Gualtiero e la nebbia

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NICOLE PALERMO
GUALTIERO E LA NEBBIA


Foto di Pixabay

I piccoli paesi sono realtà così minuscole che qualsiasi cosa tu faccia ti ritrovi a sbattere contro qualcuno.
Sono strette le strade, piccoli gli edifici e talvolta anche le menti di chi le abita. Non si può dire sia colpa loro, perché la verità è che alcune persone sono come pesci rossi: un pesce rosso, si sa, cresce in relazione allo spazio che lo circonda e, se lo si mette in una piccola ampolla, non diventerà mai più grande di mezzo palmo di mano; se gli si dà, invece, un intero acquario a disposizione, sembrerà di avere uno squalo in miniatura che si aggira nel salotto.
Nel nostro paesino che in realtà non appartiene a nessuno se non a questo racconto, ai suoi personaggi, ai lettori e a queste pagine- vivevano tanti pesci rossi che si travestivano da persone ma che, per quanto si sforzassero di agire come squali, restavano sempre e comunque innocui pesciolini relegati in un acquario troppo piccolo.
Eppure, tra questi pesciolini c’erano veri e propri esseri umani, che all’apparenza erano come tutti gli altri ma che, se li guardavi bene, notavi che non avevano le branchie. Questi esseri umani non avrebbero mai potuto essere semplici pesci rossi perché avevano l’abilità di diventare dei giganti anche se rinchiusi negli spazi più piccoli che si possano immaginare. Il perché era semplice: a crescere erano le loro menti e i loro cuori, più delle loro gambe e delle loro braccia.
Le persone così sono rare, diceva Gualtiero e, ogni volta che ne incontrava una, aggiungeva una tacca alla sua cintura, così, giusto per non perdere il conto, spiegava.
Ma aveva settantasei anni il giorno in cui morì, Gualtiero, e solo quattro fori sulla cintura.
I piccoli paesi sono realtà così minuscole che impari a conoscere ogni centimetro di cielo che li sormonta. Alessandro, però, sapeva bene che, se fossi stato attento, avresti potuto scoprire ogni giorno un nuovo colore che non era mai esistito, o un nuovo grigio se scattavi in bianco e nero.
Così, esisteva un solo cielo per i pesciolini rossi ed era blu come l’acqua nella quale nuotavano, ma c’erano almeno quattro o cinque cieli al giorno per Alessandro, e Gualtiero li aveva visti tutti nelle sue fotografie.
«Dove l’hai trovato questo cielo?» Gli chiese un giorno guardando uno degli scatti del ragazzo.
«Nel mio sguardo»
Da quel giorno Alessandro divenne un foro sulla sua cintura e un suo allievo.
Gualtiero non era un insegnante di fotografia tradizionale, anzi, non era proprio un insegnante visto che non era neanche un fotografo. Infatti, per tutta la vita, non aveva fatto altro che fotografare una cosa e una soltanto: la nebbia.
Tutte le sue fotografie, difatti, non erano altro che pellicole bianche, identiche le une alle altre, almeno all’apparenza.
Voltandole, però, si notava che una calligrafia troppo delicata per essere quella di un uomo, distinta e raffinata, scriveva i soggetti che di volta in volta il vecchio aveva fotografato nella nebbia.
Così, per ogni fotografia bianca c’era dietro una scritta che diceva: un cane, una casa, un uomo, un albero e così via.
Ogni volta che Alessandro prendeva una foto di Gualtiero la osservava attentamente e ogni volta ci vedeva il bianco, che non era mai lo stesso, visto che quelle fotografie non erano tutte uguali: quel vecchio strambo era veramente in grado di paralizzare la nebbia e imprigionarla sulla pellicola, con le sue diverse increspature di grigi, con la sua opacità bianca e la sua polpa di vapore denso.
Alessandro usciva quasi ogni giorno con la sua Zenit a fotografare il mondo e Gualtiero andava con lui, ma solo quando c’era la nebbia. E più andavano insieme nella nebbia, più il ragazzo imparava ad avere fiducia negli scatti del vecchio, divenendo pian piano sempre più sensibile alle immagini nascoste nella bianca coltre di vapore acqueo e così, con le fotografie del suo maestro strette nella mano, imparò a vedere: il bianco era sempre bianco, ma una volta lette le parole sul retro, tornando a guardare l’immagine, questa si trasformava, lo sguardo del vecchio prendeva forma davanti ai suoi occhi e la nebbia diventava un cane, una casa, un uomo, un albero e così via.
Alessandro aveva sempre fotografato i paesaggi e quasi mai le persone, perché non amava i ritratti. O almeno, non aveva mai fotografato persone prima di una particolare giornata che era iniziata come tutte le altre, in modo banale, così come iniziano tutte le cose che succedono per davvero; una particolare giornata che avrebbe tanto voluto raccontare a Gualtiero.
Ma aveva settantasei anni il giorno in cui morì, Gualtiero, e solo quattro fori sulla cintura, e Alessandro quella giornata non riuscì a raccontargliela mai. Così, non seppe mai che, ormai, il suo allievo fotografava solo persone, da lontano o da vicino, di profilo o di fronte, a colori o in bianco e nero.
Era il primo segreto che Alessandro aveva con il suo maestro e, se questo non fosse morto, anche questo segreto non sarebbe mai esistito.
Ma la sorte, evidentemente, aveva deciso che il ragazzo e il vecchio dovessero essere pari, un segreto per uno.
«Chi sono le altre tacche sulla tua cintura?» Tante volte gli aveva fatto questa domanda e tante volte Gualtiero non aveva risposto.
Con il tempo, però, impari a conoscere le persone che ti circondano, soprattutto se ti ci scambi gli occhi come facevano spesso quei due passandosi macchine fotografiche e pellicole sviluppate.
Così, Alessandro aveva scoperto che due delle tacche su quella cintura erano la nipote e la moglie di Gualtiero, entrambe morte da diversi anni.
I piccoli paesi sono realtà così minuscole che capita di conoscere più o meno tutte le persone che li abitano, eppure, quando Alessandro vide Nicole per strada, quel giorno, gli sembrò di non conoscerla, di non averla mai vista prima. Era questo l’inizio del segreto con il quale conviveva ormai da mesi.
I dettagli di quella giornata erano confusi nella sua mente, non ricordava bene cosa fosse successo, cosa si fossero detti lui e quella ragazza. Ricordava solo quel momento in cui non l’aveva riconosciuta per strada e quella strana sensazione come di scoperta di qualcosa di nuovo.
Ricordava la mano fredda di Nicole stretta nella sua e un profumo che non aveva mai sentito ma che gli faceva venire in mente tanti ricordi, che sicuramente non aveva mai vissuto.
Ricordava di averle fatto qualche complimento, anche se non sapeva più quale, e che lei era arrossita in un modo in cui le ragazze non fanno più, come se le facesse piacere sul serio, come se non credesse che le sue parole potessero essere vere.
Ricordava che gli piaceva il fatto che a lei non importasse di essere bella e ancora di più gli era piaciuto spogliarla mentre lei gli posava le labbra umide sul collo.
C’era un senso di intimità surreale nel baciare quella ragazza che altro non era che un’estranea, un’intimità tale in quell’abbraccio che era come ritrovarsi solo con sé stesso, non per il senso di solitudine quanto per quello di appartenenza.
Nudi, senza più la barriera dei vistiti tra di loro, si strinsero e si ritrovarono a combaciare alla perfezione come tessere di un puzzle e, in un attimo, si ritrovarono in quella zona del sesso in cui non servono più le parole e gli unici suoni dell’aria sono gemiti e sussurri.
Dal momento in cui l’aveva vista aveva voluto stringerla in quel modo, come a proteggerla da pericoli che neanche lui poteva vedere, ma che sentiva esserci.
Con i suoi seni nudi tra i denti aveva la strana sensazione di conoscerla da sempre e l’urgenza di averla nuda sotto di lui, non solo per il sesso.
Lei si strinse contro il suo corpo caldo che la faceva sentire avvolta e, mentre lui l’accarezzava, sentiva i brividi di freddo trasformarsi in fremiti di piacere. Non riusciva a frenare il suo corpo che, attraversato da impulsi di godimento, sudava, fremeva e si bagnava ansioso di averne sempre di più.
Tra quelle lenzuola sconosciute non sentiva di aver paura, non era confusa e non voleva altro che quello che stava avendo, non si preoccupava di non essere perfetta, non si vergognava di essere nuda, non nascondeva l’eccitazione e non tratteneva il piacere, che usciva libero dalle sue mani ormai calde, dalle sue cosce umide, dalla sua bocca ansimante.
Si incastrarono l’un altro con una perfezione che li illuse per intere ore, come illusi erano stati dai loro volti sconosciuti, convinti di fare sesso e ritrovandosi a fare l’amore.
Nessuno dei due aveva mai goduto in quel modo, non in quantità, ma in modalità e intimità: avevano fatto sesso con tutto il loro corpo, ma anche con la voce, con le parole e con gli sguardi.
I loro respiri erano aumentati insieme e la stanza si era fatta meno silenziosa nel momento in cui avevano raggiunto l’orgasmo, gemendo all’unisono con una precisione rara e surreale, come se fosse esistito un solo godimento tra quelle lenzuola umide e l’avessero condiviso tra i loro corpi sudati, senza farlo a metà, ma vivendolo completamente e interamente, insieme.
Quando lui stava per raggiungere l’apice del godimento abbassò lo sguardo sul viso di lei, si fermò nei suoi occhi color nocciola e, osservandosi così, si passarono la cosa più intima che si possa condividere: il piacere.
Nessuno dei due ricordava le parole del dopo, i gesti o i convenevoli che in questi casi sembrano necessari, ma non lo sono mai.
Si salutarono silenziosamente per rincontrarsi solo tre mesi più tardi quando, incrociatisi casualmente per strada, Alessandro la osservò attentamente e si accorse che Nicole non era completa: aveva come un vuoto all’altezza dell’ombelico, come uno spazio fatto di aria al posto del ventre.
Avrebbe voluto raccontare tutto a Gualtiero, chiedere di quel vuoto, chiedere cosa significasse, chiedere se anche lui potesse vederlo.
Ma aveva settantasei anni il giorno in cui morì, Gualtiero, e solo quattro fori sulla cintura, e quel vuoto non avrebbe potuto mai vederlo.
I piccoli paesi sono realtà così minuscole che Alessandro e Nicole continuarono a vedersi ogni giorno, senza mai volerlo, senza pianificarlo, ma essendone sempre felici, senza motivo, perché è questa l’essenza della felicità.
Alessandro, da allora, continuava a fotografare persone, da lontano o da vicino, di profilo o di fronte, a colori o in bianco e nero. I paesaggi lo aspettavano ogni giorno, ma lui continuava a cercare persone, persone nuove, persone diverse.
Il tempo passava e lui pensava a Gualtiero, ma solo nei giorni di nebbia.
«Perché dietro gli scatti ci scrivi quello che hai fotografato?» Gli aveva chiesto un giorno.
«Era la mia dolce ragazza a farlo per me. Alcuni giorni passavo così tante ore nella nebbia che questa mi si annidava sotto le palpebre e quasi non vedevo più niente. Non riconoscevo neanche più quello che aveva fotografato. Allora lei prendeva le foto e ce lo scriveva dietro, così mi aiutava a vedere. Senza di lei, ora, è molto più difficile.»
«Lei riusciva a vedere cosa fotografavi?»
«Cosa credi sia l’amore? È lei che mi ha insegnato a guardare con i miei occhi.» Ogni volta che Gualtiero parlava di sua moglie diceva che ormai non andava più di moda amare in quel modo e Alessandro era d’accordo.
Gli mancava quel vecchio, la sua stupida nebbia, le sue foto bianche e tutti quegli insegnamenti non richiesti.
«Chi è la quarta tacca sulla tua cintura?»
«Domani te lo dico.»
Ma aveva settantasei anni il giorno in cui morì, Gualtiero, e solo quattro fori sulla cintura, e quel domani non arrivò mai.
Così aveva deciso la vita, un segreto per uno.
«Perché hai iniziato a fotografare le persone?» Gli avrebbe chiesto se quel domani fosse esistito.
Ma aveva settantasei anni il giorno in cui morì, Gualtiero, e solo quattro fori sulla cintura, e una risposta non l’avrebbe mai avuta, perché quella domanda non l’avrebbe mai fatta.
I piccoli paesi sono realtà così minuscole che se non stai attento impazzisci, e Alessandro stava impazzendo, non si dava pace e voleva fotografare tutte le persone che vedeva.
Nicole lo guardava quando si incontravano per strada e lo vedeva, sempre, anche dietro la nebbia di Gualtiero.
«Perché stai impazzendo?» Gli chiese un giorno.
«Per te.» Alessandro rispose senza guardarla in volto. Le fissò la pancia e vide attraverso, vide quello che c’era dietro di lei.
Lei capì: «Riesci a vederlo?»
«Cosa?»
«Quello che non c’è più.»
«E cosa c’era?»
«Un battito.» Rispondendo Nicole sorrise e pianse insieme e Alessandro volle abbracciarla, perché sapeva che quelle lacrime erano per lei e il sorriso per lui. Ma non sapeva come abbracciare quel vuoto, così non lo fece e lei andò via.
Il sole si stava ritirando e, mentre i colori del tramonto lo supplicavano di essere catturati, Alessandro fotografò due signori che bevevano un caffè e una ragazza che passeggiava col cane.
Aveva riempito due rullini quel giorno e, andando verso la camera oscura che avevano allestito lui e Gualtiero, sperò di ritrovarselo dietro la porta. Se c’era o no non l’avrebbe saputo, perché la porta era chiusa. Provò a cercare la chiave nelle tasche dei jeans e del cappotto, ma non le trovò, così tornò a casa.
I piccoli paesi sono realtà così minuscole che la tua immaginazione si esercita ad andare dappertutto, eppure, Alessandro e Nicole rimasero stupiti da quel che successe quel pomeriggio.
Una volta a casa il ragazzo trovò, sul suo letto, una piccola scatola con su scritto Per Alessandro e Nicol (proprio così, senza la “e” finale). Riconobbe la grafia di Gualtiero immediatamente e, quando aprì il pacchetto, ne ebbe la conferma: c’era un foglietto nella scatola con su scritto Non ha bisogno di altro se non di esser vista e, sotto il biglietto, una fotografia bianca, rigorosamente bianca. Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso. Riusciva a vedere qualcosa in tutto quel bianco, una sagoma. Più osservava la foto, più l’immagine nella nebbia diventava chiara. Appena la figura divenne nitida davanti ai suoi occhi, non riuscì a crederci: era Nicole. La figura nella nebbia era Nicole.
Per la prima volta era riuscito a vedere l’immagine dietro la nebbia senza dover leggere prima le parole sul retro della foto e questa immagine era proprio lei. Come era possibile?
Credeva fosse il suo segreto. Quel che era accaduto era successo dopo la morte di Gualtiero. Eppure, era evidente che non ci fosse nessun segreto, la foto parlava chiaro.
Girandola lesse le parole scritte dalla mano del vecchio e capì che, in un modo o nell’altro, lui era ancora lì.
C’era scritto: la quarta tacca.
Di nuovo pari, nessun segreto tra di loro. Alessandro sorrise e corse fuori a cercarla.
Anche Nicole aveva ricevuto una sorpresa quel pomeriggio, una scatolina lasciata nel locale dove lavorava con su scritto Per Alessandro e Nicol (proprio così, senza la “e” finale). Pensò che a scriverlo dovesse essere stato qualche anziano signore che ignorava come si scrivesse il suo nome.
«Sì, è arrivata oggi per posta. L’ha mandata quel signore che veniva sempre la domenica a pranzo e che è da un po’ che non vedo...chissà che fine ha fatto...» Disse una delle cuoche.
Nel pacchetto c’erano una chiave, un foglietto e un indirizzo.
Uscita dal lavoro, con le gambe stanche e l’odore di cucinato che gli impregnava i vestiti, Nicole strinse la chiave nella mano e andò all’indirizzo indicato dal foglietto.
La chiave aprì una porta e la porta aprì una stanza: una camera oscura.
Nicole non ne aveva mai vista una dal vivo e ne rimase estasiata. Non per l’estetica delle quattro mura, ma per la poesia che rappresentavano: erano l’essenza stessa dell’attesa, l’attesa di rivedere qualcosa che i nostri occhi hanno già visto, ma per un istante soltanto; o l’attesa di vedere qualcosa che hanno visto sguardi altrui e che la pellicola ci permette di sbirciare, come se il fotografo ci desse in prestito i suoi occhi.
Ma i suoi pensieri vennero presto interrotti da altro, quando vide una serie di fotografie che attraversavano tutta la stanza, appese ad un filo teso che andava da una parete a quella opposta.
C’erano decine e decine di foto di persone, da lontano o da vicino, di profilo o di fronte, a colori o in bianco e nero. Persone senza volto e senza identità che erano state ritratte dal torace in giù e dalle ginocchia in su, all’altezza dell’ombelico, della pancia, dello stomaco, del suo vuoto.
Sapeva esattamente chi aveva scattato quelle foto: era come se Alessandro cercasse nel mondo qualcosa per riempirle quel vuoto, un modo per aiutarla.
Insieme a questa consapevolezza arrivarono le lacrime a riempirle gli occhi, mentre si stringeva in un abbraccio solitario e le mani si ritrovavano ad afferrare l’aria che aveva ora al posto del ventre e di quel breve battito estraneo che lo aveva abitato. Per la prima volta dopo tanto tempo si sentì nuovamente completa, riempita non da quelle fotografie, ma da ciò che le aveva prodotte. Si sentì riempita da quel gesto non richiesto e inaspettato.
Finalmente capì le parole scritte sul bigliettino trovato insieme alla chiave: vai dove scoprirai che non sei sola.
I piccoli paesi sono realtà così minuscole che la routine è spesso l’unica scelta che tu possa compiere, e Alessandro e Nicole tornarono presto alla loro vita, senza incontrarsi più se non per caso, continuando ad essere estranei che si appartengono, condividendo una storia e un segreto.
Lui tornò a fotografare i paesaggi e a scoprire nuovi colori e lei ad essere completa con la sua vita e i suoi spazi vuoti.
Eppure, la loro breve storia è in un certo senso eterna, perché quello stesso giorno, dopo le sorprese ricevute, si incontrarono e venne la nebbia. Proprio così: restarono ad osservarsi immobili, da lontano, senza parlarsi, e scese la nebbia.
Era così fitta che nessuno sa se riuscissero a vedersi.
Era così fitta che Gualtiero li avrebbe fotografati, proprio in quel modo, uno di fronte all’altro, immobili, distanti, nella nebbia e, sul retro della foto bianca, una calligrafia troppo delicata per essere quella di un uomo, distinta e raffinata, avrebbe scritto: un amore.

Gualtiero e la nebbia è un racconto di Nicole Palermo

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