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GUIDO FARIELLO
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LA RAGAZZA CHE VENIVA DAL FIUME TORTUOSO (parte prima)
È entrata una
persona nella stanza 24!
Ha aperto la porta
con autorità, senza bussare.
Schiudo gli occhi
dal dormiveglia.
Aziona
l’interruttore della plafoniera centrale a soffitto. La stanza si illumina.
La luce improvvisa
mi provoca fastidio agli occhi e strizzo le palpebre.
Vedo un mondo
velato. Ci vuole un certo tempo prima che riesca a mettere a fuoco una figura
che avanza in un ambiente nebbioso.
È una signora non
alta, di aspetto robusto, bruna di capelli; dovrebbe avere meno di cinquant’anni.
È vestita con una vestaglia bianca.
È risoluta e
determinata.
Ha, però, un
aspetto gioviale.
Si indirizza verso
il mio letto.
È diversa dalle
numerose figure che ho visto nelle ultime ore.
Immagino che sia
una addetta al turno di giorno.
C’è un orologio a
muro appeso alla parete difronte: segna le 05:59.
Suppongo che il
suo servizio cominci alle sei. Perciò deve essere una dipendente molto ligia al
dovere se è già operativa. Sicuramente sarà arrivata almeno alle cinque e mezza
per prendere servizio in tempo
Forse è
un’infermiera.
Un’infermiera!
Un’infermiera
dell’ospedale!
Ospedale.
Ospedale.
Ma come?
È certo!
Sono in un
ospedale!
È proprio così!
Anzi, sono nella
stanza numero 24 dell’ospedale. Ho sentito le parole “numero 24” varie volte da
ieri sera.
C’è stato un
trambusto di genti in camice bianco e camice verde nelle ultime ore.
Ora lo so! Sono in
un letto d’ospedale, nella camera numero 24.
Però è tutto
confuso.
Sono successe
molte cose nella 24 questa notte. Le ho viste e sentite. Mi ricordo molto bene.
E prima?
Sì, dov’ero prima?
No, non mi ricordo
proprio.
Non ricordo niente
di prima.
Non so come mi
chiamo.
Non so chi sono.
Perché sono in
ospedale?
La nuova
infermiera mi guarda sorridendo.
‹‹Ecco il ragazzo
della 24. Come ti senti ragazzo?›› dice prendendomi la mano.
Sembra una
carezza.
È provvista degli
strumenti per effettuare un prelievo.
Un altro prelievo?
Me ne hanno già
fatti!
Me ne hanno fatti
diversi.
Quanti?
Provo a contarli.
No, non mi
ricordo. Però erano molti.
La luce forte del
soffitto mi ferisce gli occhi.
Mi difendo
strizzando più forte le palpebre.
La mente è come
addormentata.
Ho sonno.
Vorrei poter
continuare a dormire.
Tengo gli occhi
chiusi.
Qualcuno sta
manovrando sulla parte interna del mio braccio sinistro.
Mi sembra che la
signora infili un ago con sicurezza e precisione in uno dei miei vasi sanguigni
ma non sento il minimo dolore.
Mi dico che è una
professionista con molta pratica ed esperienza.
Però potrebbe
essere che sia successo qualcosa che mi abbia procurato insensibilità agli
arti.
Sì, è successo
questo! Ecco perché sono in ospedale
La signora che
armeggia con il mio braccio scarica il liquido rosso dalla siringa in un
piccolo contenitore.
‹‹Continua i tuoi
sogni, ragazzo!›› dice con voce autoritaria ma dolce nello stesso tempo
facendomi aprire gli occhi.
Se ne va lasciando
aperta la porta della stanza.
Quella signora
prende il suo compito molto seriamente, dico fra me e me!
Faccio un calcolo.
Gli ospedali sono
sempre in luoghi decentrati. Perciò, per essere alle prese con il mio braccio
alle 6 meno un minuto, dovrebbe essere uscita di casa almeno alle cinque, forse
anche prima. Oppure è solamente una questione di efficienza da parte della
direzione che punisce puntualmente eventuali ritardi con precise detrazioni di
stipendio.
Ma che diavolo vai
a pensare?
Ti pare questo il
momento di fare ragionamenti?
Percepisco il
momento con difficoltà.
Ho sonno.
Da quanto sono
qui?
È sicuro da ieri
sera!
Era buio però.
Questo me lo ricordo!
Ma prima?
Dove ero prima di
ieri sera?
Sento un colpo di
tosse.
No, non sono io.
Giro la testa dal
lato opposto alla finestra.
C’è un altro
signore nella stanza 24.
È vero, ho un
compagno di stanza; un coinquilino nella numero 24!
Lui era molto
agitato ieri sera.
Il suo stato ha
richiesto ripetute visite di individui con una tunica bianca; due l’avevano di
colore verde.
C’è stato
trambusto, con impiego di flaconi pendenti da aste, terminanti in lunghi fili
di plastica trasparente.
La calma e la
tranquillità sono arrivate tardi.
Quando è arrivata
la quiete l’orologio sulla parete di fronte segnava già le 03:00.
Le 03:00, sì me lo
ricordo bene.
Ma prima? Cosa è
successo prima?
No, non me lo
ricordo.
Numero 24. Numero
24.
Sono io il numero
24?
Ma allora sono in
un lager?
Sono il
prigioniero numero 24.
Non è la stanza
numero 24.
È il paziente
numero 24.
Ho sonno.
Rigiro la testa
verso la finestra.
Vorrei dormire.
Perché sono qui?
Chi me lo può
dire?
Non so, non so
niente.
Non so come mi
chiamo.
Non so chi sono.
Perché sono in
ospedale?
Però ora c’è pace!
La finestra ha la
serranda semichiusa. La luce filtra appena. E la signora di prima uscendo ha
spento la luce.
Mi sento bene con
gli occhi chiusi!
Passano dei minuti.
Quanti minuti?
Forse molti. Forse
pochi.
Forse dormivo!
Forse dormivo.
Perché ora non dormo più.
C’è ancora una
persona nella stanza.
Riapro gli occhi.
È una signora.
Anche lei ha un fisico robusto, però è bionda con i capelli che fuoriescono
parzialmente da un fazzoletto giallo. Indossa un grembiule rosa con delle
piccole righe bianche longitudinali.
Si avvicina alla
ampia finestra e aziona la manovella per aprire le tapparelle.
La stanza si
inonda di luce; ma non è forte. L’alba è appena iniziata. Il sole ancora non è
spuntato. C’è una collina che sovrasta l’edificio dell’ospedale.
La porta della
camera è rimasta aperta.
Fuori, nel
corridoio, si intravvede un carrello per le pulizie che reca sacchi di plastica
bianchi e neri, secchi e contenitori di detersivi e disinfettanti.
La donna sposta
sedie e alza coperte e lenzuola per arrivare, con la sua speciale spazzola lava
pavimenti, sotto i letti e in ogni angolo. È molto pignola. E fa molto rumore.
Non proferisce
parola.
Forse entrando ha
augurato buon giorno ma nessuno ha risposto.
Se ne va.
Ha finito.
Esce e chiude la
porta. Non ha detto niente.
Ho bisogno di
andare in bagno.
Non sembra una
cosa possibile.
Almeno non
autonomamente.
Come il mio
vicino, anch’io sono collegato con almeno due fili a dei flaconi pendenti da
altre aste attaccate al mio letto.
Uno in particolare
sembra provenire da una specie di pompa posta orizzontalmente a metà dell’asta
di metallo lucido; assomiglia allo speciale attrezzo per sigillare i sanitari
del bagno con il silicone o, anche, per gonfiare i palloncini che nelle fiere
si vendono ai bambini.
L’attrezzo mi
incuriosisce.
È inglobato in una
tavoletta con dei led luminosi.
Ho capito.
Serve per spingere
lentamente il liquido nel mio corpo. Infatti lo stantuffo è arrivato quasi alla
fine del suo percorso.
C’è un ago
particolarmente vistoso sul dorso della mia mano sinistra protetto da un vasto
cerotto color carne. La parte esterna dell’ago ha degli attacchi di plastica
con delle rotelle. Uno di questi attacchi è collegato al filo della pompa.
Il mio braccio
sinistro e la mano sono abbandonate sul letto con il palmo in giù. Sul lenzuolo
immediatamente sotto ci sono delle macchie rossastre. Non possono essere di
sangue, sembrano di vino rosé.
Qualcuno ne ha
bevuto! Come è possibile? Sul mio letto!
È tutto confuso.
È successo questa
notte nella stanza 24. Mi ricordo bene. Posso raccontare anche i particolari!
E prima?
No, prima niente!
Vorrei dormire.
Perché sono qui?
Chi me lo può
dire?
Non so, non so
niente.
Non so come mi
chiamo.
Non so chi sono.
Perché sono in
ospedale?
Ora la porta si
apre con lentezza.
Un altro è entrato
con timore.
Forse vuole essere
sicuro di entrare nella stanza giusta.
Non fa rumore.
Apro gli occhi. La
luce è fastidiosa.
È una ragazza di
colore. Ha i capelli ricci.
È minuta, magra. È
graziosa.
Si dirige verso il
mio letto.
Sembra
preoccupata.
Ma io l’ho già
vista!
Quando?
No, non lo so. Ma
l’ho già vista.
Ha gli occhi di un
colore verde.
Quegli occhi l’ho
già visti.
La ragazza che veniva dal fiume tortuoso
è un racconto di Guido Fariello
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