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MICHELE CAIATI
MICHÈ
(cinquecentocinquantamila pugni)
Prefazione
Signori sto per
darvi un’indiscutibile prova di coraggio, per quanto sgradita possa essere
l’impresa, riporterò alla luce quelle scandalose fasi della mia vita dalla
quale, alla fine, emersi per assaporare le poche gioie della buona sorte.
Ancora nel fiore
degli anni, posso coltivare quegli interessi di onesta natura che, persino nel
gorgo di bassi piaceri in cui venni gettato, mi permisero di osservare
caratteri e comportamenti umani.
Odio ogni
preambolo inutilmente lungo e quindi non cercherò altre scuse per prepararvi a
leggere la parte della mia vita, narrata con la stessa libertà con cui l’ho
vissuta.
Capitolo Primo
(così detto
inferno)
Là dove dormono gli uccelli
La signora
Maddalena con un fiore tra i capelli faceva il mimo alle ragazze andaluse, per
quanto il suo pensiero alquanto lo dissimulasse.
Quanto a Michè,
aveva già i suoi pensieri per i pochi anni che aveva allora.
Che gioia! Che
terrore! Sempre aveva avuto questa impressione quando spalancate le finestre si
tuffava nell’aria aperta del mattino; eppoi sentiva un indescrivibile arresto,
una sospensione, un presagio, un’avvisaglia terribile; e fissava il Tiflis che
scorre profondo con l’acqua orlata dai salici verdi e i rami ingombri della
piena invernale; e guardava gli alberi così saldi e dritti e le cornacchie che
emergono dalla nebbia in volo; e guardava la nebbia che pareva un’onda che
s’infrange sugli scogli; e stava lì e guardava, quando Concetta Abbati, in
meditazione sul terrazzo, disse:
«Vi state
mangiando il nostro sangue!»
Disse così? O
disse:
«Io preferisco i
vampiri ai bambini!»
Non ricordava
bene, perché le sue parole erano così lagnose, ma certe espressioni rimanevano
impresse: gli occhi, il sorriso, quel suo modo di fare scontroso, le battute
sulle salme, pungenti come il temperino; e tra migliaia di altre cose ormai del
tutto svanite, com’era strano, alcune espressioni come quella sul sangue e dei
vampiri.
Ecco!
Da dove
cominciare? Un giovanotto, dall’aria semplice nel colmo di un giorno
fresco e calmo, ricorda le circostanze nelle quali, circa cinquant’anni or
sono, i fatti andarono prendendo forma nei luoghi di una città delle solite
delle Puglie, dove così tante erano le botteghe dei barbieri e le imprese di
pompe funebri da far pensare che i suoi abitanti venissero al mondo solo con il
proposito di farsi la barba e i capelli; e quindi morire.
Che senso intenso
e sconvolgente di paura e di esultanza! Sempre aveva avuto questa impressione
quando col pensiero, lo stesso che sente proprio ora, ripercorre come in un
sogno, la strada che dal capoluogo si affida alla ferrovia e, con questa,
s’incammina tra paesi in salita e in discesa sopra abissi che un tempo erano
considerati inesplorabili.
Dopo una sosta
piuttosto lunga in quella zona ventosa e poco attraente, comincia la parte
propriamente avventurosa del viaggio; una salita ripida e costante che pare non
debba finire mai, mentre, tra affanni, interruzioni e intoppi, la locomotiva
piccola, ma, dotata d’insolita potenza, lo portava dalle rive del Mare
Adriatico alla stazione della sua città natale.
Michè (così si
chiama il giovane), non aveva voluto attribuire particolare importanza a quel
viaggio e neanche svelarlo con tutta l’anima. Era stato invece del parere di
raccontarlo in fretta e ritornare tale e quale a riprendere la sua vita,
esattamente nel punto in cui per un momento l’aveva lasciata.
Dentro i
fatti.
Lui abitava in
cima a un palazzo.
Da lì spiava sino
a perdersi; e dove si perdevano gli occhi anche il cuore restava invischiato.
Troppo vuoto si spalancava davanti, specie la notte, e si sentiva tutto il
vuoto che c’è sotto il cielo stellato.
Quando andava per
i cinque sei anni, i confini erano la casa di sua zia Concetta, due porte a sud
dalla sua, e la casa di zia Elvira, una porta a nord; e questa storia inizia
giusto un mattino, quando uno dei due inquilini (che poi sono le sorelle di sua
madre, che è già morta e sepolta, tanto per cominciare), supera il proprio
confine per fare una iniezione ad un bambino di sei anni circa di nome Michè.
Miché
Io sono Michè.
Dalla finestra
vedo la strada fonda, solenne, massiccia dove le ruote e gli zoccoli dei
cavalli sollevano nuvole di polvere.
Un vento leggero
segue le nuvole spingendole verso sud, un vento che asciuga piano il verde.
Passa qualche minuto e il vento si fa più forte e teso e, a poco a poco, il
cielo si scurisce di polvere, il vento si abbassa fino a sfiorare il suolo.
A quel punto vedo
zia Concetta avvolta in una nuvola di polvere, appostata sul terrazzo.
Le si leggeva il
cuore in volto e stava là cupa come la figura di un boia in attesa di una
esecuzione.
Osservai i
suoi occhi fiammeggiare e si capiva ch’era inconscia nel suo cappello. Non era
il cappello adatto per la mattina presto e quando si agitava, come ora,
togliendosi il cappello con un gesto stravagante, la faceva sentire come
un’educanda neanche diciottenne.
Aveva addosso una
giacchetta color rosso sangue e un’orchidea che le spirava in petto moscia e
ricadente.
Quella volta, mi
chiesi che sarebbe interessante sapere perché sono così cattivi questi parenti
di seconda, di terza, o di quarta classe.
Ma quella mi
farebbe annegare in una vasca di pesci rossi se solo sospettasse che la
definisco di terza o di quarta classe.
Lei era ritornata
dalla Russia uno dei giorni di gennaio o febbraio, perché era interessata alla
politica come un uomo.
Ricordo che puzzava
di sudore e non si poteva restare in una stanza con lei per più di cinque
minuti, senza che non ti facesse perdere ogni pace.
Aveva una fissa in
testa. Voleva farmi una siringa. Insomma, voleva darmi un palliativo perché
secondo lei ero turbolento e mia madre col più amabile dei sorrisi le disse:
«Ma che
sciocchezze dici? Vuoi rovinarmi il bambino?»
Spesso, quella zia
mi saettava davanti con un grido da strega, tanto che, alla fine, era diventata
uno di quei fantasmi con cui si combatte la notte, uno di quei fantasmi che ci
si attaccano addosso e ci succhiano il sangue, sempre più dominatori e tiranni.
Fu così che entrai
in un mondo così pauroso che iniziai a tremare, specialmente quando pioveva a
dirotto e i fulmini squarciavano il cielo.
Quando la pioggia
si faceva più intensa, la mia consolazione, dopo che salivo per coricarmi, era
che la mamma sarebbe venuta a darmi un bacio, una volta che io fossi a letto.
Ma quella
buonanotte durava così poco, lei ridiscendeva così presto, che il momento che
la sentivo salire era per me un momento doloroso. Infatti, era la nonna che
entrava in silenzio e piazzava sul pavimento la bacinella e un secchio, nei due
punti dove il tetto perdeva.
Non riuscivo a
dormire e fissavo lo sguardo su un quadro appeso al muro. Un dipinto che
rappresentava un bambino seduto su una nuvola, intento a guardare qualcosa in
lontananza.
Era la solita
notte pre-primaverile, il freddo s’infilava gelido nelle stanze. E così quella
buonanotte, che amavo tanto, mi spingeva ad augurarmi che arrivasse il più
tardi possibile, perché prolungasse il tempo di tregua, poiché sapevo che la
mamma non sarebbe mai venuta. Ancora oggi sono perseguitato dalla mancanza del
bacio della buonanotte.
Poi cominciavo a
sognare…
Registratore di un sogno
All’ultimo raggio
di luce, che vide avanzare le tenebre, mi investì un fetore di muffa con due
donne vicino. Mastica e sputa la prima, mastica e sputa l’altra, e io con una
penna a fare un inventario su fogli di cristallo che si frantumano.
Mamma avanzò leggera,
alta, eretta, per essere subito salutata dalle facce foruncolose delle sorelle,
che avevano sempre le mani rosse come se le avessero tenute a bagno nell’acqua
fredda.
«Eccoli, i fiori!»
dissero le due «Ci sono le rose, i grappoli di lillà e i garofani a
profusione!»
I peggio che
avevano trovato appassiti in fondo al canestro, mentre una delle due se la
svignava con l’aria colpevole.
A trentatré anni,
la mia mamma era nel suo splendore della beltà. Di statura piccola, ma di forme
perfette, aveva il volto d’incantevole leggiadria in quel sogno vivido come
fosse reale.
Verso sera chiamò
intorno a sé noi tre figli; e ci fece preparare l'occorrente per andare… «Per
sentirmi in pace con l’universo!»
Disse così? O
disse:
«Le disgrazie sono
sempre orrende!»
Non ricordo bene.
Così si fece un
allegro inventario nella stanza, dove una leggera brezza gonfiava le tende
spingendone un'estremità contro l'altra, facendole somigliare a delle pallide
bandiere.
«Nulla manca nelle
tue valige mamma: l’abito di percalle e quello di seta fine e trasparente. Hai
fatto bene a tagliare la coda al tuo vestito blu, la coda è insopportabile
d’inverno, figurarsi d’estate. Degli altri abiti e abitini non parliamo: sono
sepolti nelle tue valigie. I cappellini minuscoli che si gonfiano al vento
leggero, gli spilloni con la testa a pallottole, le farfalle cangianti e certe
graziose spille color verde mare. Tutto quanto mi fa rimanere pensieroso,
perché mi chiedo, quante cose può portare in testa una donna oltre al cervello!
Ma, è inutile attirare la tua attenzione sulla gravità di questa riflessione.»
«Scendendo ai tuoi
piedi, dirò che approvo gli stivali delle escursioni e, non ho nulla da dire
per gli ombrellini, cominciando da quello mostruoso che sembra una tenda. Sotto
il sole tu e il tuo sposo sembrerete innamorati per sempre, passando a quello a
fondo giallo, e per l’altro a fondo rosso. Poi i ventagli, le borse, mi hanno
lasciato una grande tranquillità d’animo. Nelle gite in montagna; nelle lente
passeggiate al mare; nella luce del sole e in quella delle stelle, tu sei
adorabile ma’!»
«Ma qui, in mezzo
alla mia dolcezza della mia soddisfazione, vi è un punto amarognolo che non
riesco a capire! Non appare nostro padre!»
«Ho un sospetto
ma’! Questo non sembra un sogno! Sembra tutto così reale!»
«Senti qua! E non
cercare di schermirti scherzando e ridendo come sei solita fare! Tu hai un
progetto cara! Non negarlo!»
Si irrigidì
appena, fece una risatina e, vedendo che così bene indovinai il suo pensiero,
rimase sorridente ad accarezzare nella mente il suo disegno gaio.
«Non sorridere
ma’! Non sorridere, ti prego! Usciamo da questo posto orribile!»
Ma lei se ne stava
lì, posata in attesa di attraversare la strada, ben dritta…
Di botto mi
svegliai nel mio letto.
Era stato solo un
sogno, un sogno da incubo.
Dio solo sa perché
un sogno lo vediamo così, ce lo inventiamo, lo fantastichiamo, lo facciamo ogni
notte lo stesso.
Per pigrizia? Per
avarizia?
Ora però faccio un
passo avanti di qualche decennio ragazzi, perché queste note, scritte in vari
momenti non sono qui in ordine cronologico.
Quello che voglio
ricordare sono cose disparate che si mescolano poco chiaramente, non solo nella
mente, ma anche in un diario.
Ciò a
dimostrazione che i fatti, nel tempo, hanno una loro ragione.
È come aver
sognato un labirinto a forma di spirali e io, in ginocchio, disperato, a
trovare una via d’uscita.
La consegna del libro
Così, un giorno,
davanti alla colonna carburanti di via dell’Abbondanza, il tram rallentava
girando sugli scambi e a destra e a sinistra dei binari sferraglianti;
partivano le vetture al comando del capo stazione della società tranviaria;
quindi la vettura svoltava sulla linea di corsa e io scendevo alla fermata
facoltativa di contrada Colombo Cristoforo, dove abita mia sorella Lia.
Lei aveva già il
suo bel daffare. Era ritornata dall’Inghilterra in giugno o luglio.
Mi aveva scritto;
ma le sue lettere erano noiose, perché mi scriveva che il suo lavoro di
interprete era faticoso.
Percorro l’ultimo
tratto di strada che mi separa da lei e il tutto intorno sembra voler dire che
è il brutto, qui, ad aver ragione.
Prendo il libro da
una tasca e lo metto nell’altra; e incontro lei.
Mi avvicino al
tavolino, mi siedo e incomincio col dire:
«Non aspettarti
che io ti indichi il senso della vita con questi scritti!»
E, con questa
frase, ho la sensazione che la narrazione inizi ora.
«La mia piccola
spada,» continuai «cioè la penna, l'ho infilata nel loro orgoglio, dopo aver
accolto il tuo invito a raccontare quello che successe. Pensa, ancora adesso
non riesco a parlarne e, caso mai, ne parlo solo con questi scritti! Leggi le
pagine che riguardano la mamma! È un pezzo della nostra storia!»
Ma, al momento,
lei tirò fuori il vecchio plico degli appunti e disse:
«Sei sicuro che
sia solo la nostra storia? Non è andata proprio così, caro mio! Leggi qua, dopo
tanti anni sarebbe ora che mi dicessi la verità a proposito del fantasma!»
Miché è un racconto di Michele Caiati
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