Non chiudere quella porta

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MARIA TEDESCHI

NON CHIUDERE QUELLA PORTA

                      
Cap. 1 Uno spirito ribelle
“… Lei era una principessa eppure non lo sembrava, sia nei vestiti da uomo, che nell’atteggiamento vivace e sereno…” Elena Di Sabatino

Mi chiamo Alice e sono uno spirito “ribelle”. I miei genitori mi hanno sempre tagliato i capelli cortissimi e vestito da maschio, tant’ è che spesso e volentieri mi scambiavano per un bambino.
Il desiderio di mio padre di un erede “maschio” si realizzò a distanza di quattro anni con la nascita di Alfio.
Non l’ho mai visto essere così felice come quando vide spuntare fuori dalle fasce i due virili gioielli sferici di mio fratello.
Il mio potrebbe sembrare un discorso antiquato e lontano, ma per i miei genitori non era così.
La garanzia del cognome rappresentava il suggello della loro casata… un po’ come si legge nei sonetti di Shakespeare quando l’autore invita vivamente il suo “patron” (the Earl of Southampton) a procreare per superare la caducità del tempo. La sua prole (naturalmente in linea maschile) avrebbe reso immortali la sua indiscussa bellezza e intelligenza.
Una secondogenita e per di più “femmina” era solo un incidente di percorso.
Se ero considerata “trasparente” dai miei genitori, di certo non avrei mai potuto conquistare un mio spazio nella società che era fuori.
A dire il vero non me ne era mai importato oltre al fatto che essere bambina o bambino, nascere prima o dopo, per me non faceva alcuna differenza.
Cosa cambiava?
Come figlia di mezzo, avrei avuto meno responsabilità e forse maggiore libertà.
La casa dei miei genitori era abbastanza grande; condividevo una stanzetta con mia sorella maggiore Olga, che aveva lo stesso nome di mia nonna paterna, un’usanza tipica del Sud Italia.
Era la mia antitesi, un modello di perfezione: bella, dai lineamenti regolari, ubbidiente, educata, la prima della classe ed estremamente devota. Era ammirata da tutto il paese e primeggiava sugli altri facendo sfoggio di abilità superiori alla sua età.
In passato, quando eravamo molto piccole, mia sorella dormiva con i miei genitori ed io invece nella camera dei miei nonni.
Spesso essi litigavano.
Il motivo principale delle loro liti (che avvenivano rigorosamente a porte chiuse ma in mia presenza) era il fatto che nonno Alfio puntualmente ogni 23 del mese scommetteva sui i cavalli perdendo tutta la pensione e mia nonna Olga si lamentava perché non poteva permettersi mai un bel vestito, un rossetto rosso fuoco, una sciarpa di seta, uno spettacolo teatrale o almeno qualcosa di buono da mangiare e si vergognava di dover elemosinare  al figlio (mio padre) anche il necessario.
Mio nonno la zittiva alzando la voce e quando diventava insistente anche con qualche ceffone sul volto.
Io non potevo far nulla, mi ero da tempo arresa.
All’inizio mi ribellavo dicendo di smetterla, ma ero ignorata.
Le mie proteste erano considerate come se fossero quelle di un fantasma, allora aprivo  la porta e scappavo via.
In seguito, non potetti più farlo poiché la porta veniva chiusa a chiave e mio malgrado ero costretta ad assistere a tutta la loro “performance” che conoscevo a memoria.
A volte aspettavano che io dormissi per litigare, ma io sentivo tutto pur fingendo di dormire. Mi ero promessa che prima o poi avrei rubato la chiave e l’avrei seppellita nel luogo più remoto del giardino che circondava la casa.
La nostra casa era immersa nel verde: un tappeto di profumi, colori e suoni che amavo attraversare a piedi nudi.
Una parte del giardino era coperta da margheritine di colore giallo, un’altra invece, la mia preferita, da un tappeto vellutato di fiori azzurri spontanei il cui profumo inebriante conquistava i miei sensi e lo rendeva magico nel mio immaginario.
Nell’ ultimo spicchio del giardino c’era una fontana con due grandi tinozze di legno sempre piene d’acqua, per permettere al nostro cane Duca e agli uccellini di passaggio di abbeverarsi. Vicino ad esse c’erano due sgabelli dove io e il nonno Alfio sedevamo durante i pomeriggi assolati.
Il nonno lì mi raccontava delle storie bellissime: Robinson Crusoe, I viaggi di Gulliver, Alice nel Paese delle meraviglie, Il piccolo Principe, Il gabbiano Jonathan Livingston.
Lui era stato un maestro elementare e prima ancora un ufficiale dell’esercito.
Era una persona gentile e brillante, solo dietro la porta della sua camera da letto si trasformava in Mr.Hyde con mia nonna.
Questo, insieme alle sue scommesse sempre perdenti, erano i suoi unici difetti.
Era una persona speciale.
Mi piaceva quando raccontava le sue esperienze vissute al fronte, i luoghi in cui era stato, i pericoli che aveva affrontato, la gente che aveva conosciuto.
Non mi aveva mai parlato però di fame, di sofferenza o di morte se non usando degli strani eufemismi di cui solo ora riesco a comprenderne il significato.
Quando concludeva una storia, per decretarne l’avvenuta fine, fischiava “il silenzio militare” e per noi era ora di rientrare.
Un giorno mi raccontò una storia bellissima, Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway: Santiago, un vecchio pescatore, da circa tre mesi non riusciva a pescare neanche un pesce.
Durante i primi 40 giorni era stato aiutato da un ragazzo di nome Manolin, fino a quando i suoi genitori ritenendo troppo sfortunato, avevano imposto al figlio di non pescare più con lui.
Un giorno Santiago, uscì a pescare nell’ oceano da solo e catturò un gigantesco marlin, che trascinò la sua barca per due giorni e tre notti, finché il vecchio non lo uccise. Nel tragitto per tornare al porto, la preda fu divorata dagli squali e Santiago tornò a casa sconfortato da questa disavventura.
Manolin corse in suo soccorso e promise al vecchio che sarebbe tornato a pescare con lui.
L’idea del mare e la descrizione minuziosa dell’acqua mi avevano affascinato al punto che quando il nonno si era allontanato un attimo, iniziai a specchiarmi in una delle due tinozze immaginando che essa fosse il mare e lo sgabello la mia barca.
Senza accorgermene ero finita nella tinozza più grande a testa in giù.
Mio nonno fece appena in tempo a salvarmi la vita.
Da allora quelle due tinozze furono rimosse e al loro posto mio nonno costruì due aiuole rettangolari con pietre e piccole piante.

Non chiudere quella porta è un romanzo di Maria Tedeschi


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