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LORETA SALVATORE
foto di pixabay
1.La porta grigia
La porta grigia
sbiadita dal tempo, sporca di tele di ragni, dal ferro pesante, batte a tempo
seguendo un ritmo secco e schioccante.
Voci di donne e
lamenti quasi indistinti si stagliano nel lungo corridoio, squallido, gelido,
deserto, dove nessuna ombra può sopravvivere a sé stessa.
Maira, con i suoi
francesismi riadattati all’uso della lingua corrente, emette latrati e rabbia,
perché non ne può più di subire prepotenze e violenze, nella cella cupa
costretta dalle sbarre arrugginite.
Sembra un animale
impazzito che furiosamente striscia gli zoccoli a terra ed invoca
aiuto. Il corpo disfatto e disorganicamente scomposto si delinea come una
figura senza contorni.
«Vendicherò la
violenza scritta sulla mia carne e le botte» dice ad alta voce con tono
rauco. «Voglio vivere, ancora» sussurra a sé stessa «non voglio morire in
questa tomba stomachevole.»
Maira sa bene che
non può sperare, se non di una speranza fragile.
«Morirò qui!»
aggiunge consapevole. «Nessuno verrà a discolparmi!»
Le donne in coro
la canzonano gridando dalle celle:
«Mairà, Mairà, a
morì cà!»
Intanto, scorrono
le ore inesorabili, piatte, sempre uguali, come un filo di perle annerite. Il
tempo ha sporcato ogni cosa, perfino la memoria che non emerge più.
Prova ad elencare
gli eventi, seguendo una causa ed un effetto, ma non sa riorganizzare il tutto,
ritorna a farlo; e lo disfa nuovamente come una costruzione di sabbia.
Le congetture, si
sa, sono pensieri labili che sembrano reali.
La scena si
presenta sempre allo stesso modo: pochi dettagli ancora a restare nitidi ed a
stagliarsi netti. Non esiste più la verità. Sembianze, puri riflessi, appannati
graffi di ricordi che sporcano quei vetri, mentre piove. Gocce che rigano il
volto, le mani aperte verso la pioggia e le braccia che sembrano crocifisse al
cielo.
“Ero una donna!”
pensa ossessivamente. “O forse no! Credevo di esserlo!”
Il monologo
ossessivo e petulante l’opprime senza possibilità di scampo.
Il buio ingoia
tutto; e lo dissolve in uno scenario indistinto.
°°°°°
Lei non era corpo.
Era un’anima avvinta dal dolore e vagava oltre ogni Inferno, alla ricerca
del perduto. Era un’identità macchiata dal dubbio e dall'errore, dal male che
inquina e pone a soqquadro.
Era stata in preda
alla morte che schiaccia la vita e la riduce a brandelli senza cuori, dilaniando
il puro.
Non so se qualcuno
ha mai conosciuto il dolore per qualcosa mai commesso e nello scontare una pena
per qualcosa che non si conosce.
Quando tutto era
vita, le sembrava che le cose fossero facili.
°°°°°
Un lungo monologo interiore percorre il silenzio della donna. Chi è, in fondo, se non una come tante: un rifiuto umano!
Un lungo monologo interiore percorre il silenzio della donna. Chi è, in fondo, se non una come tante: un rifiuto umano!
°°°°°
In realtà, lei non ricordava con precisione i fatti. E come avrebbe potuto ricostruirli se nessun particolare riemergeva in superficie? Scontava una pena prima ancora di sapere e, nella sospensione dei fatti, ora elargiva pause, lunghe pause che non sarebbero giovate a nulla.
In realtà, lei non ricordava con precisione i fatti. E come avrebbe potuto ricostruirli se nessun particolare riemergeva in superficie? Scontava una pena prima ancora di sapere e, nella sospensione dei fatti, ora elargiva pause, lunghe pause che non sarebbero giovate a nulla.
Ormai avrebbe
dovuto scontare la condanna.
“Patirò il tempo,
le ore” disse a sé stessa con rassegnazione.
Il carcere era un
luogo freddo e sporco, dove non era possibile vivere con dignità e l’Inferno
veniva scontato sulla terra, secondo regole e norme inumane.
La secondina urlò
il suo nome. Avrebbe abusato di lei come sempre e nessuno si sarebbe accorto di
nulla.
Prese a picchiare
con una sbarra di ferro vicino al muro per farsi notare, ma lei non volle
ascoltare.
°°°°°
Il letto cigola, stridulo, come una catena di ferro spezzata.
Il letto cigola, stridulo, come una catena di ferro spezzata.
°°°°°
Era stata schiava nella baraccopoli poco distante dal centro, in un campo dimenticato da Dio e dagli uomini. Lì solo l’inumano abitava il terreno e non c’era scampo per l’animale braccato. Costretta a spezzarsi la schiena, a raccogliere tabacco tutto il giorno, era sotto la cinghia della caporalessa Bhekisisa, una senegalese che aveva fatto il patto col diavolo. Le narici grandi fumanti la facevano sembrare come un bisonte impazzito e feroce.
Era stata schiava nella baraccopoli poco distante dal centro, in un campo dimenticato da Dio e dagli uomini. Lì solo l’inumano abitava il terreno e non c’era scampo per l’animale braccato. Costretta a spezzarsi la schiena, a raccogliere tabacco tutto il giorno, era sotto la cinghia della caporalessa Bhekisisa, una senegalese che aveva fatto il patto col diavolo. Le narici grandi fumanti la facevano sembrare come un bisonte impazzito e feroce.
Questo fino a
quando si ribellò alla schiavitù e scappò via senza sapere dove andare, in
cerca di salvezza.
Non aveva le
scarpe ed a piedi nudi e sanguinanti aveva percorso di notte l’asse mediano.
Nessuno si era
accorto di lei tranne qualche prostituta giovane che si attardava per aspettare
qualche cliente ritardatario.
Il buio nella
tarda notte ingoiava tutto e persino il mare che poco distante rumoreggiava
d’inverno ed assaltava la costa spoglia e devastata dall’abusivismo edilizio.
Come altre donne, una tratta inumana l’ha portata fin qui, sradicandola dalle sue origini croate.
Un tempo ha ucciso
la donna che la teneva prigioniera in una cella: aveva fatto di lei una schiava
da sottomettere a piacimento.
Ora le era negata
ogni libertà ed il diritto a vivere le sembrava ormai un pensiero lontano ed
irrealizzabile. La morte stessa diventava un pensiero che la confortava delle
atrocità subite.
Un lampo di morte
e l’avrebbe fatta finita anziché scontare la pena dell’ergastolo. In quella
prigione non c’era nulla di educativo, solo violenza, e metodi di forza che avvilivano
ogni reattività fino a fiaccare la resistenza, spegnendo a poco a poco la
bellezza del vivere o ravvivando la presenza del male.
Tutto era
vanificato ed al tempo stesso inutile, insignificante.
Impercettibile come
è un romanzo di Loreta Salvatore
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