Per continuare a
leggere con noi iscriviti al gruppo Facebook: ISEAF BOOKS
Non
perderti gli ultimi aggiornamenti sulla nostra pagina Facebook: ISEAF
Trovi le nostre opere anche su: INSTAGRAM
FRANCO
LO PRESTI
TEMPI
DI GUERRA: IL “RICOVERO”
foto pixabay
Subito
la notizia si diffuse a Catania e la gente cominciò a scappare verso le
campagne, preoccupata per i bombardamenti che ne potevano derivare in città.
La
signora Francesca, una giovane donna trentenne, in avanzato stato di
gravidanza, che abitava nello stesso nostro caseggiato, venne a trovare mia
madre.
«Rosa!»
le disse «Io parto con i miei figli. Fra poco, verrà a prendermi mio padre con
la macchina per portarmi nella sua casa di campagna, a Misterbianco (CT). Cerca
di venire anche tu, il più presto possibile; cosa fai qua da sola con due
bambini?»
Mia
madre e la signora Francesca, amiche da parecchio tempo, erano coetanee e si
trattavano come sorelle.
«Ti
ringrazio!» rispose mia madre «Ci penserò. Potessi almeno avvertire mio
marito!... Eventualmente, se dovesi decidermi, troverò sempre qualcuno che mi
accompagnerà… o in qualche modo farò.»
Mio
padre, richiamato alle armi, prestava servizio nella base militare di Augusta
(SR).
Le
due donne si abbracciarono e si salutarono.
Ci
furono giorni di tregua, forse perché la marcia delle truppe inglesi si era
bloccata nelle vicinanze di Catania dove i tedeschi avevano organizzato
un’efficiente linea di difesa.
La
calma durò poco: le forze aeree alleate sferrarono una forte offensiva
osteggiata dalla contraerea italo-tedesca, provocando con i bombardamenti
incrociati delle onde d’urto capaci di far oscillare le pareti degli edifici ed
aprire le porte delle case.
Ricordo
che, durante uno di questi combattimenti, più violenti del solito, mio
fratello, Melo scoppiò in un pianto disperato e mia madre, impaurita e
sconfortata, prese lui in braccio, afferrò me per una mano e si rifugiò con noi
nell’angolo più sicuro e protetto della casa, mentre la porta, lasciata
volutamente aperta per mitigare gli spostamenti d’aria, sbatteva con violenza
contro gli stipiti e intorno a noi crollavano diversi calcinacci.
Finalmente,
il suono di una sirena segnò la fine dell’incursione aerea.
Allora
mia madre mi disse:
«Franco,
dobbiamo andare via da qui. Dobbiamo camminare tanto ed io non potrò portarti
in braccio perché ho già tuo fratello. Hai capito?»
«Sì,
mamma!» risposi.
Mia
madre lasciò un biglietto attaccato alla porta per papà e partimmo.
A
quel tempo, mio fratello aveva sette mesi.
Io
avevo cinque anni, ma le difficoltà della guerra, le privazioni ed i sacrifici,
mi avevano fatto crescere in fretta e, di sicuro, i bambini di allora erano più
maturi della loro età anagrafica.
In
quel momento, infatti, io mi sentivo il responsabile della famiglia: l’uomo di
casa, in assenza di mio padre…
Avevamo
percorso un bel pezzo di strada e non ricordo se fossi già stanco.
Rammento
solo che la fortuna ci assistette. Un grosso furgone carico di sfollati ci
sorpassò. L’autista ci chiese, dove eravamo diretti e, poiché egli doveva fare
la nostra stessa strada, ci invitò a salire.
Arrivati
fuori città, molte persone scesero dall’automezzo per andare in cerca dei loro
amici o parenti.
L’uomo
del furgone ci portò gentilmente nella casa di campagna, a Misterbianco, in cui
abitavano i genitori della signora Francesca, amica di mia madre.
La
mia mamma ringraziò l’uomo.
Noi
varcammo un cancello di ferro spalancato ed arrugginito dal tempo, percorremmo
un piccolo vialetto ghiaioso e poco dopo, scorgemmo diversi agglomerati di
sassi ed un edificio costruito a ridosso di una parete rocciosa di origine
vulcanica.
Nelle
vicinanze del fabbricato, non c’era anima viva.
Mia
madre che l’aveva raggiunto sulla base delle indicazioni della sua amica, venne
assalita dal dubbio che non fosse quello l’indirizzo esatto. Non voleva però
bussare senza avere un minimo di certezza.
Si
guardò in giro nella speranza di vedere uscire qualcuno e, osservando bene, si
accorse che su un lato dell’edificio, c’era un “casotto”, sempre in pietra
lavica lasciato al grezzo, sicuramente per gli attrezzi di lavoro e, nelle
immediate vicinanze, all’ombra di una fila di alberi, era parcheggiata un’auto
coperta da un telo di cotone.
Il
suo viso si illuminò e disse:
«Questa
è la casa giusta perché quell’automobile appartiene, senza dubbio, a don
Ciccino, il padre della mia amica. Lui è un uomo benestante, ha abbastanza
soldi per comprarsi una macchina. Non tutti possono permetterselo.»
E
bussò alla porta.
Aprì
la signora Francesca.
«Ti
sei decisa, finalmente?» disse con un largo sorriso.
Le
due donne si abbracciarono.
«Vieni
accomodati! I miei genitori sono andati con i bambini sull’orto a prendere dei
pomodori e un po’di insalata. Fra poco torneranno. Sarano contenti di vederti.
Ti mostro, intanto, la casa. Tu non eri mai stata qua, vero?
Come
vedi, è molto spartana. Mio padre l’ha sempre usata come casa di campagna per
metterci dentro le casse di arance dopo il raccolto, in attesa della vendita.
Abbiamo, infatti, un piccolo aranceto giù in fondo che da qua non si vede.»
Entrammo.
Dall’interno,
la casa sembrava molto più grande e capiente.
«Come
avrai visto, tutto l’edifico è costruito con pietra lavica, lasciata al grezzo,
esternamente. Mio padre, per accontentarmi e convincermi a venire, si è deciso
a mettere all’interno un po’ di ordine per adattarla ai bisogni di questo
brutto momento.
Ha
chiamato, perciò, un muratore per farla intonacare ed imbiancare. L’ha fatto
poi pulire da una contadina, ricavando così una sala da pranzo decente. Cosa
vuoi, lui preferisce spendere i soldi per la macchina per i suoi spostamenti.
La casa di campagna, dice, serve solo per il lavoro, in tempi normali.»
Ci
guardammo intorno.
La
casa era composta da due stanze adiacenti, separate da una parete divisoria.
In
quella anteriore, la sala da pranzo, erano stati ricavati i servizi essenziali.
C’era,
infatti, sulla destra, un ampio stanzino, con dentro un focolare per cuocere i
cibi, una piletta di pietra per lavare i panni e, all’interno, riparato da una
parete che però non arrivava fino al soffitto, era sistemato un piccolo
gabinetto per i bisogni corporali.
Vi
erano anche delle tinozze per le abluzioni personali che, come spiegò la
signora Francesca, risultavano molto utili, specie per i bambini che venivano
sporchi di polvere dai giochi in campagna.
Quella
da pranzo, era l’unica stanza che riceveva luce diretta dalla porta d’ingresso,
perché il vano posteriore, addossato alla parete rocciosa, riceveva luce
solamente da un’apertura praticata sulla parte alta della parete divisoria e vi
si accedeva attraverso una tenda scorrevole.
Era
la camera di don Ciccino e sua moglie, all’interno della quale, sul lato
destro, era stata collocata una tenda anch’essa scorrevole, per ricavare
un’altra camera di emergenza.
«Ecco!»
disse la signora Francesca «in questa camera improvvisata, dove dormo io con i
bambini nei due letti che vedi, ne sistemeremo un altro per te e Franco, mentre
appronteremo una culla per Melo, come quella di Ferdinando che tu ancora non
conosci. Anzi, vieni che te lo faccio vedere. Sta dormendo. È molto buono, sai!
Dorme sempre!»
Era
un bambino bello e paffutello; dormiva beatamente.
Mentre
stavamo guardando il piccolo e mia madre faceva all’amica i complimenti per il
neonato, entrarono i suoi genitori con in mano una borsa ripiena di ortaggi e
frutta.
Erano
don Ciccino di 65 anni e sua moglie, donna Carmela di anni 60 che accompagnava
per mano suo figlio, di circa 35 anni: un povero handicappato di nome Domenico
che tutti chiamavano Menico”, o meglio Minicu”, secondo l’espressione
dialettale comunemente usata.
Don
Ciccino e donna Carmela ci accolsero molto bene, tanto che io ho avuto
l’impressione che fossero due brave persone.
Con
loro c’erano anche i miei compagni di giochi: Pippa, Salvo e Nino;
rispettivamente di nove, sette e cinque anni.
Mi
salutarono festosamente e mi portarono fuori a giocare, con mille
raccomandazioni di donna Carmela che ci raccomandò di non giocare vicino alla
macchina e nell’aranceto.
Seguirono
alcuni giorni di tranquillità e noi bambini ci mettemmo subito a ispezionare
l’ambiente circostante e, in particolare, gli alberi da frutta che c’erano
vicino casa: fichi, fichi d’India, pistacchi, gelsi ed ulivi.
Certo
non potevamo mangiare i fichi d’India, ma facevamo scorpacciate di fichi,
bianchi e neri, presenti in abbondanza e raccoglievamo qualche gelso bianco che
pendeva dai rami più bassi degli alberi. Ignoravamo l’aranceto, anche perché le
arance a quel tempo non erano mature.
Non
contenti di frugare fra gli alberi, esplorammo la “sciara”, in mezzo alla quale
spuntavano numerosi cespugli di ginestra.
“Sciara”
è il termine dialettale usato per indicare l’insieme dei macigni vulcanici che,
in genere, si formano durante un’eruzione vulcanica, a fianco delle colate
laviche.
Durante
tali esplorazioni, trovammo una grotta molto ampia e soprattutto lontana da
occhi indiscreti. Ne facemmo subito il nostro nascondiglio segreto, dove ci
rifugiavamo, specie dopo aver commesso qualche marachella.
Eravamo
liberi e felici, ma una notte lo spavento fu tanto.
Scoppiò,
infatti, un bombardamento violento, infernale.
Il
cielo sembrava illuminato a giorno.
La
casa, malgrado fosse molto solida, sembrava vacillare e si temeva veramente che
potesse crollare da un momento all’altro, sia pure colpita da una bomba vacante.
Tremavamo
per la paura, le donne piangevano e noi bambini facevamo altrettanto, mentre
don Ciccino, cercava di tranquillizzare tutti.
Il
figlio, “Minicu” saltava e girava intorno a sé stesso.
Non
sapendo se ridere o piangere come gli altri, agitava le braccia in alto e
gridava:
«Bum!
Bum! Bum!»
In
mezzo a quella confusione, Pippa ci ricordò della grotta.
Allora,
noi bambini pregammo, fra le lacrime, gli adulti di seguirci, affermando che
conoscevamo un rifugio sicuro.
Nell’ansietà
del momento, e temendo un imminente crollo della casa, tutti si aggrapparono a
quell’ancora di salvezza e ci seguirono speranzosi.
E
ognuno di noi prese per mano il proprio genitore per condurlo verso la grotta.
Naturalmente,
mia madre si preoccupò di prendere in braccio mio fratello che piangeva
disperato e spaventato, mentre con l’altro braccio teneva la mia mano che la
trascinava.
La
signora Francesca prese in braccio Ferdinando, anche lui piangente, mentre don
Ciccino si preoccupava di confortare ed accompagnare, seguendoci verso il
rifugio, il suo povero figlio “Minicu” che continuava a gridare terrorizzato:
«Bum!
Bum! Bum!»
Così,
accompagnammo gli adulti nel nostro nascondiglio e per quella volta nessuno ci
rimproverò, anzi tutti si organizzarono alla meglio e sistemarono noi bambini
per trascorrere la nottata, mentre donna Carmela invitava tutti a recitare il
Santo Rosario per ingraziarsi la protezione della Madonna.
Era
il 5 agosto del 1943. Quella notte i soldati inglesi invasero Catania.
La
guerra continuò violenta in Sicilia per un’altra decina di giorni, ma ogni
volta che c’era un bombardamento, tutti correvamo a rifugiarci nel nostro
“ricovero.”
Il
17 agosto, il generale americano George Smith Patton, con le sue milizie,
occupò Messina.
Seguì
un periodo di relativa calma. I bombardamenti erano quasi del tutto cessati; si
sentiva a volte qualche raffica di artiglieria, poi nulla più.
Ma
la paura era tanta e per alcune settimane, pur nell’assenza di detonazioni, gli
adulti ci portavano a dormire nel “ricovero”.
E
poiché in quella campagna isolata non arrivavano notizie di alcun tipo, sul
finire del mese di agosto, don Ciccino, disse a donna Carmela, sua moglie:
«Domani
prenderò la “Balilla” e mi recherò a Catania per vedere la situazione.»
«Vuoi
andare a Catania con l’automobile?» chiese la signora Carmela «Non sarà
pericoloso?»
«Non
ti preoccupare, sai che sono prudente.» Rispose don Ciccino.
Poi,
rivolto a mia madre che trattava come una figlia, le disse, orgogliosamente:
«Vieni,
Rosa, ti faccio vedere la mia automobile!»
Approfittammo
tutti per andare a vedere la macchina, spinti dalla curiosità.
Don
Ciccino tolse il telo che la ricopriva e ci mostrò la sua bella vettura nera,
lucida e pulitissima.
Poi
aggiunse:
«Questa
è una Balilla, Fiat 509 del 1939. È dotata di 4 marce ed è velocissima. Pensate
che un bravo autista può spingerla anche a 80 Km orari. Io però non corro oltre
i 50, massimo 60 Km orari.»
«Mi
scusi, don Ciccino» azzardò mia madre «quanto può costare una macchina così?»
«Costa
tanto, figlia mia. Io l’ho pagata la bellezza di 18.500 lire.»
Salì
quindi in macchina, già messa in posizione di partenza, mise in moto e partì
accompagnato dai saluti di tutti noi e le esortazioni alla prudenza di donna
Carmela.
Arrivato
a Catania, venne a sapere da alcuni suoi amici che il 18 agosto i tedeschi
avevano abbandonato la Sicilia e si erano ritirati in continente con uomini e
mezzi.
Don
Ciccino accolse la notizia con gioia e tornato a Misterbianco, riferì ogni cosa.
Per
precauzione, restammo in campagna per un’altra quindicina di giorni, mentre le
donne facevano i preparativi per la partenza.
La
mia mamma ed io partimmo per primi tra gli abbracci, i ringraziamenti e le
lacrime delle donne che si diedero appuntamento a Catania.
Ci
accompagnò don Ciccino con la sua “Balilla”.
A
Catania, nel caseggiato in cui abitavamo, alcune famiglie erano già ritornate
dai loro rifugi di campagna ed informarono mia madre sulle ultime novità: la
scuola elementare, a circa duecento metri da casa nostra, adoperata prima come
alloggio dai tedeschi, era già stata occupata dagli americani.
Così,
quando anche i miei amici ritornarono ed il gruppo si fu ricostituito, per noi
bambini che prendevamo tutto per gioco, non cambiò nulla.
Agli
americani, malgrado i genitori ce lo avessero proibito, noi recitavamo sempre
la solita frase storpiata, insegnataci chissà da chi:
«Hallo!
Biscuit» intendendo per “biscuit”, i biscotti.
E
ricevevamo, spesso, in cambio, qualche fetta di pane fresco di segale nero,
quando c’erano i tedeschi; oppure un pezzo di cioccolata, qualche “galletta” o
una fetta di pane bianco, quando subentrarono gli americani.
Nelle prime ore del mattino del 10 luglio 1943, iniziò lo
sbarco alleato in Sicilia.
Tempi di guerra. Il ricovero è un racconto di Franco Lo Presti
Commenti
Posta un commento