenziale, dove le barriere erette a difesa della propria riservatezza
sembravano essere state abbattute, complice anche lo stare seduti l’uno accanto
all’altro, a formare un cerchio, iniziammo spontaneamente a raccontare di noi.
Fu una gara a cui
partecipammo tutti senza distinzione. Come un gioco.
In principio con
piccole rivelazioni a volte banali. Poi, tra il serio e il faceto, arrivarono
le prime dichiarazioni d’amore o di attrazione, che di solito sono quelle non
corrisposte, per questo vengono sbandierate.
Invece, le
passioni proibite, quelle vere, quelle realmente vissute, sono consumate nel
silenzio, nascoste dal caos della folla, alimentate da fugaci momenti
estemporanei di intimità, inseguiti, inventati, ricercati, voluti.
All’inizio ci si
contenta di poco, anche del semplice brivido di poter essere scoperti dagli
altri. Poi arriva un momento in cui le briciole o i pranzi frugali non bastano
più, si vuole che la storia clandestina diventi una favola, a volte noir,
insomma che emerga, costi quel che costi, dalla clandestinità.
Arrivò così il
momento pruriginoso delle confessioni.
Sabrina, che fino
ad allora era stata un po’ in disparte, stranamente taciturna, si era seduta in
fondo, fuori dal cerchio magico delle rivelazioni.
Aveva lamentato
subito un forte mal di testa per cui nessuno aveva notato la stranezza del suo
comportamento.
Non si era tolta
nemmeno il cappotto e teneva il bavero alzato avendo cura di tenerlo ben dritto
a copertura del viso.
“Devo dirvi una
cosa per me dolorosa. Non è facile. Qualcuno stamane mi ha chiesto perché sono
così silenziosa. Avete forse pensato che abbia il mio solito mal di testa.
Purtroppo, no. Non questa volta. Scusatemi se balbetto ma sono devastata” -
fece una pausa che aumentò il pathos, asciugandosi le lacrime.
“Mio marito mi ha
picchiata” - disse con voce bassa ma decisa.
Ci voltammo
istintivamente tutti verso di lei, con lo sguardo interrogativo, non per capire
ma per avere conferma di ciò che avevamo già compreso.
Lei abbassò il
colletto del soprabito e mostrò un’ecchimosi sul volto, nascosta a malapena dal
fondotinta. Scoprì pure l’avambraccio destro dove i lividi erano più evidenti.
Raccontò per filo
e per segno l’aggressione vissuta. Le grida, il sangue, l’orrore. Non era la
prima volta che subiva violenza, ma questa volta era stata terribile.
Aveva avuto
finanche paura di morire quando il padre dei suoi figli le aveva stretto le
mani al collo fino a non farla respirare più.
La faccia crudele,
cattiva, color paonazzo. Gli schizzi di saliva sputacchiati mentre la
insultava, riempiendola di epiteti e vomitandole addosso tutta la sua rabbia.
Gli occhi da
pazzo, vuoti, fissi su di lei, e lui che stava in piedi sopra il suo corpo
inerme.
Un corpo bello,
perfetto, sinuoso, per nulla imbruttito dalle gravidanze, né intaccato dalla
cellulite o da qualsiasi altra imperfezione.
Il seno generoso
le conferiva una spiccata femminilità e il sedere perfetto, alto e sodo,
rendeva quella figura di donna piacevole allo sguardo, come accade quando si
osserva un’opera d’arte.
Rispetto agli
altri, io ero stato più fortunato, perché avevo potuto gioire e godere di tanta
bellezza, respirare il suo odore inebriante, accarezzare e baciare la pelle
liscia e vellutata. Quanta rabbia mi dava vederla deturpata da mani sacrileghe
che non avrebbero dovuto avere mai alcun diritto su di lei, nemmeno di poterla
sfiorare.
Montava in me una
voglia inusitata di vendetta e di violenza, come se fosse stato un mio diritto
naturale proteggerla.
Quando conobbi
Sabrina aveva ventotto anni: era un fiore. Aveva avuto da pochi mesi il secondo
figlio e sembrava una mamma bambina. Evidentemente il rinnovamento cellulare
dovuto alle gravidanze le aveva fatto benissimo, accentuando la tenerezza dei
tratti del viso già di per sé delicati e gentili.
Ci mise un po’ a
notarmi, io invece mi accorsi subito di lei, benché non passasse inosservata.
L’occasione
galeotta fu un corso di formazione che l’Ente aveva organizzato a Roma della
durata di cinque giorni e quattro notti. Furono le ultime due notti ad essere
le più significative.
Vivemmo
un’intimità allora fuori dal comune, almeno per me. Non mi riferisco solo
all’esperienza d’amore di due corpi nudi che decidono di condividere lo stesso
talamo, ma a qualcosa di diverso e secondo me più coinvolgente.
Eravamo per
necessità dei clandestini, essendo entrambi impegnati in rapporti stanchi e
logori con altri partner.
In verità, io ero
già separato dalla mia compagna da oltre due mesi, ma non le dissi nulla per
mantenere la nostra situazione su di un piano di apparente parità.
Di giorno erano i
nostri sguardi a parlare, la notte invece davamo voce ai nostri corpi rimasti
forzatamente silenti e non ci pareva vero poterci baciare dopo esserci a lungo
desiderati.
Credo di non aver
mai avuto una storia tanto appagante come quella che durò tra spizzichi e
bocconi poco più di un anno.
La paura di essere
scoperti o meglio la consapevolezza di non saper andare oltre, di non poter
chiedere di più, perché lei non se la sentiva di porre fine al suo matrimonio
infelice, ci fece propendere per un gesto clamoroso e doloroso: mettere fine
alla nostra passione.
C’era del bene tra
noi, ne sono certo. Ma anche il bene quando è rubato, è ottenuto in modo
fraudolento, non produce a pieno i suoi effetti taumaturgici.
Allora non notai
la violenza che quell’essere così fragile e delicato, dalla fisicità audace e
procace, subiva a causa di quell’orco insulso e inadatto al ruolo di marito per
qualsiasi donna avesse avuto la sventura di finirgli accanto, figuriamoci per
una fanciulla così leggiadra e graziosa.
O forse non volli
o non seppi notare ciò che lei riusciva a nascondere con scuse ben raccontate,
celate da giustificazioni sempre calzanti.
Non poteva invece
coprire la violenza morale che subiva, le mortificazioni continue che era
costretta ad assorbire e che sfogava nel nostro rapporto, che viveva in parte
come vendetta e in parte come mezzo di riscatto.
Dopo ogni incontro
con me ne usciva fortificata, pronta ad affrontare la sua realtà matrimoniale
ostile e ferica con rinnovata lena.
A quel tempo
attribuii questa capacità di trasformazione alla mia ars amatoria, di cui non
ne conoscevo l’esistenza, fino ad allora.
Ero talmente
immerso in questi pensieri lontani che notai con un attimo di ritardo il suo
pianto a dirotto.
Più rapido degli
altri fu Luca che la strinse forte a sé in segno di protezione. Quel gesto
sospetto divenne chiaro quando lei rispose con un abbraccio altrettanto
vigoroso. Apparve subito chiaro a tutti che quella reazione non fosse stata per
niente casuale e che quei due corpi fossero avvezzi a tenerezze ben più audaci.
Fu allora che mi
scoprii geloso e non so perché un po’ anche tradito. Ma la sorpresa fu tanta
che rimasi impietrito a subire quella scena.
Il chiacchiericcio
che ne seguì mi fece prendere coscienza che l’unico ad essere all’oscuro della
nuova storia extraconiugale vissuta da Sabrina dopo di me ero solo io. Per
fortuna, il mio malcelato imbarazzo durò poco, anche perché ritornò subito dopo
la luce e tutti andammo al nostro lavoro usato.
La verità mi aveva
abbagliato prima ancora che la corrente elettrica tornasse ad illuminare. Ero
uscito dall’ombra delle mie sicurezze e mi ero scoperto nudo. Geloso di una
donna con cui credevo di aver avuto solo una storia di sesso, con cui pensavo
non avere alcun legame sentimentale.
Eravamo stati i
classici amanti o, come si dice adesso, amici di letto, in inglese li chiamano:
friends with benefits. In fondo, ci facevamo compagnia, riempiendo
vicendevolmente le falle, i vuoti, di una esistenza grama, lontani anni luce
dal benché minimo barlume di felicità. I nostri incontri erano emozioni, non
gioie. Brividi caldi rubati ad una morale borghese e bigotta, al conformismo di
facciata, che hanno finito per soffocarci, impedendoci di vivere la nostra
storia allo scoperto e di tramutarla in amore vero.
La clandestinità,
che pure aveva consentito di conoscerci, di capire quanto fossimo attratti
l’uno dell’altra, ad un certo punto, era diventata il nostro limite.
Ricordo che stavo
bene solo quando potevo godere fino in fondo dei nostri momenti rubati, ma
anche la rabbia che provavo le volte in cui, all’ultimo momento, non le
riusciva di raggiungermi, e la intensità della passione, che esplodeva, la
volta successiva, quasi come se avessimo voluto recuperare l’occasione perduta.
Lei lo capiva, ne
sono certo, ma non mi diceva niente. Rientrava nei nostri silenzi, quelli in
cui trovavano spazio le nostre verità inconfessabili, quelle che non ci
dicevamo.
Per tutto il resto
della giornata non smisi di pensare a lei, a noi. Il suo pensiero divenne
immanente a tal punto da riuscire a riprovare le medesime sensazioni di quando
eravamo insieme. Come se non ci fossimo mai separati.
La percezione di
noi tornò improvvisamente ad appartenermi. Di nuovo. Come una volta. Come se
non ci fosse mai stato quel vuoto, che aveva scavato un solco profondo come una
voragine. Ad un tratto il baratro che esisteva tra noi era stato colmato.
Fu come ritrovarmi
in un sogno ad occhi aperti, in un déjà vu prolungato all’infinito. Riuscii a
sentire di nuovo finanche l’odore di lei, che respiravo quando l’avevo accanto,
e che effondeva dalla traspirazione del suo corpo.
Scoprii che anche
il sapore dei suoi baci era rimasto imprigionato, da qualche parte, nella mia
memoria ed ora era saltato fuori all’improvviso, per caso, liberato da cassetto
dei ricordi.
In quello stato
d’animo, la fine della giornata lavorativa fu per me una liberazione. Chiusi il
computer e me ne andai a passo svelto verso casa.
Presi al volo
l’ascensore che si fermò due piani più giù. Le porte si aprirono e Sabrina
entrò e scelse di stare in un angolo. Casualmente capitò vicino a me.
I miei occhiali si
appannarono a causa dell’umidità, aumentando il mio imbarazzo.
La salutai, lei mi
rispose con un cenno. Mi avvicinai al suo orecchio bisbigliandole qualcosa di
insignificante. Fu solo una scusa per odorarla, sniffare un po’ di lei e
verificare se veramente quella donna fosse la mia Sabrina.
Aveva un altro
odore, che non conoscevo. Ne fui sorpreso, quasi turbato da quella scoperta. Fu
allora che capii di averla persa per sempre. Non era più mia, non mi
apparteneva più.
Ma la cosa più
strana fu che da allora, a causa di quel miscuglio di effluvi, non riuscii più
a ritrovare in me il profumo di lei, di quando eravamo insieme.
Per quanto mi
sforzassi a cercarlo, risultò tutto inutile. Le nostre strade si allontanavano
sempre di più.
La nostra storia
era evaporata, sublimandosi in un ricordo e portando con sé anche i nostri
odori.
Balckout è un racconto di Salvatore Esposito
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