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LUIGI SALERNO
I DUE COMPLEANNI
Foto di Pixabay
I poveri hanno sempre lo stesso viso. Anche Denver Spike aveva il viso di un povero, ma di un povero di razza, uno di quelli che non dimentichi più. Ancora prima di sapere che fosse il figlio unico della coppia di operai che abitava a pochi isolati da Villa Giuditta, nostra nuova residenza, giusto al confine con le prime costruzioni riservate ai dipendenti della fabbrica di scaffali. Aveva gli occhi sinceri e affamati. Il viso magro e astuto, ancora più del mio, che nel complesso ero già un figurino snello, quanto meno per la media dei ragazzini della nostra scuola. Che occhi intelligenti, così diceva sempre mia madre, sempre luminosi e affamati di vedere e di capire. Non li aveva mai incontrati così svegli e sinceri in quelli dei miei vecchi amici, che erano sempre distratti, poco concentrati e che forse non erano nemmeno dei veri amici.
Denver, attraverso
i suoi occhi scuri e veloci, stava cercando la sua strada senza uscita verso di
me. Così credevo, ed ero sempre più sicuro che fosse così, dal momento che
anche io provavo la stessa fame della sua amicizia ed ero affascinato dalla mia
strada senza uscita verso di lui, che era davvero così poco lontana da quella
della fabbrica di scaffali, tra l'altro. Era scattato qualcosa di inspiegabile
e anche di molto raro tra noi, che ci rendeva difficile stare lontani l'uno
dall'altro, soprattutto. Questo fin dai primi giorni del nostro incontro.
Denver Spike era
precipitato nell'ultima sezione della nostra scuola, dove venivano assemblati
quelli della sua categoria, ritenuta inferiore per rango sociale e culturale, e
che non so per quale ragione venissero considerati meno pronti e dotati nell'imparare
e nel bruciare le tappe dei programmi scolastici; affidati quasi sempre a
insegnanti svogliati ma anche più violenti, quando Denver, secondo me, era un
ragazzino dall'intelligenza straordinaria, fuori dal comune, insomma! Io invece
ero capitato nella sezione più prestigiosa, perché mio padre e mia madre ci
tenevano molto e mi dicevano che mi spettava di diritto, visto il rango sociale
a cui appartenevo e il livello culturale della mia famiglia, che avrebbe dovuto
condizionare, così mi ripetevano di continuo, la mia intelligenza, le mie
capacità e il mio naturale profitto di apprendimento, quasi in automatico.
Ma durante le ore
libere dalla scuola e dallo studio a casa e dal tennis, ero sempre con Denver,
senza badare a nessuna differenza di rango e di cultura, come di categorie o
accidenti vari. I miei compagni di classe li avvertivo così diversi e lontani
da me. Erano di un’altra specie, nella quale non mi riconoscevo per niente,
ormai. Solo con Denver riuscivo a divertirmi e ad esprimermi come davvero avrei
voluto, intendo per quelle che erano le mie caratteristiche e considerazioni
sulla vita e sulla libertà, come sulle cose che amavo e che imparavo e su
quelli che erano i miei desideri, le mie paure o anche i miei limiti, perché
no. La paura, secondo Denver, non era un limite, ma una condizione, a volte un
colore, una necessità di cui non dovevamo mai vergognarci. Senza paura, forse,
non sarebbe accaduto niente di interessante. Io ero convinto del contrario,
invece, ma questo fino a prima di incontrarlo. La paura, prima di incontrare
Denver, era fatta solo di buio e di mistero, come del silenzio dei miei presentimenti
e di niente altro. Mio padre mi diceva sempre che non dovevo aver paura di
niente e di nessuno, e che un ragazzo che diventava uomo doveva ignorare
l'esistenza della paura, altrimenti non avrebbe dimostrato la sua forza e la
sua reale natura, e in quel caso gli altri si sarebbero approfittati della sua
resa, come succede sempre ai codardi, che non affrontano mai a dovere gli
ostacoli numerosi della vita. Denver la pensava in modo del tutto diverso e
questo fatto mi colpì, perché davanti a lui anche il provare paura e il non
essere forti diventava una condizione naturale e luminosa, in alcuni casi
imprescindibile, se non addirittura vantaggiosa – forse starò esagerando, ma
nella sostanza il suo pensiero era quello. Sapere che c’era qualcuno a cui non
importava un accidente della forza e del coraggio, mi dava davvero una grande
serenità. Davanti a Denver non dovevo nascondere più niente di me, della mia
debolezza e nemmeno prepararmi o allenarmi per cercare di mostrarmi diverso da
quello che in fondo ero, né con il corpo né con lo spirito, quindi. Non c’era
necessità di cambiare o di forzare un bel nulla. Dovevo soltanto esserci, e poi
basta, tutto il resto sarebbe arrivato da solo, senza nessuno sforzo o
strategia di sorta, che meraviglia. Il modo giusto era quello sbagliato, e a
volte quello sbagliato era l’unico che ci rappresentava; come l’amore per la
paura, per esempio e l’odio per il coraggio e per la forza, che da sempre i
nostri coetanei amavano ostentare davanti agli altri alla prima occasione, a
differenza di come faceva Denver. Erano queste le regole del nostro gioco
all’interno dell’unico rango in cui sentivamo entrambi di respirare e di
riconoscerci per quello che davvero eravamo, al di là di ciò che non ci
riusciva ancora possibile e che gli altri vedevano o immaginavano di noi due.
Quelle nuove regole a me andavano benissimo, le avrei seguite e rispettate
senza nessuno sforzo, al patto di non raccontarlo a casa, in particolare a mio
padre, che la pensava in modo diverso da Denver e che di sicuro mi avrebbe
condannato e punito, se fosse stato al corrente della nostra nuova filosofia di
vita, che avrebbe definito di sicuro devastante e tossica per il mio sviluppo,
conoscendolo.
Denver Spike era
diventato il mio migliore amico e nel migliore momento in cui quest'amicizia
potesse mai accadere. Era quello a cui dicevo di tutto, confidandogli i miei
segreti più nascosti, i miei sogni, come le mie paure, desideri e
stravolgimenti. In compagnia di Denver le cose cambiavano di forma e di
profondità. Le vedevo e le sentivo con maggiore intensità, come se mi
dedicassero all’istante il sentiero chiaro della loro poesia, senza nessun tipo
di interferenza, come invece accadeva un tempo, prima del nostro trasferimento
a Villa Giuditta. Immaginavo che accadesse lo stesso a lui, anche se Denver era
più chiuso di me e sono certo che non me lo avrebbe mai detto con la mia
dovizia di particolari. Ma per me non cambiava nulla. Le nostre sensazioni
sulla vita che ci impegnava e ci succedeva quando si stava insieme, o anche da
soli, non avevano bisogno di troppe parole e spiegazioni, ma si bastavano da
sole. Anche tacendole, perché forse in quel silenzio si trasmettevano e si
trasfiguravano ancora di più. Avremmo corso meno rischi, in quella
comunicazione, essendo sintonizzati, fin dal primo giorno del nostro incontro,
su di una stessa frequenza.
Denver quell'anno
capitava proprio a fagiolo: dovevo festeggiare il mio primo compleanno a Villa
Giuditta, dopo l'ultimo trasferimento di mio padre, e non avevo così tanti amici
per riempire una festa. D'altra parte, essendo appena arrivato, non avrei avuto
il tempo sufficiente per assortire da solo un gruppo considerevole di invitati
interessanti. Denver ne aveva un mucchio di amici, e mi garantiva anche per le
ragazze, che in fondo sarebbero state il cuore di una festa che si rispetti, di
quelle indimenticabili, come avrei desiderato che fosse anche la mia. Per mia
fortuna, il mio amico Denver ne conosceva davvero di molto carine e anche di
affidabili, come mi diceva sempre lui. Vedrai che riuscirà tutto benissimo, ce
ne saranno tantissime di ragazze, fidati, una più carina dell’altra, faceva
Denver. Io mi fidavo e lo lasciavo fare, – non avrei avuto altra scelta.
Denver non aveva
la ragazza e neanche io a quell'epoca ne avevo una. Questo fu un altro elemento
che ci legò; il fatto di poterle cercare insieme, di farci coraggio e partire
all'assedio in coppia. Non me lo ricordavo così più bello di me, tra l’altro,
per cui non avrei rischiato nemmeno di sfigurare, o di farlo figurare troppo,
visto che in fondo si trattava di lievi sfumature che potevano definirci due
ragazzini dalle bellezze più o meno singolari, due bei tipetti interessanti e
fuori dal comune, insomma, ma in ogni caso simili e compatibili, senza che si
insinuasse tra noi nessun tipo di rivalità. Sarebbe stato tutto ben bilanciato
e in buona armonia, e questo non era poco, d’altra parte, per un rapporto
importante come lo era il nostro, ormai.
Avevo una sorella
minore, di nome Martine, più piccola di me di sette anni, che era molto
affezionata a Denver e che tutte le volte che il mio amico veniva a trovarmi a
casa, riceveva sempre un pensierino da lui, qualcosa di speciale, anche se
riciclato all'occorrenza, che la rendeva particolarmente emozionata e felice.
Martine era un po'
innamorata di Denver. Qualche volta si faceva aggiustare il nastrino o il
cerchietto rosso per capelli dalle sue mani, dicendo che erano sempre così
precise e delicate e che non le tiravano mai i capelli per sbaglio, come
succedeva invece con me o con le sue compagne di classe, quando si azzardavano
a sistemarle la pettinatura durante l'intervallo tra le lezioni.
Eravamo diventati
inseparabili. Tutte le volte che passavo a trovarlo, sua madre andava nel
panico, non sapeva più che cosa offrirmi. Si scusava sempre per il disordine,
dicendo che non aveva avuto il tempo di sistemare le stanze, che erano sempre
un po’ in aria, come diceva sempre lei, e poi ci portava in cucina, dove ci
preparava sempre una cioccolata fumante e buonissima. Sua madre aveva da poco
lasciato la fabbrica, per un problema di salute a un rene, ma io la trovavo
sempre in gran forma e ritemprata di speranza nel vedermi accanto a suo figlio,
tutte le volte che il mio amico mi trascinava a casa sua. Quella donna, a
osservarla meglio, aveva un viso pallido e misterioso, che mi guardava sempre
con un filo di timore. Ma quello era solo il colore dei poveri, non c'era da
preoccuparsi, pensavo. Un pallore naturale ma soprattutto sociale, così mi
dicevano spesso a casa i miei genitori, quando io raccontavo loro della lieve
apprensione che mi evocava la signora Spike, fra le lunghe tenebre della sua
casa, nel pomeriggio.
(Lo stesso colore
pallido del viso di Denver, quando qualche volta rimaneva in silenzio, e
abbassava gli occhi di colpo, senza una ragione chiara, mentre eravamo insieme,
a camminare nei viali di Villa Giuditta o da qualche altra parte, spesso con
mia sorella Martine. Quando cercavo di capire che cosa gli succedeva in quei
momenti e se c'era qualcosa di male che forse gli avevo fatto, senza volerlo,
lui mi tranquillizzava, dicendomi che era tutto a posto e una manciata di
secondi dopo riprendeva la sua stessa andatura ed espressione di sempre, come
se non fosse accaduto nulla, e anche io allora dimenticavo tutto quello che gli
era o che forse non gli era successo, e gli correvo dietro, aspettando che
Martine ci raggiungesse, perché aveva sempre il passo più debole e più corto
del nostro – ma a volte temevo che lei rallentasse apposta, perché il suo
pomeriggio con noi due fosse ancora più lungo del previsto).
Denver Spike era
figlio unico. Un bambino che avevano molto atteso e che non voleva mai
arrivare. Denver una sera mi raccontò di rappresentare per i suoi genitori un
vero miracolo. Io non sapevo bene che cosa fosse un vero miracolo. Quella
parola: miracolo non l'avevo mai capita fino in fondo, forse
sentita di sfuggita durante l’ora di religione, dove di solito pensavo ad
altro, ma poi non ne ricordavo nemmeno bene il senso. Denver, quando glielo
chiedevo, guardava lontano, accennando a un lieve sorriso, poi ritornando
subito più serio, con gli occhi bassi di una persona adulta. Sua madre era una
persona assai religiosa, come mi raccontava Denver. Rimaneva diverso tempo
chiusa a chiave nella sua camera, a pregare con la luce spenta e la finestra
aperta, in più momenti della giornata. «Prega anche per noi, non dimenticarlo»
gli diceva suo padre, quando Denver alzava la voce e faceva rumore, nei momenti
di maggiore raccoglimento, come quelli della prima sera o del buon mattino.
«Un vero miracolo
è come una cosa grandissima e nello stesso tempo impossibile, e forse è
grandissima solo perché impossibile, ma che alla fine poi succede lo stesso,
anche quando non dovrebbe: un po’ come la nostra amicizia, per esempio,
qualcosa del genere, di inaspettato, ecco, che non era previsto, capisci?» mi
disse Denver, seduto sulle scale accanto a me, mentre guardavo le cime violacee
degli alberi del giardino dissolversi a poco a poco, prima che facesse buio.
«Sicuro che
significa questo?» gli dissi.
«È quello che
significo io per loro. Il resto non conta e nemmeno mi interessa» mi disse.
A quelle parole
ero io a chiudermi e a non parlare più. Si rimaneva vicini e indifesi, in quel
silenzio ostile, con dentro un altro grado di tensione, che tentavamo entrambi
di nasconderci. Io pensavo a quelle sue parole con una certa invidia, per il
fatto di non essere mai stato considerato un vero miracolo per nessuno, nemmeno
mia sorella Martine, e anche perché non mi credevo qualcosa di impossibile e di
imprevisto e quindi non mi sentivo così amato come forse lo era lui, chissà.
Oppure perché il sentirsi molto amati era una faccenda per poveri, così come il
pallore delicato della signora Spike, qualcosa di raro e di riservato soltanto
ai dipendenti della fabbrica di scaffali e di affetto.
Mi girai verso il
mio amico, che era ritornato con gli occhi chiusi e la testa appena sollevata,
come la tenevo io, poco prima di guardarlo. Da lontano, affioravano le luci
rosate delle case degli operai nel silenzio, interrotto dallo sfrigolio di un
cerino azzurro contro il gradino, quando Denver si accendeva una sigaretta
francese nel buio, gli occhi lucidi e fermi, senza dirmi altro; prima di andare.
Mia madre e mio
padre dopo il trasferimento a Villa Giuditta, erano sempre molto presi dal loro
lavoro e dalle loro faccende importanti, di cui non capivo mai troppo. Si
trattava di acclimatarsi bene, così diceva sempre mio padre, e di ingranare
subito con la marcia giusta – era sempre stato quello il suo modo di parlare
dei suoi affari e a volte anche di noi e della nostra gestione, sempre con un
tono chiaro e diretto, efficiente. Così ai loro occhi il mio amico Denver
risultava invisibile, come a volte diventavo invisibile anche io con Martine. I
miei genitori non dicevano mai niente quando lo portavo a casa o quando veniva
a trovarci senza avvertire, per farmi una sorpresa. Nemmeno quando regalava
qualcosa di originale a Martine, e lei correva sempre a mostrarlo, piena di
soddisfazione e di entusiasmo: tutto normale, inesistente, come se mai stato,
quindi. Mio padre ogni tanto mi prendeva in giro quando ci sentivamo così tante
volte al telefono con Denver, e mi diceva solo che aveva chiamato la
mia fidanzata. Quando ero a lezione di matematica o al tennis, e
Denver mi cercava, i miei non dicevano quasi mai dove mi trovavo, a differenza
della signora Spike, che al contrario, quando ero io a cercare Denver, mi
tratteneva diverso tempo al telefono, comunicandomi tutti i possibili dettagli
dei luoghi e degli orari di suo figlio, in modo da darmi sempre modo di
raggiungerlo per tempo, se fosse stato ancora possibile, avvertendo quanto
contasse per me la sua presenza in quel momento.
Non riuscivamo più
a stare lontani, ormai. Mia madre non era mai stata scostante con lui, mai
quanto mio padre, soprattutto, ma lo trattava sempre come una creaturina
indifesa e diversa, con un po' di pietà nascosta anche male nello sguardo e nel
modo di parlargli e anche solo di sorridergli e congedarsi, quella che di solito
si riserva agli esseri modesti, che si considerano appena inferiori, anche se
non cattivi e pericolosi. Possibile che mia madre non se ne rendesse nemmeno
conto e che fosse in ottima fede, così come la signora Spike lo sarebbe stata
nei miei confronti. L'affetto di mia madre verso il mio migliore amico era
sempre così formale e quindi assai diverso da quello che sua madre dimostrava a
me. D'altra parte, ogni affetto che si provava rimaneva una questione del tutto
personale e istintiva. Le nostre due madri erano donne diverse, quindi con
sentimenti, pensieri, emozioni e anche con affetti e scaffali diversi, ma
soprattutto una sola delle due, la signora Spike, sapeva di trovarsi di fronte
a un vero miracolo e questa differenza era davvero importante. A mia madre
questo non lo avrei mai detto; mi sarebbe sembrato ingiusto, se non poco
rispettoso, parlarle di certe cose, che in qualche modo riguardavano Dio, i
Santi o anche la religione, argomenti nebbiosi che non trattavamo mai, e che
non erano mai stati affrontati sul serio, nemmeno per gioco o nei giorni di
festa – al di là degli orari per il catechismo da segnare sul calendario per
non dimenticarli e l’organizzazione, davvero perfetta, della Prima Comunione di
Martine, che era stata festeggiata nella nostra vecchia casa, poco prima di
trasferirci, mangiando a sbafo e ingozzando i nostri ospiti di antipasti,
diversi primi piatti, contorni, primizie di frutta, dolciumi e torte colorate
dai vari gusti. Ma negli occhi della signora Spike, di pomeriggio, anche io e
Martine ci sentivamo come due miracoli, essendo così amici del suo prezioso
figlio unico, forse per una sorte di luce riflessa dall’amore che la signora
Spike provava e ancora pativa per lui e in parte anche per il potere delle sue
preghiere insidiose, sussurrate sempre dietro la porta chiusa della sua vita di
operaia convalescente. Questo miracolo ci succedeva anche per via degli occhi
scuri e un po' strabici di quella donna, che a volte non ci sembrava vera per
quanto fosse minuta, pallida, ma sempre così gentile, poi, di una gentilezza
alla quale non eravamo così abituati. Alcuni giorni sembrava più una sorella
maggiore di Denver che sua madre. Aveva gli occhi di una bambola antica, mi
ripeteva spesso Martine, quando si ritornava da soli, io e lei, verso casa,
fantasticando della signora Spike a voce alta, di quella madre un po' bambola
un po' bambina, tanto nessuno poteva sentirci. La custodivamo entrambi, solo
dentro di noi, la sensazione feroce del miracolo. Anche se per poco, ci faceva
del bene e ci bastava come lezione di stravaganza del tardo pomeriggio.
Tornavamo a casa più leggeri e a volte Martine mi prendeva la mano,
fischiettando e poi rallentando il suo passo già piccolo, per dilatare il tempo
e allontanare la notte, senza parlare più.
Il giorno
del mio compleanno si faceva sempre più vicino. Avremmo allestito il tutto nel
giardino di Villa Giuditta. Ci sarebbe stata la musica, suonata da una piccola
orchestra in abito bianco, i festoni, le piccole lanterne azzurrate nascoste
tra gli alberi, altre lampadine multicolori lungo il verandato e ancora piccole
candele in vasi di terracotta, che avrebbero arso sui bordi dello stagno
artificiale. E ancora l'angolo del rinfresco, il barbecue, i camerieri con i
guanti bianchi e anche i fuochi di artificio, oltre a una torta gigantesca di
fragole con panna. Lo zio Paul, il fratello di mamma, avrebbe organizzato i
numeri di magia, di cui era un vero specialista, rendendo spesso memorabili le
nostre serate di festa in famiglia. Cosa avrei potuto desiderare di più?
Avevamo pensato davvero a tutto, nei minimi particolari. La lista degli
invitati era stracolma di nuovi amici della scuola, oltre a quei pochi del
tennis, e tutto questo grazie a Denver Spike. Io e Denver avevamo già
programmato il nostro look. Gli avrei prestato qualcosa di speciale da
mettersi, perché come migliore amico dell'invitato non poteva certo sfigurare –
questo, però, era un pensiero di mia madre, che per mia fortuna fu preso bene,
sia da Denver che dai suoi genitori, che continuavano a ringraziarmi e a dirmi
di salutare i miei, i quali, al contrario, non ricambiavano mai, né mandavano
saluti cordiali o neanche solo formali e di loro iniziativa ai suoi attraverso
il mio amico, – ormai mi ero rassegnato, erano fatti così e nemmeno Denver ci
faceva più caso, pazienza.
Denver, per
l’occasione della giornata del mio compleanno, mi avrebbe procurato un gel
molto speciale, che mi aveva indicato come il migliore e che io ero corso a
comprare un pomeriggio su sua indicazione. Ogni tanto lo annusavo, poi ne
passavo una noce celeste sul palmo e mi specchiavo, vedendo la forma dei miei
occhi e del mio sguardo cambiare per ogni scorsa di pomata nei capelli. Denver
mi aveva insegnato a passare il gel nel modo giusto. Anche per quello c’era una
particolare tecnica: il tipo di apertura del palmo, la quantità, il movimento
giusto, la direzione, il tempo di posa, il peso delle dita e poi di tutta la
mano durante la passata più obliqua ed ecco, che seguiti tutti i punti con la
massima precisione, il mio viso cambiava davvero forma e si fecondava di
un’altra luce, ancora più chiara e avvincente, che partiva dagli occhi e non
dai capelli, come mi diceva sempre Denver, che ormai era uno specialista della
tecnica di fissaggio e delle sue risonanze tenebrose sulle nostre figure.
A mio padre non
piaceva per niente che io mettessi il gel. Diceva che mi rendeva volgare e che
faceva anche male. Ma nel giorno del mio compleanno mi fu concesso di tutto, e
questo, anche grazie all'intervento di mia madre e dello zio Paul. Io e Denver
avremmo diffuso nell'aria della mia festa quello stesso profumo del gel,
con i capelli tirati allo stesso modo, lucidi da specchiarsi, come diceva
sempre lui mentre se li ricomponeva davanti allo specchio della mia camera.
Con tutti quei
nuovi amici e quelle nuove ragazze nel mio giardino – mi tremavano le gambe al
solo pensiero –, che sarebbero arrivate solo e unicamente per me, avevo
bisogno di qualcosa di originale e aggressivo che mi facesse sentire ancora più
grande e veloce della mia età – che poi il solo profumo del gel già mi calmava,
dandomi quella sicurezza che allora mi mancava, questo non lo dissi a nessuno,
però, nemmeno a Denver: non l’avrebbe presa bene, conoscendolo. In quei
momenti, quelli dell’attesa, ritornavo vicino alla concezione di mio padre, al
desiderio di essere forte e di primeggiare sugli altri, ma poi rientravo subito
in carreggiata, prima che Denver potesse notare un minimo cambiamento nel mio
stato d’animo, che ero certo lo avrebbe deluso, così come quello che mi avvicinava
a lui deludeva e avrebbe deluso mio padre.
Martine mi
chiedeva di provarlo anche lei quel mio gel tutto azzurro che avevo portato a
casa con tanto entusiasmo, ma io le dicevo che alle bambine il gel faceva male
e che se papà se ne accorgeva sarebbero stati guai seri per tutti e due,
soprattutto per me – Denver, poi, di nascosto, gliene avrebbe fatto provare un
tocchetto sulle punte dei capelli e anche sulla lingua, per gioco, quando mia
madre non era ancora a vista e mio padre si trovava come sempre a lavoro,
immerso nelle sue cose importanti, così lontane da noi. Martine se ne metteva
un'altra puntina sulle dita e gliela posava appena sulle palpebre, tormentando
il mio povero amico allo sfinimento, senza che lui dicesse mai niente o si
infastidisse. Quanta pazienza che aveva Denver con Martine, pensavo,
guardandoli vicini e così affiatati, da un angolo del nostro verandato, giusto
la sera prima del mio compleanno. Li vedevo vicini e mi sentivo ancora felice,
ma nello stesso tempo provavo paura e forse quella paura ne costituiva un
motivo misterioso, adombrato come un ornamento della mia stessa felicità. Anche
se poteva risuonare strano, per me andava bene così. Non sapevo sentire la mia
vita in modo diverso, neanche Denver, d’altra parte. Era anche tutto questo, in
fondo, ad unirci.
Per una strana
coincidenza, il mio compleanno capitava nello stesso giorno di quello della
signora Spike. All'inizio Denver dovette battagliare parecchio per liberarsi,
dico questo perché i suoi genitori volevano portarlo a cena fuori con loro,
come mi riferì. Avevano già prenotato un tavolo da tre al ristorante I
due pioppi, maledizione! Era una delle poche volte in cui, per tradizione
di famiglia, gli Spike cenavano fuori: il giorno del compleanno della signora
Spike. La famiglia doveva restare riunita per l'avvenimento, almeno questa era
l'intenzione di suo padre, ma Denver era riuscito a convincerli e gli disse che
loro avrebbero fatto i fidanzati, in quella doppia sera di festa, come non
facevano da una vita, ancora prima del miracolo del suo arrivo, quindi,
dilungando la loro serata in una passeggiata solitaria, semmai romantica, senza
miracoli o intralci tra i piedi, e intanto lui sarebbe rimasto con me fino a
tardi, e avrebbe poi detto ai suoi che un tavolo da tre di solito poteva andare
bene per quattro come anche per due persone, e allora voleva convincerli che
sarebbero stati ancora più comodi, e lui più felice a saperli più soli e
sereni, nell'immaginarlo felice a festeggiare me, che ero il suo più grande
amico di sempre. Magnifico, mi dissi. I suoi genitori erano stati comprensivi e
meravigliosi quanto lui, d'altra parte. Nel vederlo così felice per la
partecipazione al mio compleanno, non avevano avuto il coraggio di impedirgli
di prendervi parte. Anche questo per me rappresentava un miracolo di rispetto e
di rara sensibilità. Così acconsentirono e senza farglielo nemmeno pesare, e
chissà, pensavo, quando anche mia madre mi avrebbe permesso di partecipare a un
compleanno di un amico che coincidesse con il suo, ma era inutile pensarci,
ormai. In quel caso, forse, doveva avvenire un miracolo ancora più grande e più
vero di quello di Denver. L’importante è che Denver sarebbe stato per tutta la
serata della mia festa insieme a me, senza lasciarmi un solo istante, tutto il
resto non contava più nulla, e neanche per lui.
Quando Denver si
precipitava a casa mia, specie gli ultimi giorni dei preparativi, davvero non
ci vedeva più, e questo i suoi genitori lo avevano percepito. Era felice con me
quanto loro lo erano con lui, ecco perché potevano comprendere alla perfezione
il suo stato d’animo e non sentirmi mai come un rivale o una sorta di ostacolo.
Entrava in un sogno, si sentiva un altro, come succedeva a me in sua presenza,
anche solo per una sua telefonata, la sua comparsa sotto l’androne, nel cortile
soleggiato della nostra scuola o dietro il cancello azzurro di Villa Giuditta e
senza l'ombrello, in un giorno di pioggia. Credo che Denver si sentisse felice,
molto più felice di me, nella mia casa e nella mia vita e anche nella sua o
anche a scuola, nonostante quella sezione orrenda dove lo avevano relegato come
uno degli ultimi. La felicità di Denver Spike aveva un altro sapore, ancora più
selvatico del mio, così come la sua paura, quella che mi confidava ogni tanto,
senza mai vergognarsene: la sua paura dell’essere felice così, per esempio, la
stessa che capitava a me, quando eravamo insieme o ci salutavamo da lontano,
fino a poco prima di svanire, l’uno negli occhi dell’altro, nella tarda sera.
Mi chiedeva sempre
che cosa avrei regalato a mia madre per il giorno del suo compleanno, e io gli
dicevo che ogni anno le regalavo un gioiello importante, scelto insieme a mio
padre e a Martine. Al mattino presto del giorno di festa, quando mio padre le
portava un mazzo di fiorellini freschi di campo, e poi firmavamo tutti e tre un
bigliettino di amore su di un cartoncino azzurro, che mio padre le preparava
dalla sera prima, e che si firmava a turno, all'alba, in cucina e ancora in
pigiama, mentre fuori era ancora buio e mia madre era a letto, ignara di tutto,
quanto meno fingendo di esserlo, per non rovinare l'incanto della nostra
sorpresa.
Mio padre
preparava sempre lui la colazione, in quel giorno di compleanno, e anche
l'astuccio blu notte con dentro il gioiello, che veniva aperto da mia madre
davanti a noi e ai nostri occhi spaventati, come se fosse una stella del cielo
o un animale raro. I suoi occhi diventavano luminosi come il gioiello
nell'astuccio e poi brillavano appena di lacrime, mentre mio padre,
soddisfatto, si aggiustava il nodo della cravatta allo specchio e guardava
l'orologio, dandoci le spalle, che tra un poco doveva scappare. Ogni anno così:
lo stesso copione, soltanto il gioiello era diverso.
«Lo hanno scelto
loro due, amore. Io non c'entro niente. Hai visto che bravi?» e la mamma alzava
la testa, commossa, mentre indossava il gioiello e rimaneva stordita dalla
bellezza di quel risveglio e da tutto il resto che le stava precipitando
intorno, senza riuscire a parlare. Rimaneva per tutto il giorno confusa, fino a
sera tardi. Solo all'ultim'ora, quando il giorno del suo compleanno stava per
finire, mia madre piangeva. Diceva che glielo faceva sempre, fin da ragazza,
quando un giorno di compleanno cominciava a morirle addosso e anche dentro. Non
poteva farci nulla, era fatta così.
Quando raccontavo
del compleanno di mia madre e delle nostre abitudini, Denver cambiava sempre
espressione e rimaneva ammutolito e pensieroso. Quando gli chiedevo a cosa
pensasse, lui non mi rispondeva mai subito. Poi mi diceva che avrebbe voluto
rendere felice sua madre come noi riuscivamo a fare con la nostra, per tutta la
giornata ma anche oltre, con un regalo speciale, per esempio, che le facesse
brillare gli occhi esattamente come succedeva a mia madre, e solo allora io mi
fermavo e guardavo altrove, perché non sapevo più che cosa dirgli. Quelle sue
parole mi imbarazzavano, era meglio voltare pagina e così cambiavo argomento e
lo portavo dentro, poi di nuovo fuori, a vedere il giardino e a controllare
l'elenco degli invitati, la pedana lucida dell'orchestra, le lanterne a colori
tra i rami dall'angolo destro del verandato, i riflessi rosati dei lampioni di
Villa Giuditta.
Prendemmo posto
sui gradini, come sempre l'uno accanto all'altro, quando si accesero i lumi
negli alberi. Avevo sistemato già le piccole candele ai bordi dello stagno e
anche il verandato era azionato dallo stesso temporizzatore delle altre lucine
variopinte. Rimanemmo entrambi colpiti da come si era fatto calmo e sognante il
mio giardino illuminato, mentre intorno non si sentiva più un'anima. Mia madre,
mio padre e Martine non erano ancora tornati. Batteva il mento del silenzio nei
nostri cuori, immaginando poi domani, con quelle nostre luci a quell'ora, nel
fascino della stessa ansia. E anche dopo, quando tutto sarebbe finito, ci
saremmo forse ritrovati ancora lì da soli, a ricordare e forse a starci male,
ma stavolta senza dircelo, incamminandoci ancora nel nostro vuoto, come in
quello dell'ultim'ora di compleanno di mia madre, senza nemmeno la forza di
parlarne e di respirare.
«Questo posto è
meraviglioso. Ci rimarrei per sempre» mi disse Denver, con un filo di voce.
«Neppure io lo
immaginavo così, con tutte le luci» gli dissi.
«Sarebbe bello
festeggiare un mio compleanno qui a Villa Giuditta. Anche uno solo nella mia
vita, mi basterebbe per sempre.»
«Per sempre?» gli
feci.
«Esattamente con
queste luci, con questi profumi e questi alberi. Questo posto è il vostro vero
miracolo, sai?»
«Dici davvero,
Denver?»
«Certo! Il tuo
vero miracolo, giuraci!»
«Allora la tua
festa di compleanno potremmo organizzarla qui, con le stesse luci, così come
adesso. Contaci, Denver.»
«Potrei davvero?
Un mio compleanno qui da te, a Villa Giuditta?»
«Te l'ho già
detto, certo. Perché me lo richiedi, adesso?»
Da lontano
abbaiavano dei cani. Calò una strana nebbia, nel nostro nuovo silenzio, che
avvolse gli alberi, i riflessi sullo stagno e la pedana umida sul prato, dove
l'indomani avrebbe suonato l'orchestra da ballo in abito bianco. Nel vetro del
verandato i nostri visi erano sbiaditi come spettri.
«Ho visto tuo
padre, l'altro pomeriggio. Stava fermo con la macchina e parlava con un
ragazzino con i capelli biondi, forse un bambino, più che un ragazzino. Era
piccolo, comunque, più piccolo di Martine, forse un vostro cuginetto, ho
pensato» mi fece Denver, rompendo il silenzio della sera.
«Non abbiamo
cugini qui, ma poi... sei davvero sicuro che...» gli dissi.
«Non lo so,
allora, chi fosse di preciso. Ho solo visto che tuo padre... gli carezzava un
po' il braccio, come si fa a una persona cara, a cui si è affezionati. Lo
faceva dal finestrino della macchina, e lui ogni tanto si voltava indietro,
dico il bambino, verso il parco, per vedere qualcosa o qualcuno, e poi
ritornava a guardare tuo padre, ecco.»
«Impossibile,
Denver. Mio padre torna sempre tardi non conosce nessuno e poi non è mai di
strada per il parco. Avrai visto male, ne sono sicuro.»
«Era lui, invece:
tuo padre. Mi ha anche visto, e dopo che mi ha visto ha messo subito in moto e
se ne è andato, perciò. Il bambino è ritornato nel parco, dove c'erano altre
persone. Una ragazza con i capelli corti, che lo chiamava, anche un cane
bianco, piccolo piccolo, e poi una signora anziana con gli occhiali doppi che
lo sgridava, perché forse quel bambino si era allontanato troppo e non lo
trovavano più. Per questo forse guardava sempre indietro, ecco.»
«Avrai visto male.
Mio padre non passa mai per il parco, te l’ho detto, e poi qui non conosciamo
nessuno, nessun ragazzo o bambino. A scuola mio padre non viene mai a
prenderci, per cui non ha modo di incontrare altre persone. Solo mia madre
conosce i compagni di Martine, ma nemmeno sappiamo dove si trovi questo parco
di cui mi parli, nessuno di noi. Siamo ancora nuovi, in fondo, e tu questo lo
sai benissimo!» gli dissi.
«Allora forse mi
sarò sbagliato, hai ragione tu. Mica te la sei presa?»
«Non me la sono
presa. Mi faceva solo strano, tutto qui; e poi i visi si possono confondere,
soprattutto nelle macchine, da lontano e attraverso i vetri, perciò.»
«Mi sembrava che
eri rimasto un po' male, solo questo.»
«No, non è vero.
Adesso non pensiamoci più.»
«Meglio così, hai
ragione tu» disse Denver.
Rimanemmo per un
po' sospesi, a rimuginare su quello che ci eravamo detti e in qualche modo
negati, nel giro di quei pochi minuti, o nemmeno. Denver chiuse gli occhi e
respirò al massimo l'aria pungente della villa, come se si imprimesse del tempo
e del mistero della nostra vita.
Stavamo ancora
immobili e vicini, fino a quando non arrivò la macchina con i miei genitori e
con Martine, che un po' ci scosse dal nostro torpore. Quando mia sorella ci
trovò sul verandato e si accorse di tutte le luci già accese, fece una corsa
verso noi due per abbracciarci forte. Era così contenta nel vedere tutto già
pronto e nel trovare il mio amico Denver ancora da noi, a quell’ora della sera.
Ci disse che era andata a comprare un vestito nuovo, e che poi avevano anche
fatto provviste di bibite e di tante altre cose prelibate per il buffet
dell'indomani, e che mi avevano comprato anche il regalo, ma che io non dovevo
sentire, soltanto Denver, faceva Martine, dicendo di allontanarmi, altrimenti
avrei capito e si sarebbe rovinata la sorpresa. Denver se la mise sulle
ginocchia, mentre ero già più lontano e non potevo più sentire quello che si
dicevano. Mia madre e mio padre erano carichi di buste e di pacchi, che neppure
si accorsero di me, che ritornato da solo cominciai a pensare a quello che mi
aveva detto Denver Spike, poco prima, sul verandato.
Guardai verso lo
stagno di Villa Giuditta e annegai subito quel pensiero, oltre la piccola
strettoia di candele, chiudendo per un attimo i nostri occhi.
Quel pomeriggio
del mio compleanno è rimasto indimenticabile, per motivi diversi. Ricordo ogni
particolare, ogni più piccola sfumatura: Denver era stato il primo a salire
sopra, vestito di tutto punto, con una scatola di biscotti austriaci nella mano
e un orrendo cravattino rosso e tutto storto, che staccava alla gola su di una
camicia scozzese – ma come concordato si sarebbe servito di un mio completo che
mia madre gli aveva già messo da parte. Io ero nella mia stanza a prepararmi.
Nel giardino i camerieri erano già al lavoro. L'orchestra accordava gli
strumenti e un ragazzo con una camicia rossa provava le luci sulla pedana. I
drink brillavano su di un lungo tavolo, che occupava la zona laterale del prato.
Mia madre era nella sua camera, con la porta aperta, davanti allo specchio del
comò. Si truccava con lentezza, con lo sguardo stanco. I capelli tirati su, a
svelare la sua nuca sottile, mentre i suoi gioielli in prova erano sparsi sul
ripiano davanti a lei, illuminati da una lampada fioca verdemare, che li faceva
staccare ancora di più nel loro splendore, contro la penombra del pomeriggio di
compleanno a Villa Giuditta, che anche se non ancora cominciato avanzava e ci
eclissava in una sua patina di ansia, come qualcosa di già spento e finito.
Denver era fermo
sull'uscio di quella camera, nella mia attesa. Mio padre stava appena scendendo
dall'auto. Arrivavano già i primi invitati. Ragazzi e anche qualche ragazza. Lo
zio Paul, vestito da clown, li fece accomodare, uno per uno. Mia madre aveva
difficoltà ad alzarsi la lampo del suo vestito celeste e bianco, uno dei più
eleganti che aveva scelto per l'occasione. Le si era incagliata. Io ero con
l'asciugacapelli nelle orecchie, ogni tanto mi affacciavo nella sua camera e
poi lanciavo uno sguardo dalla finestra al cancello, al prato, al giardino,
dove si assembravano, curiosi, i primi arrivati.
«Chi mi aiuta? Ho
difficoltà... oh, Denver, ti hanno lasciato da solo? Me la daresti una mano,
amore? Penso che si sia bloccata.»
Così mi raccontò
di avergli detto mia madre, molto tempo dopo, parlandogli della sua lampo,
dalla sua schiena quasi nuda, senza voltarsi. Denver era l'unico che in quel
momento poteva aiutarla, l'unico con le mani libere. Si fece avanti, con una certa
esitazione, entrando nella camera di mia madre e cercando di aiutarla a suo
modo, ma con le mani più delicate e accorte delle mie, almeno a detta della mia
sorellina Martine, quando le correggevano la pettinatura ancora meglio delle
sue compagne di classe durante l'intervallo. Mia madre era sempre di spalle,
quando si accorgeva, dallo specchio, che mentre lasciava una mano dalla lampo
liberata, con l'altra Denver afferrava un anello prezioso, rosa veneziano, che
era tra quelli che mia madre avrebbe indossato per la serata e che amava di
più. Pensava di non essere visto, Denver, e così se lo nascose nel buio di una
mano. Mia madre fece finta di niente. Continuò a farsi aiutare, con una sola
mano, ma proprio in quel momento mio padre stava salendo le scale e allora
Denver, impacciato, si conficcò l'anello stretto nel palmo nella tasca
posteriore dei pantaloni, nell'esatto istante in cui gli occhi di mio padre lo
fissarono dall'uscio – ero già dentro la camera anche io – e accorgendosi del
misfatto falciarono un istante dopo quelli severi di mia madre, che dallo
specchio lo stavano ancora bruciando e cercando, senza che il mio amico se ne
fosse accorto.
Una coincidenza
perfetta. Come i due compleanni. Come gli occhi lontani e insondabili di mia
madre, che fissarono dall'ombra dello specchio quelli cupi di mio padre e
pronunciarono quelle parole solenni, composte, come quelle di una preghiera
recitata da anni, dietro il giro di chiave di una porta ancora chiusa: «Questo
ragazzino è un ladro. Ha preso l'anello rosa e lo ha messo in tasca!»
Sentii solo le
voci e il trambusto sulle scale e uno strano odore straziante nell'aria, forse
il profumo di mia madre o del gel di Denver o chissà ancora cosa, quando Denver
negava e si abbandonava a una corsa disperata, spingendo mio padre sull'uscio e
inforcando le scale di furia, in lacrime.
«Non sono un
ladro. Non ho fatto niente, lo giuro!»
Uscii fuori e vidi
tutta la scena, in una manciata di attimi che diventarono eterni: mia madre,
che era così sicura del furto del suo anello prezioso e più amato, quello rosa
veneziano, fece ancora cenno con il capo a mio padre di bloccare il mio amico
Denver, prima che questo varcasse il cancello di Villa Giuditta e svanisse per
sempre. Mio padre, che lo aveva visto con i suoi stessi occhi chiudersi quella
mano in una tasca, cacciò la pistola dalla giacca e gli sparò addosso, quando
Denver era ancora per le scale. Lo prese in piena testa, con il primo colpo, e
poi anche alla schiena, di striscio, con il secondo.
Non so perché mio
padre quel pomeriggio si trovasse la pistola addosso. Non lo sapevo e non l'ho
mai più saputo né compreso; così come non ho mai saputo se fosse davvero mio
padre l'uomo che carezzava il braccio del bambino del parco e se avesse mai
sparato a Denver nel caso non si fossero mai visti, in quella circostanza
inspiegabile e ancora oggi misteriosa. Di solito mio padre la pistola se la
portava solo di sera tardi, in situazioni particolari, ma mai al mattino,
quando usciva presto per lavoro. Anche quella fu un'altra cosa che non mi sono
mai spiegato. Mia madre dopo gli spari lanciò un grido e si portò le due mani
al viso, coprendoselo tutto, mentre mio padre rimase paralizzato e non
pronunciò più una sola parola. Forse pensava solo di spaventarlo o di colpirlo
altrove e non in testa e sulla schiena, ma solo di striscio. Mio padre non
aveva mai sparato a nessuno nella sua vita. Fu lui a scendere le scale,
incontrando lo zio Paul, che era ancora intento a gonfiare palloncini con il
suo naso da clown, quando si trovò davanti quella chiazza di sangue nero e
ancora caldo, che si allargava sui gradini, come la cioccolata che mi versava
con premura la pallida signora Spike, durante le mie visite del pomeriggio.
Io ero sceso di
corsa, con i capelli ancora bagnati e le gambe che mi tremavano. Arrivò
l'ambulanza, chiamata subito da mio zio Paul, in tempo per prelevare il piccolo
corpo di Denver, ormai senza vita, facendosi strada tra la folla luminosa degli
invitati, che erano eleganti e atterriti, senza capire ancora cosa fosse successo,
mentre avevano da poco occupato il nostro giardino, diversi a guardare lo
stagno, altri ad ammirare gli strumenti dei musicisti sulla pedana e a chiedere
come funzionassero i tromboni e anche i flicorni, mentre Martine faceva la
smorfiosa all'ingresso con le sue treccine perfette, appena fatte a regola
d'arte da mia madre, prima che salisse a prepararsi.
Sono passati
diversi anni e ricordo tutto nei particolari di quel giorno di compleanno.
Quell'anello rubato ci fu restituito molto tempo dopo, ma mia madre non ne ha
voluto più sapere e lo ha conservato in un cassetto, senza indossarlo su nessun
dito e nemmeno sfiorarlo con lo sguardo. Da quel giorno non ho mai più visto i
genitori di Denver Spike. Ma oggi, che è il giorno del mio compleanno, diciotto
anni dopo, ho trovato il coraggio di cercare l'astuccio con dentro quell'anello
prezioso, mai più indossato, e di spedirlo di nascosto con un corriere di
fiducia di mio padre, a quello stesso indirizzo dal quale non mi risultava che
i coniugi Spike si fossero mai più spostati. Lo abbiamo inviato con un
bigliettino semplice di auguri, in un cartoncino azzurro chiaro, firmato in un
primo momento da me e da mia sorella Martine, durante la nostra prima
colazione, come facevamo un tempo e per tradizione, appena prima della nostra
successiva consegna, quando nostro padre si annodava la cravatta allo specchio
della sua camera e nostra madre era ancora a letto, con il buio ancora fuori.
Fu proprio mia
sorella Martine a dirmi di fare quella piccola e macabra sostituzione,
costringendomi a cancellare le nostre iniziali, poco prima che il pacchetto
partisse, e ad aggiungere soltanto, con una strana quanto impersonale grafia:
“Da parte di
Denver, nel giorno del tuo compleanno. Con amore.”
I due compleanni è un racconto di Luigi Salerno
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