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LISA SANTUCCI
TRA I FUMI DELLA CITTÀ
Foto di Pixabay
IL VICOLO
In un vicolo di New Portland
un uomo, armato di pistola, attende.
Indossa un cappotto di cotone
fino e caldo. Ha i capelli di un colore rosso spento, tirati indietro e un
ciuffo ribelle che si arriccia dietro l’orecchio sinistro,
Ai suoi piedi c’è il corpo
inerme di un ragazzino, immerso in una pozza di sangue.
È vestito troppo leggero per
quella sera così fredda.
Intorno a loro il fumo trasuda
dalla strada di mattoni e dai tubi di ferro sui muri.
L’odore acido dell’olio
speciale Frank, per la manutenzione dei robot, ferisce le narici dell’uomo che
ne calcia via una bottiglia. Ha in bocca una pipa squadrata, di metallo nero,
dalla forma rettangolare.
Un topo appare da dietro un
cassonetto. È giunto dalla strada principale, piena di luci e fischi di tram,
dove le poche persone ritardatarie corrono verso casa per scappare al freddo
pungente dell’inverno. Il ratto incede a tratti; si ferma e procede con brevi
scatti; finisce per incastrarsi in una pozzanghera.
L’uomo vi si avvicina. Dal
corpo del topo fuoriesce del fumo, mentre si ode un rumore stridulo di
ingranaggi. Comincia ad armeggiare su di esso con foga. La bocca e uno
degli orecchi cadono a terra.
«Destro, tu e i tuoi robot del
cazzo!» impreca l’uomo.
Improvvisamente solleva quella
macchina e la sventra con rabbia. Rotelle e bulloni si spargono a terra.
Da dentro il corpo del
congegno, l’uomo preleva un biglietto con un indirizzo.
Senza riguardo, sferra un
calcio a quel che resta del robot che finisce in mezzo ad un cumulo di altri
rifiuti meccanici.
Infine, si toglie il cappotto
e lo posa sul corpo del ragazzo, ancora riverso nel vicolo.
Egli rimane con una camicia di
seta nera, fermata da delle bretelle di colore rosso sangue, e dei pantaloni
pure neri.
«Sfortunato ragazzo,» mormora
fra sé «ti sei ritrovato davanti un assassino senza pietà e senza pietà sei
morto. Perdonami, se puoi, per averti usato come esca ed essermelo comunque
fatto scappare!»
Se ne va, poi, stringendosi le
braccia al petto, con passo veloce.
Appena girato l’angolo del
vicolo, sulla strada, adiacente al marciapiede, lo attende una piccola macchina
a vapore.
Il fumo comincia a dileguarsi
con le prime gocce della pioggia che sta per formarsi.
Un uomo, giovane e alto, con i
capelli biondo cenere scompigliati per metà, con degli occhialetti tondi,
appena lo scorge, si precipita fuori dall’auto incespicando e mormorando a
tratti:
«Ah, … Hugo, capo, … Signore!
Finalmente siete tornato! Ero convinto che quello sporco assassino vi avesse
preso! … Stavo per scendere … anzi no, … chiamare rinforzi! … »
«Mi stupisce che tu abbia
pensato alla tua macchina privata, Therence! Ero convinto di vederti con la
Mercedes!» lo interrompe bruscamente l’uomo.
«No, signore! Non lo farei mai
signore! La sua è un’investigazione fuori servizio. Ma il ragazzo?»
Di rimando, l’uomo gli è
improvvisamente addosso; gli tira un pugno, non troppo forte, sulla testa; e
gli intima, con l’espressione del viso, di fare silenzio, senza aggiungere
altro. Poi, si fa consegnare la giacca che indossa con un unico movimento
fluido. Si siede al posto del passeggero ed attende che Therence lo raggiunga.
Gli passa il bigliettino trovato nel topo meccanico di prima, il ragazzo lo
legge e poi stritola il foglio nella mano.
IL LABORATORIO
La Pics Brothers, la più
grande azienda produttrice di robot aziendali della capitale e forse dello
stato, almeno fino a trent’anni fa.
L’edificio è ora un luogo di
ritrovo di scienziati che conducono esperimenti illegali sugli automi. Per lo
più.
Il treno delle sei di mattina
fa tremare i vetri e per un attimo i tubi smettono di fumare.
Il cielo è ancora scuro mentre
i due uomini entrano nell’edificio:
«Vedo che la reception c’è
ancora!» dice divertito Therence mentre si avvicina al vecchio dietro al
bancone.
«Hugo Carter, immagino! La sua
fama la precede! Prego, da questa parte!» esclama questi con tono sbrigativo.
«Devi aver sentito le storie
peggiori, se non hai fatto domande!» dice Hugo mettendo le mani in tasca dopo
essersi sistemato i capelli umidi di pioggia.
«È un grandissimo detective!»
dichiara Therence con voce bassa e lo sguardo fisso sul vecchio.
Un attimo dopo una mano di
ferro lo afferra alla gola. I suoi occhi sgranati gli fanno apparire gli
occhiali ancora più piccoli.
«Enzo non voleva essere
scortese, lascialo!» interviene una donna con un camice bianco e il volto
circondato da riccioli neri.
Del fumo esce dalla mano del
giovane. Un attimo dopo lascia andare il vecchio, che cade a terra.
«Mi manda Destro, lo conosci?»
chiede Hugo, facendo un passo avanti.
«Quindi si fa chiamare così
adesso. Gli calza come un nervo L4K ad un bambino» dice la donna entusiasta.
«È un complimento!» aggiunge
dopo una pausa, vedendo le facce dei due uomini. «Cosa hai fatto per farlo
lavorare per te?»
«Sono qui perché potresti
sapere qualcosa sull’uomo che sto cercando: Caro, il serial killer.»
La donna, senza dire niente,
si gira e, a passo veloce, si dirige verso delle scale a chiocciola. I due la
seguono immediatamente e insieme si addentrano in un corridoio poco illuminato.
Arrivati davanti ad una porta
di metallo lucido, laccato di nero tutto si fa buio. Hugo cade a terra svenuto.
Al suo risveglio si trova in
una stanza da laboratorio. Decine di insetti e mosche robotiche stanno volando
intorno, seguendo dei precisi tracciati.
Una luce elettrica illumina
bene la stanza, senza lasciare angoli in ombra.
La donna dai capelli neri è
seduta su una sedia di pelle, le braccia piegate sui braccioli e Therence è
semi seduto sulla scrivania, con le braccia incrociate.
Il giovane, quando si accorge
che Hugo è rinvenuto, tira un leggero calcio alla sedia e la testa della donna
cade di lato:
«Non ti preoccupare, è
svenuta. Ha detto che avrebbe collaborato ma non posso certo fidarmi di lei!»
esclama all’indirizzo di Hugo.
Questi prova a parlare; ma si
accorge di non riuscire a muovere le labbra. Riesce solamente a produrre versi
grotteschi.
«È anestesia locale,
interessante vero? Non sentiresti niente neanche se ti strappassi la lingua!»
dice Therence.
Si avvicina lento e gli libera
le mani dal tubo al quale erano legate. Però, gliele lascia unite. Lo preleva
di peso e lo appoggia su di un’altra sedia vicina con i piedi e le ginocchia
anch’essi legati.
Nel movimento un po’ di saliva
scende sul mento dell’uomo e Therence la raccoglie con premura, a mani nude.
«Non pensare che ti abbia
tradito. Io ti ammiravo, tu mi hai salvato dal mio destino misero facendomi
studiare e poi sono diventato tuo partner. Però, … non dovevi uccidere mio
fratello!» esclama.
Il volto di Hugo si contorce
per la sorpresa e altri versi escono dalle sue labbra.
Il ragazzo si siede a
cavalcioni su di lui, estrae la sua pistola e inizia a giocarci.
«Eravamo dello stesso
orfanotrofio! Forse, così, è più chiaro! Io ho sempre creduto in te. Ho
accettato tutte le persone che hai ucciso, sfruttato e sacrificato per la tua
giustizia … Ti ho sempre giustificato. Ma Caro ti ha fatto impazzire del tutto,
hai mollato il lavoro, lasciandomi indietro e quando ho deciso di aiutarti lo
stesso non mi hai degnato di una parola.»
Lo sguardo di Hugo è furente,
cerca di far alzare il ragazzo dalle sue gambe, di muoversi; ma senza successo.
Therence, allora, si avvicina
di più e, tenendogli la bocca aperta con la pistola, infila la lingua, facendo
un pasticcio di saliva.
In quel momento, la porta si
apre e un uomo dai capelli lunghi fin oltre le spalle, chiusi in una coda
ordinata, dal quale scappano solo poche ciocche sulla destra, entra con passo
leggero. Ha un cappotto simile a quello di Hugo, di colore blu notte, camicia
bianca e gilet nero, un ciondolo dorato al collo e una sigaretta in bocca. I
suoi occhi sono neri.
«Destro? Ben arrivato!» saluta
il ragazzo alzandosi e pulendosi la bocca.
«Uoooha?» Riesce ad articolare
Hugo. L’effetto dell’anestesia sta cominciando a sparire. «Era ovvio che foste
in contatto! Neanche te potevi trovare un indizio in così poco tempo»
proferisce, indicando la donna. Poi aggiunge:
«Sai, mi sono sempre chiesto
chi fosse questo tipo nel quale riponi tutta la tua fiducia. Sapevo anche che
saresti venuto lo stesso prima o poi, perché tu ci stavi seguendo vero? Lo hai
sempre fatto. Quei tuoi giocattoli non sono così avanzati da poter compiere
grandi distanze in autonomia.»
Fa un passo avanti, alza la
pistola e chiede:
«Tu sai chi è stato ad
uccidere mio fratello?».
L’uomo si prende un momento e
poi alza il braccio ad indicare Hugo.
«Lo so. Lo ha sacrificato. Io
voglio sapere chi è Caro!»
«Ma Hugo! In realtà la sua
mente è sempre stata un po’ debole e malata, ha una doppia personalità, nata a
causa delle botte che ci dava nostro padre, vero?»
A quelle parole cala il
silenzio. Poi entrambi esclamano:
«Cosa stai dicendo! Lui è tuo
fratello!»
Destro si mette a ridere
dicendo:
«Scherzetto!»
Poi, ritorna serio e dice:
«In verità siamo mille anni
nel futuro rispetto ad adesso, questo è solo un gioco, a cui tutte le persone
annoiate possono partecipare. La memoria viene temporaneamente sostituita per
permettere un realismo migliore. Io sono l’amministratore e voi delle persone
annoiate. Abbiamo già avuto questa conversazione sapete? E per la cronaca le
persone morte sono opera tua Therence, sono il risultato delle tue partite
precedenti. Sei un giocatore assiduo, eh?»
«Io non ti credo! Si può
sapere che cazzate stai dicendo?»
Hugo si alza in piedi con
impeto, ma subito cade a terra, si dimena, urla.
Therence decide di liberarlo,
mettendo bene in chiaro che è lui quello armato, puntandogli la canna addosso
come minaccia.
Hugo però lo nota a malapena,
si alza e si rivolge al fratello:
«Pensavo fossi scomparso,
ucciso da Caro, per questo ti ho cercato tutto questo tempo… Ma tu, non sei
nessuno per me?»
Il fratello si avvicina e gli
tira un pugno tanto forte da farlo cadere a terra
«Scherzavo di nuovo» dice
senza emozione stavolta. «Tu, mio caro Hugo, sei un robot costruito da me per
il mio divertimento e per farti prendere la colpa se mai ci fosse il rischio di
venire scoperto per gli omicidi.»
Si abbassa in ginocchio e gli
accarezza una guancia.
«Però mi sono affezionato a
te, quindi che ne dici di dare la colpa a questo sciocco e andare via?»
Un colpo di pistola ferisce
Destro alla gamba, facendolo cadere indietro.
«Oscar!» urla Hugo, senza però
muovere un muscolo. «Se non ci credi… Aprilo. E controlla» dice al ragazzo.
«Non mi interessa adesso. Sei
davvero tu l’assassino che si fa chiamare Caro?» chiede, minacciandolo con la
pistola.
«Forse. O forse è solo la
scelta più facile per te. Ti avrò detto la verità?»
Tre, quattro, cinque colpi di
pistola al petto affogano la verità nel sangue, forse. Non è sicuro nemmeno di
questo. Sa però che era il fratello di Hugo e che adesso anche lui prova il suo
stesso dolore.
Hugo non si è mosso per tutto
il tempo. È ancora a terra, la guancia dolorante, le scarpe e i pantaloni
sporchi della macchia di sangue che si sta allargando sul pavimento. Si guarda
intorno come per vedere se cambia qualcosa, sperando di svegliarsi.
Therence si avvicina, la mano
tesa che solleva il suo peso.
«Mi spiace. Davvero. Ma fin
dall’inizio io… volevo uccidere Destro».
Hugo gli sfila la pistola; e
in un attimo pezzi di cervello sono sul pavimento.
Prende gli occhiali ancora
intatti e li indossa, sono leggermente larghi.
Si avvicina al fratello e
prende il porta sigarette di ferro dalla tasca, lo svuota e ci mette i fiammiferi
rimasti dopo aver acceso la sua pipa.
Esce, ormai è giorno. Gli
ultimi scienziati nel palazzo si affrettano a prendere il treno per raggiungere
il loro lavoro diurno. Le persone intorno a lui camminano frenetiche, mentre il
fumo della città nasconde le macchie di sangue sul cappotto.
Sul giornale l’articolo su
quel ragazzo del vicolo:
“Caro il killer compisce
ancora” è il titolo.
Tra i fiumi della città è un racconto di Lisa Santucci
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