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MARCO RICCOMINI
Mi affaccio alla
finestra, sono quasi le otto. È l'alba di un nuovo mattino e il sole di luglio
annuncia una giornata torrida e accecante. Fuori non c'è nessuno, non una
macchina, una bicicletta o un cane che pigramente attraversi la strada. I galli
non cantano, gli insetti non ronzano, il barbagianni tace e non tira un alito
di vento. Osservo in cielo per incrociare con lo sguardo un aereo in volo o un
uccello solitario: niente. Il preludio di una giornata calda e silenziosa. Una
giornata come un'altra.
Vado in bagno per
sciacquarmi gli occhi impastati della notte ma il rubinetto è secco. Forse un
guasto, penso fra me e me, o forse non ho pagato la bolletta. Strano. Mia
moglie Vanda è fuori per lavoro e sarebbe tornata solo stasera. Chiamo il gatto
Noche, non lo sento miagolare e mi aspetto che appaia da un momento all'altro
dato che ha passato fuori tutta la nottata. Esco dal retro della casa per dare
la pappa al cane Tanakka ma non c'è più, sparito. Forse è riuscito a liberarsi
ed è scappato fra i campi: del resto era già successo altre volte. Lo chiamo a
gran voce ma non torna.
Non c'è proprio
nessuno qui intorno, e che silenzio! .... Un silenzio inquietante che mi mette
un po' di apprensione, anzi un po' di paura. Torno in casa per telefonare a
Vanda, agguanto il cellulare e faccio il numero ma non dà nessun segnale, né di
libero né di occupato: solo un lungo sibilo fastidioso. Prendo allora la
cornetta del telefono fisso ma l'apparecchio è muto, non dà segni di
vita.
Provo
istintivamente ad accendere la televisione ma non funziona. Controllo il
pannello elettrico, tutti i tasti sono a posto ma manca la corrente in tutta la
casa. Una bolletta non pagata? Non credo proprio.
Vado in strada e
mi dirigo verso la chiesa e le altre case del paese per incontrare almeno
un'anima viva. Scruto nei cortili e alle finestre, cammino ancora verso il
circolo dove vicino c'è una stalla con due cavalli e un asino. Non ci sono.
Spariti anche loro. Allora busso freneticamente alle porte delle case ma
nessuno mi risponde, raggiungo l'abitazione di alcuni amici ma non li trovo e
allora corro verso la via principale dove ci sono i negozi ma tutto è chiuso.
Mi faccio coraggio e cerco di aprire la porta di una casa, è aperta ma dentro
non c'è vita. Ne apro un'altra e un'altra ancora e all'interno solo mobili,
tappeti e oggetti quotidiani in attesa di essere usati da qualcuno che però non
c'è. Anche qui non passano automobili. Deserto. Ma cosa è successo? Ma che
scherzo è mai questo?
Sono rimasto
solo?!? Tutto è fermo. Tutto è immobile e silenzioso. Rimango impietrito al
centro della strada e inizio a pensare di essere rimasto veramente solo,
l'unico essere vivente che si muove, e che persone e animali siano stati
inghiottiti dalla terra o presi prigionieri da un fantomatico mago grazie a un
potente sortilegio.
Basta! Ora basta!
Forse sto ancora dormendo e questo è un sogno, o un incubo. Eppure, mi pare di
essere sveglio e per accertarmene torno a casa di fretta e decido di fare un
tentativo estremo per rompere questo incantesimo: vado in cucina mi punto un
coltello sul braccio e cerco di premere fino a farmi uscire del sangue. Non ce
la faccio e allora mi rendo conto di essere cosciente e di guidare le mie
azioni in maniera autonoma e che tutto quello che sto vivendo è reale, terribilmente
vero. Almeno per me lo è. Sono solo, terribilmente e angosciosamente solo.
ALLA RICERCA DI
LEON
Mi vesto, prendo
l'auto e parto per un giro di ricognizione. Mi sembra di essere un soldato in
avanscoperta in cerca delle postazioni nemiche per riportare poi notizie utili
al plotone. Guido lentamente con la smania di veder apparire qualcuno. Carte
che svolazzano, persiane che sbattono e automobili ferme ai bordi e in mezzo
della via. Proseguo e sempre lo stesso spettacolo desolante e opprimente. Tutto
sembra una giostra grottesca costruita apposta per me. Non ho tempo per farmi
prendere dall'angoscia perché il mio obiettivo è quello di trovare qualcuno. Un
uomo, una donna, un bambino, un vecchio, un cane... insomma qualcuno. Mi fermo
in piazza, esco dall'auto e istintivamente caccio un urlo e chiamo:
«C'è qualcuno?
Uscite! C'è qualcuno?»
Niente, il vuoto
abissale. Non è possibile che in una notte l'umanità sia sparita come
inghiottita da un buco nero stellare che si è avvicinato al pianeta Terra,
lasciandomi come unico superstite di questa macabra e inverosimile razzia di
corpi. Mi sembra di essere il protagonista di un libro apocalittico che
racconta la sparizione della razza umana. Ma forse lo sono davvero. Ma no, è
tutto un'allucinazione. Un'allucinazione persistente, troppo persistente però.
Penso a mio figlio
Leon che vive con la madre a Montaione, distante una cinquantina di chilometri.
Cerco di convincermi che ciò che sto vivendo sia circoscritto solo qui, nelle
vicinanze dove abito, e che ciò che sta accadendo sia l'esperimento folle di
uno scienziato, in complicità con il governo, che ha voluto provare una
misteriosa quanto efficace arma in grado di far sparire le persone con un
crudele quanto efficace apparecchio a dissolvenza molecolare.
Parto alla volta
di Montaione con il proposito di non rassegnarmi. Attraverso borghi, campagne,
paesi ma tutto è uguale come i posti dai quali sono partito. Tutto è monotono
come un disco che si incanta, tutto è surreale, tutto è ... come se fosse
niente. Ma più rifletto e più mi convinco però che non sto vivendo in un mondo
di nulla, sto solo vagando in una realtà senza l'uomo e senza animali.
Raggiungo la campagna prima di Corazzano e vedo nei campi un timido svolazzare
di insetti. Sono insetti? Si, sono alcune farfalle che si muovono pigramente
sulle fioriture. Arresto l'auto e mi incammino in una stradina sterrata interna
che porta alle coltivazioni. Ci sono anche delle api e altri animaletti volanti
che non riconosco a colpo d'occhio. C'è vita! Intendendo per vita però quella
animale, quella che si muove.
Quindi sono
spariti solo gli uomini! Spesso in famiglia o con amici ribadivo la mia
opinione accalorata che anche senza l'uomo il pianeta sarebbe vissuto comunque,
anzi tutto sarebbe proceduto senza l'imbarazzo e l'ingombro di un essere fin
troppo avulso dalla vera natura. Che ci faccio allora io qui? Che cosa c'entro
con tutto ciò? Forse è questa la realtà e nulla più. Devo accettare la
situazione così come mi appare, così come la vedo, così come la vivo in questo
momento. Non c'è tempo per le riflessioni e le emozioni.
Leon. Devo
arrivare a casa di mio figlio. Riparto e velocemente arrivo a Montaione. Stessa
situazione anche se nel tragitto vedo due gatti, un cane, un cavallo e uno
stormo di uccelli usciti da un boschetto. Se io sono salvo da questa cattura
generale (se salvo si può dire) forse la mia famiglia è scampata dalla
sparizione dell'umanità e avrò il compito di ricostituire la comunità dei miei
simili. Arrivo sotto il portone di casa, suono il campanello e busso. Busso
forte, grido il nome della madre alla finestra che è socchiusa. Nessuna
risposta. La finestra per buona sorte non è alta, allora sposto la macchina
sotto l'apertura e mi arrampico issandomi fin dentro. Chiamo Leon ma non
risponde, allora vado in camera e lo vedo sdraiato sul letto. C'è! Con la paura
in cuore mi avvicino per accertarmi che sia vivo. Respira. È vivo! È vivo e sta
solo dormendo.... Forse.
SORPRESA E
DELUSIONE
Non voglio
svegliare mio figlio e allora aspetto che lo faccia spontaneamente, nell'attesa
mi godo tutta la felicità di averlo ritrovato in vita. Mentre curioso in giro
per la casa della mia ex compagna guardando le foto del bimbo, passano i
minuti, un'ora almeno se ne va e non mi decido a svegliarlo. Lo guardo
intensamente: non si muove, il suo respiro è regolare e non fa nessuna smorfia.
Sembra finto, una copia in plastica. Appare come un bambolotto di ciccia e ossa
ma con un meccanismo artificiale all'interno che gli permette di dormire
assolvendo solo alle funzioni biologiche di base. Sono sciocco a pensare così
ma per avere la certezza che sia realmente vivo lo devo destare da questo sonno
profondo. Comincio a sussurragli vicino all'orecchio e a scuoterlo prima
leggermente e poi con più vigore, ma il bimbo non si sveglia. Urlo il suo nome.
Non apre gli occhi neppure se lo rigiro o lo faccio rotolare sul letto. Svegliati,
perdiana! Svegliati! Prendo un bicchiere d'acqua da una bottiglia in cucina e
glielo getto in faccia. Niente: dorme e respira ma niente più.
Sarà entrato in
catalessi? Oppure è tutto frutto di questo incredibile guazzabuglio in cui sto
navigando da stamattina. O forse il bimbo è solo un ologramma che vive grazie
unicamente alla mia mente condizionata dal desiderio che vuole che sia vivo o
che almeno lui esista in questo mondo senza esseri umani. Lo annuso, sento il
suo odore che riconoscerei fra un milione di altre creature, guardo l'orecchio
destro che ha il lembo arricchito da una puntina di cartilagine come la mia e
la macchia triangolare marrone sul braccio sinistro. Tutti i segni di
riconoscimento ci sono ma Leon dorme e non si decide a tornare in questo mondo.
Chissà se lui sta vivendo la sua realtà e io ne stia vivendo un'altra
parallela, come se le nostre due vite fossero semi parallele o quasi
coincidenti ma comunque indipendenti. Due piani vitali, due esistenze che non
si conciliano ma che sono a contatto corporeo tra loro. Le leggi della fisica
si sgretolano e mi viene il dubbio di vivere sulla soglia tra il vero, il
verosimile e l'incredibile. Per adesso mi pare solo impossibile che mio figlio
non riesca a svegliarsi e che possa prenderlo tra le braccia, baciarlo e
portarlo via con me alla ricerca di qualche altro essere umano nascosto chissà
dove.
Devo prendere una
decisione. Rassegnarmi che Leon non sia il Leon reale ma solo una perfetta
copia immaginaria da lasciare lì dove si trova o portarlo ugualmente via con me
sperando che da un momento all'altro si sblocchi da questo fantastico sonno.
Non posso però portare con me un feticcio di bambino e con molto rammarico lo
lascio lì chissà dov'è, dove dorme e dove forse l'avrei ritrovato quando tutto
ciò che sta accadendo si dissolverà come una bolla di sapone. Lo bacio, spero
non per l'ultima volta. È una decisione dura e amara ma necessaria anche perché
un bambino solo virtualmente vivo mi sarebbe solo d'impaccio per i miei
spostamenti. Adesso dovrò riprendere l'auto e fiondarmi a casa dei miei
genitori a Montale, che è lontana circa due ore da qui.
Voglio salutare
ancora Leon, o quello che è, ma quando rientro in camera non lo trovo sul
letto.
«Allora si è
mosso!» ripeto sommessamente.
Lo cerco nel
piccolo appartamento, in bagno, in cucina soggiorno, sotto il letto, nei mobili
e in tutti gli anfratti dove poteva nascondersi. Lo chiamo a gran voce. Niente,
sparito. Allora, prima c'era o non c'era? Cosa ho visto poco tempo fa? Cosa ho
toccato?
Tutto sommato,
però, è meglio così, penso. Era solo un'allucinazione e il Leon veramente vivo
è da qualche altra parte, con la madre o con qualcun'altro. Meglio un figlio
vero da cercare che un figlio finto trovato. Bene, adesso devo ripartire per
raggiungere Montale dai miei. Scendo dalla finestra sull'auto e mi infilo sul
posto di guida. I vermi non ci sono più e anche se rimango stupito, ormai cerco
di non farci più caso, metto in moto e parto.
VERSO CASA DEI
GENITORI
Quale scena di un
film fantastico avrei vissuto ora? Sono alla guida della mia Kangoo Renault
verde e sfreccio in strade deserte ma prima voglio passare a vedere se c'è
qualcuno dove abita la baby-sitter di Leon, poco fuori il paese. Scendo la
strada sterrata e arrivo alla casa dove mi accoglie il vecchio cane che però
non abbaia come fa di solito. Scendo e vado per entrare dal portone della casa
che è aperto ma il cane mi sbarra la strada e comincia a parlare:
«Dove credi di
andare lurido uomo bastardo?»
Scuoto la testa
per far assestare meglio il cervello nella scatola cranica e rispondo:
«Vorrei vedere se
c'è la Luigia, qualcun altro o magari mio figlio Leon che tu conosci bene!»
«Ah,» risponde il
cagnolino «credevo che tu fossi venuto per rubare o per prendere qualcosa da
mangiare. Vattene uomo e non farti più rivedere, qui ci sono solo io.»
Lo ringrazio e
istintivamente faccio un inchino come per scusarmi dell'intrusione e riprendo
la macchina per ripartire. Riguardo il cane che ancora aspetta con aria
altezzosa che me ne vada e allora infilo la chiave, la giro e riparto.
Rifletto:
«Un cane che
parla?!»
Durante il
percorso guardo se vedo segnali di vita e mentre sto percorrendo un tratto
rettilineo vedo in lontananza una serie di alberi che sembrano interrompere la
via. Mi avvicino con cautela, rallento e noto che una parte di un bosco di
pioppi piantati si era spostato autonomamente ingombrando il passo.
«Autonomamente?
Si, è così!»
Mi fermo al bordo
di questa inverosimile barriera arborea e vedo che le piante si erano piazzate
nella strada avanzando con le radici, lasciando dietro di sé il solco del passaggio.
Vado vicinissimo a uno dei pioppi, lo tocco e gli chiedo con voce tremolante se
avrebbe potuto spostarsi in modo che potessi passare e proseguire il viaggio.
Se il cane prima mi aveva parlato perché non avrebbero potuto farlo i pioppi?
Non ricevendo nessuna risposta, insisto e faccio la stessa domanda a tutto il
gruppo di piante, parlando con più coraggio e con voce più ferma. Gli prego di
spostarsi e mi metto perfino in ginocchio implorante e allora si alza un forte
vento che fa dondolare la piccola comunità di alberi e sento una voce che mi
dice:
«Promettici che
farai di tutto per non farci abbattere per produrre cellulosa e imbrattare i
vostri candidi fogli di carta e noi ti faremo passare!»
Era un giuramento
molto impegnativo che avrei dovuto realizzare e difendere a spada tratta e
allora prendo forza e gli prometto che avrei fatto ciò che loro chiedevano.
Nonostante l'assenza di esseri umani, mi sento comunque considerato dalle altre
specie viventi e in questo caso rimango molto onorato di avere un rapporto così
stretto e di fiducia con entità che hanno sempre fatto parte dell'ambiente in
cui vivo. È una sensazione conturbante ma esilarante che mi dà forza e mi
incoraggia a proseguire. Sento che il mio spirito è più vicino con quello di
tutto ciò che mi circonda.
In men che non si
dica, il piccolo esercito legnoso comincia pigramente a muoversi e a tornare,
attraverso i solchi, nel terreno dal quale erano fuggiti. Fuggiti? Si erano
solo mossi e anche se mi sembra strano hanno fatto un gesto tipicamente umano e
hanno chiesto semplicemente la salvezza della loro vita. Banale anche se
apparentemente paradossale. Ormai paradosso e realtà sono alchemicamente fusi
insieme e sono invitato a danzare questo balletto della vita, così come mi
appare. Niente di più.
Ringrazio i Pioppi
e riparto con l'automobile per andare dai miei. Percorro molti chilometri dove
tutto è tranquillo, dove non si manifestano altre situazioni strane.
Strane?
Animali liberi per
la strada, insetti, rocce, alberi e tante macchine ferme anche nel mezzo della
carreggiata e case chiuse o aperte ma senza nessuno dentro o nei dintorni.
Arrivo sotto casa
dei miei genitori, scendo, apro il cancellino e arriva subito la cagnolina
Stella a farmi le feste, come sempre. Le accarezzo e gli gratto la pancia e gli
domando, come se fosse normale, se ci sono babbo e mamma. La bestiola non mi
risponde ed entro in casa dalla porta sul giardino.
Sono seduti
attorno al tavolo! Babbo! Mamma! Ci siete!?!
Non mi rispondono
come presi da mille pensieri e guardano nel vuoto. Tocco mia madre ed è rigida
anche se la pelle è come cera morbida e così anche mio padre. Un altro scherzo
come per mio figlio Leon, penso. Il televisore è incredibilmente acceso ma è fisso
sull'immagine di un telegiornale locale, come se fosse una fotografia. Al
contrario di Leon loro non respirano perché mi ero avvicinato per sentire se
uscisse aria dalla bocca o dal naso. Però parlano! Mia madre, come un
ventriloquo, mi dice:
«Marco non ti
spaventare, capirai il perché di tutto quando arriverai in fondo al tuo
viaggio.»
Mio padre esclama,
sempre con voce nascosta:
«Figlio, questa
avventura che stai vivendo ti servirà molto e servirà anche a molti altri.»
Sembrano frasi
criptiche, che nascondono un messaggio cifrato che devo solo riconoscere e
dipanare per arrivare a quella consapevolezza alla quale mi stavano rimandando.
Li riguardo bene e mi appaiono come dei totem, come i baluardi di una stirpe
nata chissà quanto tempo fa che vogliono riportarmi alle mie origini, alle mie
radici. Un so che di arcaico e di mitico si sprigionava dalle loro figure e
dalle loro parole.
Adesso ho un
compito preciso e mi ci butto a capo fitto.
DOV'È MIO FRATELLO?
Decido di
ripartire e lancio l'ultima occhiata ai miei genitori e in cuor mio li
ringrazio per ciò che mi hanno detto e anche per ciò che hanno fatto per me
tutta la vita. Adesso vado a cercare mio fratello a casa sua a Prato. Proprio
ieri aveva avuto un brutto incidente in moto e si era salvato per miracolo e
avrebbe dovuto ringraziare il suo spirito custode per aver avuto salva la vita.
Mio fratello Piero stava attraversando un brutto periodo pieno di
preoccupazioni, ansie e timori per il futuro e gli avevo detto per telefono
quanto era importante la sua famiglia e gli affetti con tutti noi e con gli
altri con i quali condivide interessi e amicizie schiette. Mentre viaggiavo
passano, come in un film, tutti momenti belli e angosciosi che abbiamo vissuto
insieme e quanto mi sia stato vicino nei frangenti in cui ho vissuto crisi
emotive molto forti. Ho sempre saputo di poter contare su di lui anche se
spesso il suo carattere tendeva volontariamente ad allontanarsi dal mio
affetto, scambiandolo forse per debolezza o per sciocca rivalità.
Chissà? Non lo so
davvero.
Mi ha sempre detto
come fosse importante per lui la famiglia, anche quella di origine ma ha sempre
fatto di tutto per trovare motivi di allontanamento come se si sentisse
scacciato da questo sentimento naturalmente condivisibile. Una volta, però, fu
invitato senza tanti preamboli ad andarsene dalla casa in cui viveva con la sua
famiglia, da mia madre che mise una forte dose di perfidia rimproverandogli che
non stava rispettando le regole del clan o, almeno, quel clan che lei
idealizzava. Fu come la scacciata dall'Eden e i peccatori, mio fratello e
company, se ne andarono da un'altra parte frammentando ulteriormente quel tipo
di comunità che si era creata e che io avevo già abbandonato tempo fa avendo
divorziato dalla prima moglie.
Ero già arrivato
in viale Borgo Valsugana a Prato e, assorto nei pensieri e nei ricordi, non
avevo fatto caso alla solita assenza di esseri umani in ogni dove. Arrivato
all'altezza del cosiddetto Ponte Petrino, dove passa sopra la ferrovia, prima
della rotonda m'imbatto con un gruppo molto folto di pecore che ingombrano la
strada e pascolano l'erba delle aiuole. Non riesco a passare, suono il clacson
ma non si spostano. Avevano colonizzato quell'area e anche se mi avvicino ai
corpi degli animali non si muovono e sarei costretto a investirle per
proseguire. Scendo dalla vettura e cerco di contrattare con il gregge il mio
passaggio. A questo punto tutte le bestie mi guardano e spostano le loro teste
all'unisono nella mia direzione. Mi rivolgo a tutto il gruppo e dico:
«Sto andando a
cercare mio fratello che abita qui vicino, mi fate passare per favore?»
Una di loro mi
risponde dicendo:
«Anche io avevo un
fratello morto a pochi mesi per rimpinzare la tua pancia golosa, ma la sua
carne che nessuno ha comprato è stata buttata via. Chi mi restituisce mio
fratello morto inutilmente?»
Bella domanda!
Molto imbarazzante. Non ci sto molto a pensare e replico subito:
«Voi pecore avete
dato a noi uomini latte, carne e lana per tessere i nostri indumenti e siete
molto preziose per la nostra sopravvivenza, ma non mi sento responsabile se la
legge perversa e utilitaristica del mercato vi ha considerato solo come merce.
L'essere umano non si poneva, in un passato remoto, in questo modo con voi e
adesso tornerà quell'uomo più vero e arcaico che vi riconosceva come degli
alleati, dei compagni di viaggio. Non ci saranno più sacrifici inutili, l'uomo
moderno è sparito e ne sta arrivando uno nuovo, ma antico, che aprirà un nuovo
ciclo.»
«Bene,» esclama la
pecora parlante «ti crediamo ma dovrai darcene prova.»
«Ebbene sì,»
ribadisco con enfasi «m'impegno al che l'uomo nuovo torni ad essere un tutt'uno
con la natura e i suoi frutti!»
Le pecore
cominciano a spostarsi ai lati della strada e posso transitare per arrivare a
casa di Piero.
Posteggio e sono
costretto a scavalcare il cancello automatico, dato che il campanello non
funziona, probabilmente. La porta è chiusa e anche le finestre da basso, allora
faccio il giro per accedere dal retro passando da piccoli giardini desolati e
terrazze a piano terra. Arrivo nella corte della casa e la porta di cucina è
aperta. Mi introduco all'interno, guardingo, anche perché avverto qualche
sentore di pericolo. Forse è solo autosuggestione o chissà che. Sul divano in
soggiorno scorgo la testa semi pelata di mio fratello e in un balzo gli sono
davanti. Lo osservo bene, anche lui è immobile, lo tocco e sembra fatto di
sabbia però con una sufficiente consistenza da non sgretolarsi. Lo chiamo e lo
scuoto ma improvvisamente comincia a sfaldarsi come fa un castello di sabbia
baciato dalle onde sulla riva del mare. Mi scosto e la sabbia comincia a colare
sul pavimento formando una parola:
«Scappa!»
In un attimo sento
calpestare pesantemente le scale che congiungono il soggiorno alla zona notte.
Urla, berci, frasi sconnesse come:
«Uccidiamolo!»;
«Smembriamolo!»; «Tagliamoli la testa!»
Caspita!
Devo fuggire e
alla svelta da qui. Faccio in tempo a scorgere uno dell'orda selvaggia che
stava raggiungendo il soggiorno come un uomo barbuto, con capelli lunghi e
vestito come un guerriero barbaro armato di ascia. Sembrava come se un
ostrogoto uscito da un libro di gesta leggendarie si fosse materializzato in
quel momento per attaccarmi. Anche se con due tendini rotti operati, ma con un
passato di buon atleta, mi scaravento fuori della cucina e rimbalzo da un
giardino all'altro per tornare alla Kangoo. Sento le grida lontane e mi pare di
avercela fatta, sbuco in strada inforco l'auto e scappo via a tutta velocità.
Ce l'ho fatta anche se per un pelo quei novelli barbari non mi hanno fracassato
il cranio.
Trovo una
fontanella d'acqua per la strada e ne approfitto per rifocillarmi e fare il
punto della situazione a palle ferme. Meno male che mio fratello mi aveva
avvertito a modo suo, ma mi domando ora il perché di questa minaccia così
sanguinaria nei miei confronti. Allora mi ricordo che un amico sciamano di nome
Tsunki mi disse che le orde selvagge dei barbari rappresentavano la vendetta
delle foreste abbattute inconsideratamente dall'uomo della civiltà
pre-industriale che stava colonizzando la natura con le città, le strutture, le
ferrovie e tutto quello che era il supporto materiale di quella civiltà nascente.
Quel tipo di civiltà che è stato precursore di quella attuale tutta presa dalla
tecnologia, dalla scienza, dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse e da
una religione utilitaristica imperniata solo sul corpo e sul benessere, non
certo sull'anima o sullo spirito.
È stato un
ammonimento forte e chiaro e la minaccia la stavo sentendo ancora nelle mie
vene e nei miei muscoli che si erano irrigiditi di acido lattico dopo la fuga
precipitosa. Adesso ho voglia solo di riposare e mangiare qualcosa, allora
entro in un circolo e arraffo una merendina confezionata e un panino con
prosciutto rimasto nella vetrina. Mi sento un po' ladro e allora mi viene
istintivamente di aprire il borsellino dei soldi per lasciare uno o due euro.
Ma cosa sto facendo? A chi servono questi soldi? Che sciocco!
COME UN BATTITO
D'ALI DI FARFALLA
Niente ha più
senso. La società alla quale appartenevo non esiste più. Dissolta.
Tutto è cambiato
così repentinamente che non mi sono accorto che è cambiato ogni cosa, che il
mondo in cui vivevo si è trasformato nel tempo di un battito d'ali di farfalla.
Ma come si è modificato? L'uomo vivo non lo vedo, ci sono gli animali, le
piante, le rocce, l'aria, il sole, la terra. La terra!
La terra è rimasta
la stessa, allora non si è modificato niente... Ma adesso come fare a
ricominciare? Non è vitale soffermarmi sul perché e sul come vedo la realtà ma
è importante ripartire, almeno per me che faccio parte dell'umanità. O sbaglio?
Non mi ero mai sentito così ricco nella mia vita come ora e adesso andrò alla
ricerca dell'umanità che è stata inghiottita nel nulla. Ma dove la cerco? Certo
che cominciavo a farci l'abitudine a questo stato di cose ma questa immensa
natura che mi sta intorno comincia a farmi un po' paura e voglio condividere con
qualcuno della mia specie queste sensazioni e fare un progetto per continuare a
vivere qui o altrove in armonia e dare un senso alla mia esistenza.
Dove vado? Se
ricomincio a vagare in auto in lungo e in largo non credo di arrivare a
incontrare nessun individuo umano; troverei la stessa situazione ovunque.
Dunque, che fare? Già, che fare?!? Mi sento inerme e sperso, l'unica cosa che
riesco a fare e stare fermo ad aspettare. È inutile che continui ad attendere e
pensare, lascerò che la realtà scorra così com'è. L'impulso è quello di
muovermi, di cominciare a camminare in cerca di qualche situazione, qualunque
sia, nella quale trovare una via di uscita o una via di entrata. Se questa
fosse una realtà parallela o coincidente, potrei cercare una porta di ingresso
(o di uscita) e sbucare in un'altra realtà, o la stessa nella quale ho vissuto
fino a poco tempo fa, oppure un'altra ancora. Sempre lo sciamano Tsunki mi ha
insegnato che ci sono molte porte per entrare in altre realtà, attraverso
viaggi ultra-corporei grazie alle visioni. Alcune volte avevo già fatto questi
viaggi e avevo cercato di orizzontarmi attraverso delle mappe di riconoscimento
in mondi sotterranei o sottacquei. Questi ingressi sono rappresentati spesso da
anfratti di roccia, alberi cavi o tagliati, cavità nel suolo, corsi d'acqua o
altro ancora.
Mi trovo in città
e quindi mi dirigo verso la collina sovrastante per cercare uno di questi
pertugi. Un altro viaggio incomincia.
IL VIAGGIO E
L'ARRIVO. DESTINAZIONE
Mi metto in marcia
verso la collina pietrosa, arricchita da gruppi di alberi e un po' di macchia
pioniera qua e là. Cammino sotto un sole inclemente e sudo moltissimo come è
mio solito fare. Mi arrampico sul versante sassoso e prima di arrivare in cima
mi trovo su un piccolo pianoro sovrastato da una serie di massi nel mezzo dei
quali intravedo una piccola grotta con un'apertura abbastanza grande per
incunearmi. Mi accuccio ed entro camminando carponi; avanzo e la luce esterna
piano piano lascia spazio al buio. Adesso sono circondato dalle tenebre e posso
anche alzarmi in piedi, tocco le pareti della caverna e proseguo ancora fino a
incontrare una parete bagnata d'acqua. Sento anche lo stillicidio che scende da
qualche parte del pertugio in cui mi sono avventurato. Vado avanti e il suono
dell'acqua è sempre più forte fino a sembrare una vera e propria cascatella.
Seguo il rumore, trovo e tocco l'acqua che cade approfittandone per bere e
bagnarmi un po'. I piedi, intanto, sono entrati in una pozza che non riesco a
immaginare quanto grande sia. Mi sento attratto dall'acqua e, in un baleno,
vengo portato dentro e risucchiato in profondità. Vado giù e ancora più giù,
senza avvertire la necessità di respirare. Vado sempre più in basso. Giro
vorticosamente dentro un tunnel e all'improvviso vedo una nuova luce dal basso.
Mi fermo e mi trovo dentro una grotta molto grande che ha un'apertura
illuminata dall'esterno. Cammino fino ad arrivare quasi fuori della caverna e
mi accorgo che oltre c'è un baratro da dove non si vede nulla. Rimango nella
grotta o mi butto di sotto? Non faccio in tempo a darmi una risposta che sono
già in volo e mentre mi libro nell'aria vedo, come sequenze di un film, mio
figlio che mi chiama, i miei genitori che tornano da una passeggiata in montagna,
mio fratello con la sua famiglia che preparano da mangiare e mia moglie che
torna a casa dopo una giornata di lavoro.
Atterro ed esco
dalla capanna del mio villaggio. Una nuova vita mi attende. Un nuovo mondo.
È un bellissimo
mattino e il sole, già caldo, annuncia con i suoi raggi impietosi una giornata
torrida e accecante. Vedo un uomo che si prepara per andare a caccia di cibo,
una macchina arrugginita diventata da tanto tempo la tana di molti animali, i
cani che abbaiano e una donna anziana che accende il fuoco. I galli strillano,
gli insetti ronzano, il barbagianni lancia un grido e tira una piacevole brezza
di vento.
Il preludio di una
giornata calda e laboriosa: una giornata come un'altra.
Una giornata come un'altra è un racconto di Marco Riccomini
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