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ALESSANDRO GRIGNAFFINIPer continuare a leggere
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Guardò la fila che gli
stava davanti e rassegnato si passò una mano nei capelli grigi.
Dietro di lui la coda si allungava a vista d’occhio.
Prima che arrivasse il suo turno dovevano passare
ancora diverse ore.
Dubitava di riuscire a realizzare il suo scopo prima
dell’arrivo previsto del fronte. Eppure, la gente continuava ad ingrossare la
coda forse spinta dalla speranza che il procedimento fosse suscettibile di
accelerare per l’arrivo di nuovo personale. Personalmente diffidava di questa
eventualità.
Era un’eternità (o almeno così gli pareva) che si
trovava in coda e ancora non aveva visto dove si trovasse l’ingresso
dell’edificio. A tutto questo si sovrapponeva un’ulteriore preoccupazione. Le
previsioni meteo parlavano di un aumento della velocità del vento che avrebbe
potuto accorciare anche notevolmente il tempo stimato prima dell’arrivo del
fronte.
Nonostante queste pessime previsioni, il comportamento
della gente era rimasto composto, come se la rassegnazione, fosse l’ultima
condizione mentale oggetto di universale condivisione.
Almeno ciò era quello che traspariva dalla compostezza
di quella fila, di cui non era visibile l’inizio e la fine, almeno dalla
posizione in cui lui si trovava.
Tuttavia, era consapevole che questo atteggiamento
riguardava esclusivamente i soggetti che avevano fatto quel tipo di scelta.
Ben altri comportamenti si erano verificati e si
stavano verificando in altre parti della città. Le colonne di fumo che si
elevavano da varie zone, i bagliori degli incendi, il suono dei clacson negli
ingorghi, l’ululato delle sirene, testimoniavano la diffusione del panico al di
fuori di quell’oasi apparentemente tranquilla in cui si trovava.
Guardò sconsolato il numero che aveva in mano per
l’ennesima volta. Circa due ore prima gli era stato consegnato da uno degli
inservienti che avevano percorso la lunga fila. Dopo di allora non
si era più visto nessuno.
Solo la voce metallica degli altoparlanti risuonava di
tanto in tanto per chiamare coloro cui era consentito l’accesso.
Da un po’ di tempo, però, anche quelli tacevano e la
fila si muoveva, ma molto a rilento. Si era portato dietro una bottiglietta
dell’acqua e un termos di caffè, ma aveva paura a bere. Il timore che la
necessità di svuotare la vescica lo costringesse a perdere il posto, lo
terrorizzava. La prospettiva di rilasciarla sul posto, facendosela nei calzoni
non era certamente allettante: il disagio e l’odore che ne sarebbe derivato lo
disgustavano. Era stato educato a tenere comportamenti civili e decorosi, rispettosi
nei confronti dei diritti e dei doveri verso sé stesso e il prossimo che, anche
in quella drammatica circostanza facevano sentire tutta la forza del loro
condizionante rispetto. Aveva già avuto modo di osservare che quello che temeva
si era verificato in altre persone più avanti a lui nella fila.
Per il timore di perdere il posto alcuni si erano
urinati addosso, altri avevano abbandonato momentaneamente la postazione per
appartarsi, dando origine all’insorgenza di liti e discussioni che ancora non
si erano completamente placate.
Davanti a sé ogni tanto qualcuno si piegava sulle
ginocchia e abbozzava qualche flessione, mentre altri saltellavano sul posto
allargando ripetutamente le braccia. Non era certo dovuto al fatto di mantenere
la forma fisica, quanto al timore di non riuscire a muoversi regolarmente
quando la fila si fosse smossa.
<<Tieni duro ancora un po’.>> gli suggerì
una voce interiore <<Fra poco, nulla di tutto questo avrà più alcuna
importanza>>.
Prese il thermos e ingollò un sorso di caffè ormai
freddo.
<<Fregatene, vada come vada,>> gli
sussurrò la stessa voce <<tanto non ne uscirai vivo!>>
La bomba a neutroni di una potenza inimmaginabile era
stata sganciata sulla capitale a nemmeno 400 chilometri di distanza. Aveva
lasciato intatte le strutture, ma distrutto ogni forma di vita animale e
vegetale in un raggio di 10 km. e generato un fronte radioattivo che si
espandeva in tutte le direzioni alla velocità di 90 km. all’ora.
Dove il fronte passava lasciava dietro di sé morte e
disperazione. I colpiti dalle radiazioni andavano incontro a lesioni
irreversibili della cute e degli organi interni che si traducevano in ustioni,
emorragie, stato di shock, decesso, o, nei casi meno favorevoli, sopravvivenza
in stato preagonico di durata variabile a secondo del tipo delle lesioni. Se
non interveniva la morte, dopo una sofferenza fisica e psicologica devastante,
la prospettiva era lo sviluppo di malattie degenerative con un decesso
procrastinato nel tempo.
Una sopravvivenza compatibile con la facoltà di riprodursi,
per chi si trovava esposto a una dose meno massiccia di radiazioni, era una
prospettiva ancora più detestabile in quanto foriera del manifestarsi di
malformazioni e malattie geneticamente trasmissibili.
Davanti a lui la fila ondeggiò e si mosse:
immediatamente anche lui ricuperò qualche metro. Una voce stava facendosi
strada passando di bocca in bocca: «sono arrivati i robots …»
Una speranza, quasi un fremito fisico, serpeggiò lungo
l’infinita colonna che si estendeva per diversi isolati. Una tenue speranza
incominciò a farsi strada.
Consultò ancora l’orologio e secondo le ultime
informazioni ascoltate alla televisione prima di uscire di casa, mancavano meno
di 3 ore all’arrivo del fronte, salvo imprevisti e in quel tempo gli imprevisti
erano all’ordine del giorno.
Evacuare la città e abbandonarla prima dell’arrivo del
fronte radioattivo, ammesso e non concesso che fosse stato possibile, avrebbe
significato ritardare di qualche ora o al massimo di qualche giorno una sorte
che ormai sembrava inevitabile.
L’alternativa, la strada che aveva imboccato, era
sembrata la più dignitosa e quella più rispettosa della natura umana. Morire
fra sofferenze spaventose di durata imprevedibile o sopravvivere con qualche
patologia ripugnante che l’avrebbe trasformato in un’attrazione da circo, non
gli pareva un’opzione accettabile.
Aveva fatto la scelta giusta. Non rimaneva altro che
sperare di starci dentro coi tempi.
Guardò la coda dietro di lui; aveva raggiunto
un’estensione inconciliabile con la probabilità di soddisfare le legittime
aspettative dei partecipanti. Qualcheduno doveva essersene accorto, perché gli
sembrava che dietro l’isolato più distante fossero scoppiati dei tumulti.
Davanti a lui le persone si mossero e la fila si accorciò considerevolmente.
Passarono altre due ore. Un vento caldo aveva preso a
soffiare più deciso, allarmante segnale di una sventura che si preannunciava in
anticipo rispetto alle previsioni.
La vescica cominciò a premergli in basso e la volontà
di urinare si fece più impellente. Decise che avrebbe resistito ancora un po’
almeno fino a quando l’ingresso dell’edificio non fosse stato visibile e poi
non si sarebbe più trattenuto.
Passò un’altra ora e alla fine l’entrata fu in vista.
Aveva davanti a sé si e no 20 persone quando rilasciò lo sfintere. Un liquido
caldo gli scivolò lungo le cosce e raggiunse le calzature inzuppando quella di
sinistra. Il pantalone bagnato gli aderiva contro le gambe procurandogli una
situazione di disagio. Si impose di non pensarci e di continuare a comportarsi
come se nulla fosse avvenuto. Se passava un altro po’ di tempo il vento caldo
lo avrebbe asciugato e quando fosse entrato forse non avrebbe lasciato impronte
sul pavimento. L’assenza della pressione all’interno della vescica gli aveva
restituito una sorta di benessere alimentando la speranza di riuscire nel
proprio proposito.
Nonostante questo picco di ottimismo, la fila si
fermò.
Trascorse un po’ di tempo e non si registrò alcun
movimento.
Frattanto si stava spargendo la voce che l’edificio
fosse stato abbandonato e che all’interno non ci fosse più nessuno ad espletare
la procedura. Una sensazione di panico incominciò a manifestarsi e si propagò
lunga la coda con la velocità di un’onda: trasmissione di pensiero e non di
movimento, gli venne da pensare, ricordando il moto concentrico provocato dal
lancio di un sasso nello stagno in cui c’era trasmissione di moto, ma non di
materia.
Il panico ben presto si trasformò in furore e col
furore la fila si scompaginò. Vide alcune persone che dall’interno
dell’edificio uscivano alzando le braccia e tracciando gesti nell’aria
apparentemente privi di senso. Poi una voce si levò alta esortando ad entrare
senza più rispettare le regole.
Si trovava a pochi metri dall’ingresso e decise
comunque di ascoltarla e di andare a controllare di persona cosa fosse
successo.
Nel grande atrio semicircolare il caos era completo.
La gente andava avanti e indietro senza uno scopo chiedendosi cosa fare. Dietro
le vetrate che consentivano la vista sulle stanze di medicazione non c’era
nessuno. Alcune tute bianche appese sembravano abbandonate da poco.
Intese qualcuno chiedere:
«Si può sapere cosa è successo?».
La risposta con un timbro più acuto e stridulo affermò
che se ne erano andati tutti. Nell’edificio non c’era più nessuno e non era più
possibile avviare la procedura.
«Dove sono andati?» chiese un terzo.
Nessuno era in grado di rispondere.
Ci furono mormorii, imprecazioni, maledizioni,
minacce, alzate di spalle, gesti inconsulti, ma una risposta vera non ci fu.
Sentì un tizio alto e grosso proclamare a gran voce:
«Senza una preparazione io lì dentro non ci vado!»
«Io nemmeno! A tutto c’è un limite!» urlò un altro.
In quel caos generalizzato dove più nessuno era in
grado di capire e decidere, forte risuonò l’altoparlante che in modo stentoreo
e seguendo un automatismo programmato, annunciò che a causa del forte vento, il
fronte radioattivo sarebbe arrivato entro 10 minuti.
Il panico dilagò immediatamente. Come formiche
impazzite le persone correvano in tutte le direzioni, si urtavano, si colpivano,
cadevano e si rialzavano o venivano calpestate in una frenesia di azioni e di
grida scomposte senza più nessun riferimento razionale.
Si fece strada a forza spintonando e proteggendosi
contemporaneamente da quei gesti scomposti e inconsulti fino all’accesso
dell’abitacolo accanto alla porta di acciaio scorrevole.
Vide la grande leva scura che sporgeva dalla parete e
senza un attimo di indecisione la impugnò saldamente con entrambe le mani. Con
tutte le forze a disposizione azionò il meccanismo. La grande porta d’acciaio
incominciò a scorrere sulle guide rivelando l’inferno che ci stava dietro.
Senza un grido, o una parola, prese la rincorsa e si
lanciò fra le fiamme che alimentavano il forno inceneritore.
L’ultimo rumore che percepì fu quello dell’ingranaggio
che, secondo quanto gli avevano spiegato, macinava nella fossa sottostante, le
ossa che il calore non poteva distruggere.
Extrema ratio è un racconto di Alessandro Grignaffini
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