Razzismi di provincia

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 ROSAMARIA CAMPITELLI
RAZZISMI DI PROVINCIA

                       foto pixabay

Cap. 1

Introduzione

Vivo fin dalla nascita in una piccola cittadina del sud Italia.
Uso il termine cittadina nella sua accezione più comune e colloquiale (specialmente usata dalle mie parti) con la quale ci si riferisce ad un centro abitato inteso come una specie di via di mezzo tra paese e città.
Il luogo dove vivo, infatti, non può essere chiamato “paese”, perché tanto piccolo non è, ma nemmeno “città”, essendo solo un centro di provincia molto più ristretto rispetto al suo capoluogo.
In compenso c’è il mare, il che significa che d’estate la popolazione quasi raddoppia, sia per l’arrivo di numerosi turisti, sia per gli emigrati, che tornano nei loro luoghi natii portando con sé figli e nipoti, e sia per gli abitanti delle zone interne che vengono ad apprezzare il nostro ancora tranquillo e pulito litorale e ad immergersi nelle acque, per il momento ancora cristalline, del nostro grande amico blu: il mare.
“L’amico blu”, così lo chiamavamo noi ragazzi degli anni ’80.
Ah, i mitici anni ’80! Orrendi per la moda, devo ammetterlo, ma speciali ed indimenticabili per la musica e per tante altre cose! Ma forse io sono di parte essendo gli anni in cui la mia generazione ha vissuto l’adolescenza.
Una generazione la mia che oserei dire completa, in quanto si è trovata a vivere tutte le esperienze evolutive del mondo contemporaneo e quindi, secondo il mio punto di vista, può essere definita “di transizione”.
Di transizione perché è l’unica generazione che ha avuto la fortuna (o la sfortuna? Dipende dai punti di vista!) di assistere a dei cambiamenti a dir poco epocali della vita quotidiana.
Noi siamo quelli che siamo dovuti passare dalla penna e macchine per scrivere ai personal computers, dalle cabine telefoniche disseminate per le strade e dal telefono di casa grigio e a disco, ai telefonini di ultima generazione, i cosiddetti smartphones.
Siamo anche quelli che hanno visto la nascita di internet ed il suo diffondersi in maniera tanto capillare ed incisiva nella vita di tutti i giorni, tanto da diventarne un insostituibile strumento e supporto.
Questo solo per citare alcuni di tali importanti cambiamenti, che oserei definire addirittura delle vere e proprie “rivoluzioni” nella quotidianità.
Siamo stati, inoltre, testimoni involontari nientemeno che di un cambio di moneta: del passaggio cioè dalla lira all’euro.
Cosa di cui io personalmente avrei fatto volentieri a meno, ma questa è solo una mia, seppur del tutto irrilevante, opinione personale.
Si può obiettare che anche le altre generazioni (quella dei nostri genitori e dei nostri figli, per intenderci) hanno visto tutti questi cambiamenti; certamente, però secondo me noi siamo stati la “generazione di mezzo”, quella che li ha vissuti a pieno e che si è dovuta adeguare per forza, per restare al passo e competitiva nella vita lavorativa e non. Abbiamo praticamente fatto da ponte.
Mi spiego meglio. La generazione prima di noi, i nostri genitori, hanno vissuto la maggior parte della loro vita senza tutta la tecnologia che c’è adesso e mai si sono abituati ad utilizzarla pienamente, non avendone avuto il bisogno quotidiano e lavorativo impellente.
Loro guardano a tutto questo progresso increduli e sospettosi, non capendone chiaramente il funzionamento e le potenzialità, tant’è che internet lo chiamano il “pettegolo”, perché vedono che ogni cosa che vogliamo sapere basta chiederlo a google, su “internèt”, così come lo pronunciano loro, con l’accento ben calcato sull’ultima sillaba.
I nostri predecessori si meravigliano increduli davanti a cose per noi normali, come ad esempio prelevare ad uno sportello bancomat.
Pensate che una mia zia, una volta che è venuta con me al bancomat, credeva che quella fosse una macchina che “sputava soldi”, bastava solo inserire una tessera ed il gioco era fatto, tant’è che mi ha anche chiesto:
“Ma non li puoi prendere pure per me un po’ di soldi?” …. che ridere! E io a spiegarle che per darti i soldi devi averli prima messi su un conto corrente, sennò col cavolo che la macchinetta te li dà, mica li regala a piacimento!
Coi telefonini e specialmente con i computer i nostri predecessori hanno un rapporto pessimo e di incomprensione.
Per non parlare poi dei prezzi che citano ancora tranquillamente in lire come cifre, ma in euro come moneta, così poi sparano dei prezzi elevatissimi in maniera del tutto arbitraria, tipo un’auto che finisce per costare venti milioni di euro! Che spasso!
La generazione dei nostri figli, invece, è nata che c’era già tutto questo: per loro è normale tutta questa tecnologia ed è normale l’euro, dato che lo hanno trovato qui fin dalla nascita!
Se ad un bambino, per esempio, viene raccontata una storia di una persona che non riusciva a comunicare qualcosa a qualcuno che si trovava lontano o comunque fuori casa, ti senti rispondere tranquillamente: “Ma non lo poteva chiamare al cellulare? Bastava pure un semplice sms o messaggio su whatsapp, no?! Oppure glielo poteva dire via facebook con messenger!” …. per loro è impensabile vivere senza tutte queste cose!
A proposito di facebook, può capitare facilmente di sentire le persone di una certa età chiamarlo tranquillamente “Innsbruck” …. oppure, ancora più eliso, semplicemente “’sbruk”.
Noi ragazzi degli anni ’80, invece, non avevamo tutto questo. Comunicavamo coi telefoni fissi di casa ed avevamo i cosiddetti “amici di penna”, cioè quelli con i quali ci si scambiava fiumi di lettere perché lontani.
Non esistevano i social networks, skype, whatsapp, eccetera. Non avendo internet, quando dovevamo fare una ricerca a scuola non avevamo la possibilità di consultare google, ma usavamo le enciclopedie, che nemmeno tutti potevano permettersi!
I computer? Neanche a pensarlo! I temi, le ricerche e le tesine dovevamo scriverli a mano. Era già tanto se qualcuno aveva la macchina per scrivere, rigorosamente manuale ovviamente; quella in voga all’epoca era la “mitica” Olivetti Lettera 35!
Qualche famiglia più benestante aveva comprato ai propri rampolli un primo esemplare di personal computer: ricordo i Commodore Vic 20 o i più evoluti Commodore 64! Sono ormai reperti storici.
Bisognerà arrivare agli anni ’90 per sentire nominare i computer più veloci coi processori 286, poi 386 e 486. Sembrava fantascienza!
Erano computer che comunque costavano diversi milioni di lire, per giunta senza internet, e che non erano entrati pertanto nella quotidianità, avendo un uso abbastanza limitato rispetto a quello che attualmente i vari programmi e le varie apps offrono.
Oggi le tecnologie ci consentono di fare praticamente di tutto e su supporti sempre più ridotti come i tablets e gli smartphones.
Su qualsiasi cosa vogliamo informarci, oppure qualsiasi luogo vogliamo vedere, basta digitare quello che ci interessa su un motore di ricerca e scegliere quello che più ci sembra esaustivo.
Si possono visitare luoghi senza esserci mai stati, non solo grazie a tutte le informazioni e le immagini che si riescono a reperire in rete, ma, grazie a Street Wiew, si ha la possibilità di “camminare” per un posto qualsiasi come se ci trovassimo proprio lì.
Per non parlare di tutte le operazioni che ormai si possono fare anche solo online: dalle iscrizioni alle università alle operazioni bancarie, agli acquisti, alla prenotazione di viaggi, eccetera.
Non è questa la sede per soffermarmi oltre sulle infinite possibilità del mondo informatico e di internet, ma quello che mi preme sottolineare qui è che noi ragazzi degli anni ’80 non avevamo tutto questo.
La nostra visione del mondo era limitata ai soli luoghi in cui vivevamo ed a quelli che avevamo la fortuna di poter visitare. 
Quando volevamo “evadere” dalle realtà di provincia non avevamo altri mezzi che la televisione, i libri e i giornali.
In questo devo dire che io sono stata fortunata, perché essendo cresciuta in mezzo alla carta stampata, ho avuto più possibilità degli altri di leggere giornali, riviste, inserti speciali e libri.
La mia famiglia, infatti, è titolare di un’edicola proprio nella piazza principale della nostra ridente cittadina.
Si ridente, perché io amo la mia terra e ne vado fiera, anche se devo ammettere che da adolescente me la sentivo un po’ stretta.
Pensavo che essendo nata lì, io fossi stata relegata in un piccolo centro e che la vita, quella vera, quella in cui succedono le cose che fanno cambiare il mondo, si svolgesse in un altrove, cioè in un posto lontano da me e dal quale io ero inevitabilmente esclusa.
Mi sentivo come se volessi “mordere” la vita, ma questa mi sfuggiva sempre ed io dovevo continuamente rincorrerla senza riuscire ad afferrarla mai.
Pensavo a posti lontani, più al “centro del mondo”, dove si stessero verificando chissà quali cambiamenti epocali e dove io avrei potuto dare il mio piccolo contributo a quelle che poi sarebbero state le componenti della nuova realtà.
La mia fantasia correva più veloce di quanto a dire il vero potesse permettersi, creando delle aspettative ambiziose e, diciamolo pure, presuntuose ed impossibili, ma all’epoca non me ne rendevo conto.
L’unica cosa che sapevo era che tra il dire ed il fare c’era il mare, anzi un oceano, e l’unica evasione che potevo permettermi nel posto in cui mi sentivo “relegata” erano i voli pindarici che faceva la mia mente, mentre divoravo letteralmente ogni rivista o libro interessante mi si presentasse a tiro. Per questo, avendo a disposizione una edicola molto ben fornita, le occasioni non mi mancavano di certo.
Più leggevo e più la mia sete di conoscenza cresceva. Volevo conoscere il più possibile il mondo esterno, quello al di fuori della mia cittadella di provincia; avevo la presunzione di voler riuscire a sapere tutto, soprattutto riguardo agli altri popoli, ai loro linguaggi, ai loro usi, costumi e tradizioni. Tutto questo mi affascinava e non poco.
Nonostante tutta la mia bramosìa di conoscenza del mondo, non sono mai riuscita a lasciare definitivamente il mio luogo natìo a cui ero e sono molto legata, o forse non l’ho mai voluto veramente, soprattutto perché non sarei riuscita a vivere lontano dalla mia famiglia.
Gli affetti profondi, uniti ad un legame quasi viscerale con la mia terra, mi hanno sempre impedito di decidere in maniera definitiva di trasferirmi altrove.
Sì, altrove, facile a dirsi: ma poi, altrove dove? Che alla fine “tutto il mondo è paese”, come si suole dire, e dove poi avrei avuto anche il problema pratico di “come fare per campare”.
Il dover far fronte ai bisogni primari più impellenti, non mi avrebbe poi anche distolto dalla mia sete di conoscere il mondo? Se avessi dovuto pensare a come riuscire a “sbarcare il lunario”, come avrei potuto poi avere il tempo, la forza ed anche la possibilità di approfondire le mie conoscenze di un determinato posto? Come avrei potuto andare per musei, chiese, monumenti, mercati, mostre ed eventi se avessi avuto il primario bisogno di lavorare per vivere?
È così che mi sono resa conto che il mondo non lo si conosce solo percorrendolo di persona, ma anche documentandosi, leggendo, studiando, imparando le lingue ed anche gli usi e costumi dei vari popoli. Oggi poi con internet (meno male che adesso c’è, almeno per questo!) tutto è ancora più facilitato.
Aggiungo un’ulteriore riflessione: dato che non si ha il dono dell’ubiquità, cioè non si può vivere dappertutto, una persona può conoscere bene solo il posto dove si trova, e quindi non mi avrebbe aiutato trasferirmi in un “altrove”, da dove poi avrei dovuto trasferirmi ancora e poi ancora, nel momento in cui fossi stata satura (se mai lo si possa essere) delle conoscenze di quel determinato posto.
Sarebbe stata una vita da nomade e che alla fine mi avrebbe portato a conoscere bene solo pochi posti: è cosa impossibile, infatti, poter vivere “ovunque” e dappertutto!
Arrivai, pertanto, alla conclusione che si possono invece avere molte più conoscenze girovagando già solo con la mente ed ecco quindi che lo studio divenne per me un’evasione che, dalla piccola realtà di provincia, mi portava a conoscere posti nuovi e lontani.
Ovviamente condivo lo studio anche con qualche bel viaggetto ogni tanto. Sono partita anche solamente per vedere le mostre di artisti di cui avevo apprezzato le opere e devo ammettere di aver viaggiato molto spesso e volentieri, ma sempre con una grande voglia dopo un po’ di tornarmene a casa.
L'università? Fatta “dentro casa”, come si dice dalle mie parti, cioè nella mia regione, però non potevo che iscrivermi a Lingue e Letterature Straniere, che io ho sempre definito passport to the world, “passaporto per il mondo”. Non a caso le lingue che ho deciso di studiare sono state spagnolo e inglese, le lingue parlate da più paesi nel mondo e la cui conoscenza permette praticamente di poter andare ovunque.

Cap. 2

L’inizio della consapevolezza

Girai l’Europa in lungo e in largo, viaggi brevi, ma frequenti.
Nella mia cittadina, dove ci si conosce un po’ tutti, spesso mi chiedevano “Quando riparti adesso?”, ormai abituati ai miei frequenti spostamenti.
Tanto ero agevolata anche dal lavoro nell’edicola di famiglia, che mi permetteva di allontanarmi facilmente perché ci si alternava un po’ tutti, soprattutto io e mia sorella, che, al contrario di me, non amava i viaggi.
Il mio primo viaggio oltreoceano non poteva che essere nella Grande Mela: New York. E non a caso, laddove non riuscivo a comunicare con l’Inglese, sopperivo con lo Spagnolo.
Il viaggio a New York è stato particolare, direi stranamente emozionante, perché mi dava la sensazione di essere in un posto dove tutto era “big”.
Camminavo per strada con la testa all’insù perché non si vedevano i tetti delle case: grattacieli altissimi che fendevano l’aria con la loro imponenza. Mi sentivo al centro del mondo! E non solo per i grattacieli.
Quando tornai al mio paese mi sembrava di vedere le casette dei sette nani, pareva tutto rimpicciolito e mi stava ancora più stretto.
Una volta ho sentito una frase in tv che credo renda molto bene l’idea di come mi sentissi e cioè “un litro e mezzo di acqua in una bottiglia da un litro…!”, cosa materialmente impossibile e quindi come metafora credo calzi alla perfezione.
Nella Grande Mela, però, per la prima volta ho assistito ad un episodio che mi ha in un certo senso segnato; perché è da quel momento che ho toccato con mano un fenomeno, di cui ovviamente ero a conoscenza, ma che solo allora mi resi conto di non aver assimilato bene, nel senso cioè di non credere realmente e concretamente possibile la sua esistenza nella vita di tutti i giorni, forse perché io stessa non lo concepivo: il razzismo.
Ricordo che una volta lessi da qualche parte che il fatto che le persone fossero “di colore” era prettamente un fattore biologico legato alla loro provenienza. In altre parole, la loro pelle era più scura perché, essendo originariamente nati in zone equatoriali dove i raggi del sole giungono più forti perché perpendicolari, necessitavano di una concentrazione maggiore di melanina come protezione per la pelle.
La cosa mi sembrava normale e logica: si pensi a come sono molto più pallidi di noi gli abitanti del nord Europa.
Poteva, quindi, essere un motivo di discriminazione una caratteristica puramente biologica di diversa pigmentazione della pelle di cui la Natura ha dotato l’uomo a soli fini protettivi?
Madre Natura non credo pensasse di discriminare questi uomini per tale ragione, quanto, piuttosto al contrario, di proteggerli dai raggi troppo forti del sole equatoriale.
Per questo, quando in passato ho letto di razzismo, mi sembrava un’utopia, o meglio, una cosa di cui conoscevo l’esistenza, ma che al tempo stesso mi sembrava impossibile da verificarsi nella vita comune di tutti i giorni, soprattutto nella mia cittadella di provincia.
Come per quelle cose di cui si sente parlare, si sa che esistono, ma finché non ti trovi a toccarle con mano non ti sembrano reali.
Ho realizzato la piena consapevolezza dell’esistenza del fenomeno razzista solo quando ho assistito ad un episodio, che non saprei definire diversamente se non di razzismo, in pieno centro di Manhattan.
Ricordo che rimasi esterrefatta: anche se avevo già sentito in televisione di fatti del genere, assistervi di persona ha avuto su di me lo stesso effetto di una secchiata d’acqua gelida, perché mi ha sbattuto in faccia una realtà di cui fino ad allora mi resi conto di non avere pienamente compreso l’esistenza.
 È come se mi si fossero all'improvviso aperti gli occhi e non sapevo se essere più sconcertata del fatto in sé o del fatto di come avevo potuto fino ad allora non rendermi conto che purtroppo queste cose esistevano davvero.
Il paradosso è che mi sono accorta che non lo credevo possibile solo nel momento in cui ho capito che era possibile. 
Mi sono resa conto, cioè, solo in quel momento che fino ad allora il concetto di razzismo era confinato in un angolo della mia mente come una semplice nozione di conoscenza dell’esistenza di un fenomeno, sì deplorevole, ma lontano anni luce dalla mia vita. 

Cap. 3

L’esperienza di New York

Appena arrivata all'aeroporto JFK di New York presi un autobus che mi portava fino in centro a Manhattan. Feci il biglietto, l’autista mi aiutò a caricare la valigia nel bagagliaio situato dietro l’autobus e partimmo.
L’autobus era pieno di gente, ma dato che il tragitto era piuttosto lungo, si svuotò strada facendo alle varie fermate, fino a rimanere con a bordo circa una decina di persone che scendevano in centro, vicino alla vecchia stazione.
Notai che ogni volta che una persona scendeva, lasciava delle monete in una specie di barattolo verde posto sul cruscotto davanti all'autista e mi chiesi il perché, dato che eravamo tutti provvisti di biglietto.
Chiesi spiegazioni al mio vicino di posto e mi disse che era usanza americana lasciare la “tip”, la mancia, e non solo sull'autobus, ma anche nei bar, nei ristoranti e negli altri posti pubblici.
La cosa mi parve non solo strana, ma anche ingiusta, visto che io ho pagato il biglietto o in altri casi pago la consumazione, perché devo spendere altri soldi per un servizio per il quale ho già dato un corrispettivo? Comunque, non discuto le usanze e se così dev'essere così sarà, sennò passiamo sempre per i soliti italiani furbetti e tirchi. In Italia la mancia è una cortesia, mica un dovere.
Dovendo ingannare il tempo durante il viaggio, man mano che la gente scendeva iniziai a fare caso a quanto mettevano nel barattolo per questa tip, anche per regolarmi a mia volta, e vidi che non tutti lasciavano questo “obolo”.
Quando non lasciavano la mancia, l’autista faceva una faccia truce, ma non diceva nulla; “Ovvio – pensai – la mancia è pur sempre una gentilezza, non un obbligo, o almeno per noi Italiani è così.”
A quel punto mi ritenni esonerata dal corrispondere una tip sempre e comunque, ma pensai di darla solo se avevo spiccioli.
Ad un certo momento ad una fermata, mentre guardando dal finestrino ero rapita dai grattacieli illuminati che svettavano nel cielo dell’imbrunire fino a dove il mio sguardo sognante non poteva arrivare, venni scossa da un urlo e riportata alla realtà.
Era l’autista che gridava contro un uomo, mal vestito, che non aveva dato la mancia.
Ma come!? Finora non ha detto nulla a chi non ha dato spiccioli, che gli prende adesso? Poi il poveretto si vedeva che non era un benestante, magari erano gli ultimi soldi che gli fossero rimasti e quello lo aggredisce così?!
Gli stava, infatti, proprio dando addosso: gli urlava contro e, preso per un braccio, lo strattonava.
A quel punto lui si divincolò e, tenendo gli occhi bassi probabilmente per la vergogna, scappò via dicendo solo “Sorry...” forse per scusarsi che magari non li aveva, lasciando l’autista ad inseguirlo per un po’ sul marciapiede e a lanciargli dietro una serie di parole che di certo non erano complimenti!
L’uomo si dileguò e l’autista, inferocito, risalì sull'autobus, si mise ad urlare e prese per il braccio altre due persone “accompagnandoli gentilmente” all'uscita e facendoli scendere dal bus.
Queste persone non si erano alzate alla fermata, quindi deduco che non dovessero scendere lì, però non si ribellarono e scesero comunque. 
A quel punto io, che ero rimasta incredula ad assistere a tutto questo, chiesi spiegazioni al signore accanto a me, domandandogli come mai alle altre persone che non avevano lasciato la mancia non ha detto nulla e a quel signore, sebbene vestito pure malconcio, si.
La risposta mi gelò come una doccia fredda: “He is not white!” – “Non è bianco!”
Solo allora realizzai che anche le altre due persone che fece scendere non erano bianche anche loro!
Rimasi esterrefatta! Non potevo credere alla scena cui avevo assistito! Ebbi subito un senso di schifo e una sola parola mi riuscì sibilare al signore seduto accanto a me:
“Racism...”
Figuriamoci che io non ci avevo fatto nemmeno caso che erano “di colore”! Per me erano solo viaggiatori, come lo ero io!
Il signore accanto a me disse che scene del genere e per il motivo che avevo intuito non erano inusuali nella tanto evoluta Grande Mela.
Noo!! Non ci potevo e volevo credere!! Mi cadeva un mito!
Allora per accertarmi se davvero fosse così, quando scesi omisi volutamente di lasciare la mancia, per vedere se anche a me, “white”, riservava lo stesso trattamento.
Purtroppo, a me non disse nulla! Dico “purtroppo” perché, per assurdo, addirittura sperai inveisse anche contro di me, pur di non voler ammettere che la motivazione era davvero di matrice razzista.
Negli anni 2000 mi sembrava di essere tornata indietro di mezzo secolo e di trovarmi ai tempi di Rosa Parks.

Razzismi di provincia è un romanzo di Rosamaria Campitelli

Commenti

  1. E' un tema che ho particolarmente a cuore, per vari motivi..... spero di poter leggere presto tutto il libro.

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