La regola del tradimento

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FEDERICO BERLIOZ
LA REGOLA DEL TRADIMENTO




Prefazione
Ancora intontito, si sfilò il pigiama e rimase in mutande, le gambe secche risaltavano sul ventre gonfio. 
Piegato sul lavandino, si sciacquò il viso con l’acqua fredda, scacciando gli ultimi brandelli di un incubo. 
Non riusciva a ricordarlo per intero, sapeva solo quale sgradevole sensazione gli aveva lasciato addosso. 
Un presentimento vago e confuso che non riusciva a spiegarsi lo teneva in apprensione. 
Fin da bambino, gli apparivano nei sogni, scene infernali, con creature pazzesche che riempivano ogni nicchia e fessura del suo cervello, lasciando ben poco spazio ad altra immaginazione. 
Uomini dalla pelle rossa con le corna e la coda e gnomi orribili, che con forconi e fruste, spingevano donne e bambini che piangevano e urlavano, in un cratere di fuoco. 
I visi dei bambini contemplavano ipnotizzati, come falene attratte dalle radiazioni luminose, il fuoco sotto di loro. 
Si era chiesto spesso il perché di questi incubi e quale ragione avesse di farli. 
Sì, stava ingrassando, notò nello specchio davanti a lui. 
L’immagine riflessa era quella di un uomo di cinquant’anni, dall’aria sicura. 
Si girò verso gli abiti posati su una sedia. 
Prese una polo nera e un paio di jeans scuri. 
Quindi infilò i vestiti, chiudendo la lampo dei pantaloni con un unico gesto, veloce e deciso. 
Nel giro di pochi secondi, la metamorfosi fu completa. 
Si preparò ad affrontare una nuova giornata. 
Da tre anni, Carlo Del Punta, conduceva una vita molto particolare, da quando cioè, a quarantasette anni era finito nella caserma della Brigata paracadutisti sabotatori della Folgore “San Sebastiano” a Livorno in Toscana. 
Percorreva lo stesso tragitto mattutino a occhi chiusi. 
Le sue mani accarezzavano appena i corrimano di ferro, e le sue scarpe da ginnastica sfioravano i ballatoi. 
A quell’ora del mattino, non c’era in giro quasi nessuno. 
L’atmosfera surreale del luogo era popolata da ombre grigie sfumate. 
Presto il silenzio sarebbe svanito, 
Scendendo le scalinate, si intravedevano le stanze comuni, la mensa, la biblioteca, il refettorio, dove fra breve sarebbe sbocciata l’animazione degli ospiti. 
Al pianterreno, varcò l’imponente atrio centrale, il cuore del complesso militare. 
Alle pareti, erano appesi i ritratti incorniciati di alcuni Presidenti della repubblica morti da tempo e dei soldati caduti nelle varie guerre e missioni nel mondo. 
Da quelle cornici, decine di uomini puntavano i loro sguardi, rammentando a ogni militare che pure lui faceva parte di un antico e nobile patriarcato, i cui uomini, vivi e defunti, erano legati da un’unica missione comune. 
Si soffermò, come faceva spesso, nel punto in cui in una cornice argentata, c’era un ritratto dedicato a San Sebastiano di Narbona, il santo che aveva dato il proprio nome alla caserma. 
Era affascinato dalla storia del santo, morto nel 304 anno bisestile del IV secolo, quando l'Impero Romano era guidato dall’Imperatore Diocleziano. 
“Sebastiano, oriundo di Narbona e educato a Milano, fu istruito nei principi della fede cristiana. 
Si recò poi a Roma, dove entrò a contatto con la cerchia militare alla diretta dipendenza degli imperatori. 
Divenuto alto ufficiale dell'esercito imperiale, fece presto carriera e fu il comandante della prestigiosa prima corte Pretoria, di stanza a Roma per la difesa dell'imperatore. 
In questo contesto, forte del suo ruolo, poté sostenere i cristiani incarcerati, provvedere alla sepoltura dei martiri e diffondere il cristianesimo tra i funzionari e i militari di corte, approfittando della propria carica imperiale. 
Quando, però, Diocleziano, che aveva in profondo odio i cristiani, scoprì che Sebastiano era cristiano, esclamò: 
«Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell'ombra contro di me.» 
Sebastiano fu quindi da lui condannato a morte. 
Fu legato ad un palo in un sito del colle Palatino, denudato e trafitto da così tante frecce in ogni parte del corpo da sembrare un istrice. 
I soldati, al vederlo morente e perforato dai dardi, lo credettero morto e lo abbandonarono sul luogo affinché le sue carni cibassero le bestie selvatiche, ma non lo era. 
Santa Irene, che andò a recuperarne il corpo per dargli sepoltura, si accorse che il soldato era ancora vivo, per cui lo trasportò nella sua dimora sul Palatino e prese a curarlo dalle molte ferite con pia dedizione. 
Sebastiano, prodigiosamente sanato, nonostante i suoi amici gli consigliassero di abbandonare la città, decise di proclamare la sua fede al cospetto dell'imperatore che gli aveva inflitto il supplizio. 
Il santo raggiunse coraggiosamente Diocleziano e il suo associato Massimiano, che presiedevano alle funzioni nel tempio eretto da Eliogabalo, in onore del Sole Invitto, poi dedicato a Ercole, e li rimproverò per le persecuzioni contro i cristiani. 
Sorpreso alla vista del suo soldato ancora vivo, Diocleziano diede freddamente ordine che Sebastiano fosse flagellato a morte, castigo che fu eseguito nel 304 nell'ippodromo del Palatino, per poi gettarne il corpo nella Cloaca Maxima. 
Nella sua corsa verso il Tevere il corpo si impigliò nei pressi della chiesa di san Giorgio al Velabro, dove fu raccolto dalla matrona Lucina che lo trasportò sino alle catacombe sulla via Appia ed ivi lo seppellì.” 

Carlo voltò le spalle al ritratto e si diresse in fondo al corridoio, dove un enorme portale separava la caserma dagli uffici amministrativi. 
Al di qua della linea di confine, lui era immerso nella rigidità del regolamento militare, al di là si ergeva la realtà semplice, quella dei civili. 
Mentre lasciava la parte militare, udì il proprio incedere farsi più sonoro. 
Il transito della soglia era questione di pochi passi soltanto, ma la differenza era immensa. 
L’aria era sempre satura di fumo, le pareti intonacate di verde erano sostituite da grandi lastre di legno e il soffitto era altissimo. 
La vista si adattò presto alla semplicità del panorama. 
Abbandonata la caserma e gli impegni militari, l’esterno cedeva il posto alla funzionalità, seppur caotica, della vita civile. 

Capitolo uno 

Alfonso De Gennaro, lo seguì lungo un corridoio, fino ad arrivare a una grande sala per le riunioni. 
Sulle pareti c’erano dei poster raffiguranti l’addestramento della polizia cinofila. 
Quando si sedettero l’uno di fronte all’altro, De Gennaro notò che Marco Marchi era armato. 
«Dunque, qual è il problema?» chiese De Gennaro in qualità di ufficiale superiore. 
Marco gli raccontò tutto. 
Quando ebbe terminato, di fronte al silenzio del suo superiore, non seppe trattenersi e chiese: 
«Allora? Che ne pensa?» 
De Gennaro lo guardò e congiunse le braccia. 
«Intanto voglio dirti che apprezzo molto il fatto che tu sia venuto subito a dirmelo. Hai fatto la scelta giusta! Ora abbiamo due opzioni. La prima, ovviamente, è riacciuffare il fuggitivo senza dirlo a nessuno.» 
«Poiché è un novellino, sono certo che lo riprenderemo presto!» 
«La seconda opzione, sarebbe quella di informare il Questore!» 
«Che io sconsiglio. Immagina che casino scoppierebbe, senza contare la punizione!» 
«Che sarà piuttosto pesante… tanto da renderti la vita molto difficile!» 
Marco annuì preoccupato. 
«Ma, ci sarebbe anche l’opzione numero tre.» disse De Gennaro. 
Marco Marchi si sporse in avanti. 
«Potremmo subappaltare l’incarico ai nostri amici della ROC.» 
«Loro porterebbero a termine il lavoro in pochissimo tempo e tu potrai tornare a lavorare senza pensieri!» 
«Che ne dici?» 
Marco esitò. 
Poi chiese: 
«Quanto mi costerà?» 
De Gennaro ci pensò sopra per alcuni secondi gonfiando le guance. 
Dopo alcuni istanti espirò fuori l’aria e disse: 
«Mi serve un piccolo favore!» 
Gli si avvicinò all’orecchio e gli sussurrò la sua richiesta. 
Marco lo guardò sorpreso e incuriosito, poi disse: 
«Sì, va bene!» 
Prima di andarsene Marchi gli chiese: 
«Le ha rubato oggetti importanti?» 
«No, sciocchezze, roba da poco conto!» rispose De Gennaro. 

La regola del tradimento

è un romanzo di Federico Berlioz






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