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FRANCO LO PRESTI
L’EREDITÀ DELL’AMMIRAGLIO NELSON
Le salite erano ripide, le
curve a tratti strette e pericolose. Occorreva, perciò, prestare molta
attenzione anche se il traffico non era eccessivamente intenso.
Mi trovavo alla guida di una
Opel Meriva con accanto Melo, mio fratello, mentre le nostre mogli
chiacchieravano, sedute sul sedile posteriore.
Ci recavamo a Bronte, grosso
centro montano sulle pendici occidentali dell’Etna, per visitare il Castello
dei Nelson, sito nelle immediate vicinanze.
La cittadina è nota alla
maggioranza delle persone per i famosi “fatti di Bronte” del 1860, all’epoca,
cioè, della “Spedizione dei Mille” di garibaldina memoria.
In quell’anno, i brontesi
avevano rivolto la loro rabbia contro i feudatari della zona, ma Nino Bixio,
luogotenente di Garibaldi, giunto a Bronte il 6 agosto, soffocò nel sangue la
ribellione, condannando alla fucilazione cinque persone, ritenute colpevoli di
sanguinosi avvenimenti su cui il giudizio degli storici è ancora controverso.
Mio fratello ed io, però, non
c’eravamo a quell’epoca.
A noi, perciò, Bronte
richiamava alla memoria altri fatti: quelli della nostra infanzia, un tantino
più recenti.
Arrivati su un altipiano, un
lungo rettilineo attenuò la tensione della guida.
«Cosa ti ricorda Bronte?»
chiesi a quel punto a Melo.
«So a cosa ti riferisci!» mi
rispose, sorridendo «Alle ciaramelle e… agli zampognari, nel periodo natalizio.
Sì, è vero, gli zampognari venivano proprio da questi monti.»
Ci soffermammo a ricordare
insieme, con una certa nostalgia, il comune passato, mentre la Meriva si
arrampicava agilmente sulla montagna, in mezzo alle fitte e caratteristiche
coltivazioni di pistacchi, le cui verdi chiome contrastavano con il giallo
dell’erba spontanea, ormai secca, che moriva ai margini della strada.
I pistacchi di Bronte sono più
piccoli ma più verdi di altre qualità le quali presentano una coloritura
giallastra e che vengono prodotte altrove.
“L’oro verde di Bronte”, così
com’è denominato il pistacchio, costituisce per il paese una fondamentale
risorsa economica…
Intanto, mentre parlavamo, il
tempo trascorreva e con la macchina arrivammo in vista della rinomata cittadina
di montagna.
L’attraversammo tutta e,
secondo le indicazioni turistiche in nostro possesso, il “Castello dei Nelson”,
avrebbe dovuto trovarsi a circa due chilometri dal centro, in una frazione
chiamata Maniace, comune del Parco dei Nebrodi.
Si era fatto tardi e a
quell’ora il Castello era senz’altro chiuso; avremmo dovuto perciò aspettare
l’apertura pomeridiana.
In previsione di ciò, avevamo
portato da casa qualcosa da mangiare. Così ci sistemammo in mezzo agli alti e
secolari alberi d’olive.
Ma, mentre mangiavamo, il
tempo, bello per tutta la mattinata, si guastò improvvisamente, grosse nuvole
nere coprirono il cielo, annunciando un violento temporale, cosa che suscitò in
noi un po’ di preoccupazione.
Io che avevo la responsabilità
della guida, invitai tutti a rimontare in macchina e ci avviammo lungo un
percorso tracciato tra gli alberi.
Poco dopo, ci trovammo su
un’ampia radura.
Mio fratello scese dall’auto
per cercare qualcuno che ci indicasse la strada per il Castello in modo da
aspettare sul posto l’apertura del museo.
Non c’era anima viva, ma in
mezzo agli alberi, in quel punto abbastanza bassi, si poteva scorgere qualche
casetta.
Mio fratello risalì in
macchina e me la indicò. Stavo studiando la strada da intraprendere, quando si
materializzò un uomo che ci fece segnale di seguirlo.
Era a piedi, ma camminava
speditamente; noi lo seguimmo in macchina lentamente.
Fatti una cinquantina di metri
nel viottolo in mezzo agli alberi, arrivammo davanti ad una casupola e l’uomo
ci fece cenno di entrare.
Accettammo volentieri anche
perché, all’improvviso, era scoppiato quel temporale che avevamo temuto,
accompagnato da un lampo accecante.
L’uomo indossava uno strano
vestito di una foggia alquanto fuori moda. Sulle spalle aveva un cappotto
militare per ripararsi, alla meglio, diceva lui, dalle piogge improvvise ed
aveva l’occhio destro bendato, al suo dire, per una recente operazione di
cataratta.
Ci disse che quei fenomeni
meteorologici erano frequenti da quelle parti, ma di breve durata. Infatti,
entrati nella casetta, il temporale cessò quasi subito.
L’uomo ci offrì da bere e
volle narrarci la storia del posto in attesa che arrivasse l’ora dell’apertura.
Le donne però non erano
tranquille e me lo fecero capire.
«Ho paura di quell’uomo.»
affermò sottovoce mia moglie.
«Perché?» risposi io
sommessamente «Sembra tanto gentile!»
Sembrava che l’uomo avesse
capito il disagio delle donne, tanto che disse:
«Se volete aspettare
l’apertura vicino al Castello, percorrete tutto il viale alberato, attraversate
l’ampio parco e vi troverete davanti ad un grande edifico: quello è il Castello.
Si tratta di una struttura che
in età medioevale formava distintamente le due abbazie confinanti di “Santa
Maria di Maniace” e di “San Filippo di Fragalà”.»
Non rinunciò a completare le
sue informazioni e aggiunse, mostrando un notevole interesse:
«Queste due abbazie, con i
territori loro appartenenti, furono donati nel 1700 dal Re dell’isola,
Ferdinando di Borbone all’ammiraglio inglese Orazio Nelson per i favori che
quest’ultimo gli aveva reso, ponendo fine alla rivolta napoletana del 1799 e
facendo impiccare l’ammiraglio Francesco Caracciolo.»
Le donne manifestavano una
certa impazienza, volevano andar via e me lo fecero capire a gesti cercando di
non farlo notare all’uomo.
Compresi il loro desiderio e
dissi:
«Grazie per le preziose
informazioni. Noi andiamo!»
E ci avviammo.
«Se ho tempo, vi raggiungerò
al Castello!» precisò lui, accompagnandoci gentilmente alla porta.
Risalimmo in macchina, mentre
l’uomo rimase nella casetta.
Percorremmo la strada che lui
ci aveva indicato e ci trovammo davanti ad un grande edificio incastonato in un
bellissimo parco. Lo stabile, però, non presentava i caratteristici torrioni
che tutti i castelli esibiscono.
Per tale motivo, mi sembrava
che il termine “Castello” non fosse appropriato.
Fummo attratti dal magnifico
parco e ci soffermammo a guardarlo incuriositi ed ammirati.
Intanto era giunta l’ora di
apertura e ci avviammo verso l’ingresso dove, sistemati sopra un tavolino,
trovammo delle locandine con la storia del luogo.
Vi era riportato quanto ci
aveva detto l’uomo ed inoltre apprendemmo che il Castello rimase proprietà dei
Nelson fino al 1981, allorquando fu acquistato dal Comune di Bronte, passando
attraverso ben sette proprietari della famiglia stessa, di cui l’ultimo si
chiamava: Alexander Nelson-Hood.
Mentre eravamo intenti a
leggere e commentare il dépliant, il cielo divenne nuovamente scuro. Scoppiò un
altro temporale accompagnato da un lampo accecante.
Mia cognata disse ironicamente:
«Volete vedere che fra poco
arriverà il nostro uomo. A me sembra l’uomo della pioggia!»
L’uomo con la benda, infatti,
arrivò correndo per mettersi al riparo dall’acquazzone.
Acquistammo il biglietto per
l’ingresso ed entrammo tutti dentro il museo senza, per fortuna, che ci fossimo
bagnati.
Entrammo in un lungo
corridoio; l’uomo riprese a farci da cicerone e ci indicò la porta che
conduceva ai sontuosi appartamenti ducali, precisando che erano arredati
secondo i gusti del tempo ed ancora ornati delle suppellettili originarie.
Entrando poi in una delle
camere, ci mostrò arredi e mobili di grande pregio, nonché vasi ed orologi
dell’’ottocento.
Tutto era interessante, tanto
che le donne, appassionate di mobili d’epoca, ammirarono con entusiasmo,
dimostrando di apprezzare le spiegazioni del nostro accompagnatore senza,
stavolta, dare segni di insofferenza.
Entrammo in una sala in cui
erano presenti cimeli di vario genere: quadri, stampe e dipinti vari che la
nostra guida improvvisata ci spiegò con dovizia di particolari.
Sotto ogni dipinto, una
targhetta illustrava brevemente l’opera.
Il nostro cicerone ci fece
notare che tutta la stanza ricordava, in vari modi, la vita e le vittorie di
Nelson.
Arrivati al centro della sala,
un quadro attirò la nostra attenzione per la sua peculiarità: era l’immagine di una
persona priva dell’occhio destro e di un braccio.
La targhetta posta sotto
riportava scritto con caratteri cubitali:
AMMIRAGLIO
HORATIO NELSON
E spiegava che l’ammiraglio
aveva perso l’occhio e il braccio durante i suoi numerosi combattimenti.
«Questo quadro rappresenta
l’uomo della pioggia!» osservò mia moglie.
«È vero!» aggiunse mia
cognata. E tutti ci rendemmo conto che l’osservazione era giusta.
Ci voltammo perciò indietro
cercando il nostro accompagnatore per avere da lui maggiori spiegazioni: era
scomparso! … Svanito nel nulla!
E nello stesso istante, la
sala piombò nel buio; in fondo ad essa potemmo vedere una figura fosforescente
che l’attraversava tutta, mentre un venticello leggero sollevava le tende degli
infissi.
«Sarà una finestra tenuta
socchiusa per arieggiare la stanza.» osservò mio fratello per minimizzare,
visto che le donne sembravano turbate.
In quel momento arrivò
defilato il custode.
«Chiedo scusa, di là è mancata
la luce e mi è venuto il dubbio che fosse mancata anche qua. Mi accorgo adesso
che avevo ragione. Strano. Non era mai successo. Provvedo subito!»
Uscì un attimo e ritornò
subito quando l’illuminazione era ormai ritornata, dicendo: «Stranamente era
saltato l’interruttore generale.»
Poi aggiunse:
«Vi ricordo che con lo stesso
biglietto che avete acquistato, potrete visitare il cimitero inglese a qualche
centinaio di metri dal Castello. Grazie signori! Buona prosecuzione.»
Proseguimmo un po’ perplessi
il nostro percorso e tutto risultò veramente interessante.
Completammo sommariamente la
visita della sala, perché le donne volevano uscire dal museo, ad ogni costo,
Tornati all’aperto, ci
sentimmo rinfrancati ed effettivamente, anch’io non avvertivo più il senso di
oppressione che cominciavo a percepire quando ero all’interno.
«Ritorniamo di corsa a casa!»
interferì mia cognata «Ho paura a restare qua.»
«Non essere la solita
esagerata. Mentre ci siamo, visitiamo il cimitero inglese. Sicuramente, non
ritorneremo più da queste parti.» precisò mio fratello.
A malincuore le donne
accettarono e ci dirigemmo a piedi verso il cimitero nelle vicinanze del quale,
senza volerlo fare apposta, avevamo parcheggiato la nostra macchina.
Era un piccolo cimitero posto
in un’area tranquilla.
Sopra l’arco d’ingresso era
sistemata una lapide che riportava la seguente frase:
“Nobisque
vobisque pax” (Pace a noi e a voi).
Noi ci soffermammo davanti
all’ingresso da cui si potevano vedere delle lapidi che non avevano certo
alcuna pretesa monumentale.
Le donne non vollero entrare anche
perché il cielo si era fatto nuovamente scuro, tanto che pensammo subito
all’arrivo dell’uomo che ormai eravamo convinti fosse il fantasma di Nelson.
Lui, in effetti, non arrivò,
ma tutti potemmo osservare una nuvola bianca che svolazzava tra le tombe,
percorrendo tutta l’area del cimitero, per poi svanire dietro ad una lapide. In
quel preciso momento il cielo ritornò sereno.
Questo fenomeno ci confermò
nella nostra convinzione.
Alcuni visitatori uscirono dal
cimitero e, osservando che stavamo per andare via, dissero:
«Peccato che non siete
entrati. Dentro si respira un’aria di pace e di serenità.
Vi sono le tombe di otto eredi
di Nelson e quella del poeta scozzese William Sharp.»
«Non avete visto la nuvola
bianca che aleggiava sopra le tombe?» chiesi, dissimulando un certo imbarazzo.
«Non abbiamo visto niente.»
Risposero.
«Pensavamo che dovesse piovere
da un momento all’altro.» aggiunsi come giustificazione.
Poi raggiungemmo la nostra
auto per intraprendere la via del ritorno verso casa ed io mi accorsi che le
donne erano ancora turbate per gli avvenimenti del giorno.
Allora pensai di
sdrammatizzare asserendo, tra il serio ed il faceto:
«Probabilmente il fantasma di
Nelson, con tutti questi fenomeni, ci ha voluto onorare della sua presenza.»
Pensavo, in tal modo, di
completare la nostra gita con una bella risata.
Mia moglie, invece, volle
concludere in maniera diversa, affermando:
«Sarà come dici tu, ma
personalmente avrei fatto volentieri a meno di tanto onore. Infatti, non
ritornerò più qui, neanche sotto tortura.»
L'eredità dell'ammiraglio Nelson
è un racconto di Franco Lo Presti
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