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BRUNA FRANCESCHINI
LA NATURA DELLO SCORPIONE
Foto
di Pixabay
Apre gli occhi. Li richiude
subito. Le fa troppo male la testa. Si rituffa nel sonno, ma il mal di testa
diventa il sogno del mal di testa. Tanto vale alzarsi.
Leggera nausea appena tenta di
tirarsi su appoggiandosi a un gomito. La stanza vacilla. Stringe tra il pollice
e l’indice l’attaccatura del naso per bloccare almeno il mal di testa. Si tocca
la fronte e le tempie, sente quelle trafitture premere sulle dita.
Torna a sdraiarsi sul letto e
ci rimane come un gomitolo immobile. La sensazione di avere un cane nero
acciambellato sulla bocca dello stomaco, che brontola, come fango che ribolle.
È nausea dà vita agra, si
dice, da banalità, da maleducazione e volgarità. Non può continuare a
protestare d’ufficio senza ottenere ascolto, così da dubitare di essere lei ad
avere torto. A chiedersi se sia lei a non capire.
Anche se sa bene come non sia
soltanto questo il motivo della sua sfiducia proclamata, del suo pessimismo a
oltranza. Del suo urgente bisogno di andare via in compagnia della sola sé
stessa, in regime di sovrana indipendenza. Per trovare un nuovo equilibrio. Uno
spicchio di innocenza.
Schizza dal letto e,
finalmente in piedi, tira su le tapparelle. La luce impietosa le aggredisce gli
occhi, costringendola a chiuderli. Si precipita in bagno per sottoporsi
all’analisi mattutina.
Dallo specchio la guarda un
viso dall’espressione accigliata: la solita faccia da lemure triste, i capelli
che cadono inerti sulle spalle, barometro del suo maltempo. Li taglierà, prima
o poi. Solo a lui piacciono così lunghi. Ma non è più una ragazzina, anche se
lui la chiama Meraviglia.
Si siede sul bordo del letto,
accanto alla valigia aperta: deve eliminare qualche abito e delle scarpe. Una
volta stava attenta ad abbinarne i colori, ora non ha voglia di curarsene. Deve
togliere anche un paio di libri almeno, per farci stare gli scarponi da
trekking e il portatile. Del resto, non riuscirà a leggerli tutti. Avrà altro
da fare. Camminare, riflettere, scrivere…
Dà un’occhiata all’orologio
sul comodino e d’improvviso si accorge che non c’è tutta quella fretta. Afferra
il telefono e fa il numero: la voce metallica della segreteria telefonica si
infila come un verme nell’orecchio. Riattacca.
Le sembra di non ricordare più
il viso e la voce di lui. Come se la malinconia si fosse cibata della memoria.
Che tutto sia stato solo un equivoco?
Ma forse è proprio quella
specie di amnesia che ci vuole. Affinché il tempo che si è impadronito di lei
non la divori. Lo specchio ne è testimone. Esistono specchi ottimisti e specchi
pessimisti. Il suo è obiettivo e le rimanda una caricatura della faccia a lei
nota, come se quell’ultimo anno le avesse corroso i lineamenti.
Lasciatasi alle spalle il
tanfo e l’orchestra di clacson scordati di Milano, si infila nell’autostrada.
La radio trasmette canzoni degli anni Sessanta, gli anni della sua innocenza,
gli anni in cui la musica aveva un posto centrale nella sua vita e cullava la
sua preziosa solitudine.
Quando i Platters irrompono
cantando “They asked me how y knew my true love was true” realizza che quella è
la domanda che anche lei si fa da qualche tempo, ma non ha la stessa sicurezza
nel rispondersi che “something here inside cannot be denied”.
Perché invece qualcosa, dentro
di sé, lo nega.
A Trento, frammento illustrato
della sua infanzia, un rapido saluto a sua madre prima di imboccare la
carreggiata che fende la roccia nuda e scava buie gallerie, sfociando in un
paesaggio molto cambiato: capannoni, case, alberghi, meleti e distese a perdita
d’occhi di coltivazioni di piccoli frutti.
Prende infine la ripida strada
che la porterà fino al luogo delle sue passate villeggiature. Imprigionato in
un’eterna immutabilità.
È ansiosa di tornarci, di
intrufolarsi di nuovo nella sua scabra intimità, abbandonarcisi senza armature.
Una sorta di nostalgia le morde lo stomaco.
Pigia sull’acceleratore, vuole
arrivare prima del temporale che minaccia di anticipare la notte con il suo
manto di spettralità.
Lampi squarciano le nubi.
Sordi boati a qualche distanza. Ma l'acqua resiste, trattenuta come un tumore
maturo dalla cortina di piombo.
Attraversa una ridda di abeti
dalle piatte fronde oscillanti, che sembrano correre in senso contrario, finché
il panorama si apre in una distesa di prati.
L’aria, impregnata della
fragranza dolce e pungente dell’erba appena falciata, le dà la piacevole
sensazione di essersi lasciata alle spalle i fragori e i fetori della
modernità.
Fortunatamente non c’è anima
viva in giro e può continuare a pigiare: il mondo scorre veloce, le ruote
scivolano sull’asfalto, sfiorano il bordo terroso, sassolini rimbalzano contro
la carrozzeria.
Un capriolo le attraversa la
strada e si arresta di colpo, fissandola quasi con sdegno, prima di sparire tra
le fitte conifere.
Sterzata rapida. Brivido lungo
la schiena. Odore di morte.
Rallenta. Per un pelo non è
uscita di strada. Si sarebbe schiantata contro un tronco o sarebbe rotolata
come un barattolo, prima di schiacciarsi nel torrente. Evidentemente non è
ancora arrivata la sua ora.
Ha però la strana sensazione
che la tragedia abbia fatto capolino. Che la morte le sia passata accanto di
corsa e l’abbia superata per la fretta di andare da qualcun altro. Che il tempo
si sia fermato e lei ci si trovi incastonata dentro, come un insetto
nell’ambra.
Improvviso desiderio di essere
già a casa. Non a casa sua. A casa.
Arriva al paesello mentre le
prime gocce cominciano a spiaccicarsi sul parabrezza: la piazzetta e le strade
sono deserte, le imposte sbarrate. Il rosso acceso dei gerani ai davanzali
unica nota vivace in un paesaggio livido. Ci torna dopo quanto? Le sembra sia
passato un secolo «Ah quanto tempo!» dalla crisi del suo matrimonio, con la
decisione di rinunciare alla montagna familiare per fare vacanze separate, in
posti esotici: lui in Brasile, lei a Creta; lui in Egitto, lei in India; lui
sempre in compagnia, lei quasi sempre da sola o con suo figlio.
Non ha però dimenticato la
quiete di quell’agglomerato di case capricciosamente disallineate ma unite le
une alle altre, aggrappate alla montagna, come avessero i polmoni in comune per
respirare. E dove le voci, i rumori, sono sempre gli stessi, riconoscibili a
occhi chiusi.
Solo a quello ha pensato
(forse) quando ha deciso di trovare un posto dove poter riflettere e scrivere
indisturbata. Dove lo shopping non può essere il suo sfogo, il modo per placare
l'ansia che da un anno la tormenta.
Un posto dove la vita prosegua
con il solito tran-tran, lento e sempre uguale, com’era dieci anni prima, come
sarà tra dieci. Dove la solitudine non è del cuore. Non come quella della
metropoli, una landa inaridita, dove ci si sente eremiti in un deserto di cemento,
di asfalto, di moltitudini, di strepiti, di ruote.
Si è fatta dare la chiave da
sua madre: non vuole scomodare Palmira, che ne ha una copia, per non dover
rifiutare il probabile invito a cena e l'inevitabile ciacolata. Ha fretta di
cominciare, magari la sera stessa, con un giorno di vantaggio sulle
spiegazioni, sui cicalecci e sui saluti che dovrà dispensare quando scenderà
allo spaccio per comperare il pane.
Tenendo l’impermeabile sulla
testa e reggendo con le mani la valigia, esce dall’auto. Il cortiletto è
deserto. Anche la strada.
La casa è rimasta disabitata
da quando un incidente d’auto ha costretto suo padre in sedia a rotelle e
trasformato le ripide strade del paesino in una barriera architettonica.
Sale la breve scala e arriva
davanti alla porta. Ha il fiatone e si ferma un attimo prima di inserire le
chiavi nella toppa.
Entrando, prova un brivido,
forse per i ricordi che le saltano addosso come pulci, forse per la lampadina
dell'atrio, che scoppietta e poi si brucia, non appena preme il tasto
dell'interruttore. Procede a tentoni nell’oscurità fino alla lampada a stelo
accanto alla poltrona Frau, una tassativa esclusività di suo padre, e ci si
lascia sprofondare. Si scioglie i capelli e si toglie le scarpe. Ha le caviglie
un po’ gonfie e se le massaggia.
Perlustra la casa a piedi nudi
con un groppo alla gola. Chissà perché. Il frigorifero reagisce con orgasmo
all'inserimento della spina. Anche il boiler si accende ubbidiente. Lenzuola e
coperte ben riposte nell'armadio. Nessun afrore di stantio ma effluvio di
lavanda. Miracoloso. Sui mobili e sul parquet ancora lucido, neanche un
granello di polvere. Incredibile.
Sensazione che un’arcana
presenza abbia dimorato nella casa disabitata e ora se ne stia acquattata,
fiutando il suo sangue e pronta a pigiare il dito arcuato e unghiuto sul suo
tasto dolente.
Una pioggia fitta inonda il
balcone e batte sui vetri quando alza le tapparelle per dare luce agli ambienti
e rimirare il paesaggio della sua memoria: montagne che al mattino suscitano un
sentimento calmo e placido, per diventare vagamente mesto verso il tramonto, di
una mestizia che però accarezza il cuore, non lo strozza.
Ma il tempo plumbeo le lascia
solo ricostruire mentalmente le linee curve dei monti, le fitte pinete, i prati
pendenti.
Riesce appena a distinguere il
profilo della scuoletta asburgica (vuota da quando sono state abolite le
pluriclassi e un minibus trasporta i pochi alunni giù al piano, in quello che
ora si chiama istituto onnicomprensivo), della chiesina (ci sarà ancora il
prete operaio, che la domenica saliva a turbare con omelie infuocate le
coscienze assopite dei tetragoni montanari e dei sordi villeggianti?), del
minuscolo cimitero (la sua rassicurante immobilità, i rari funerali, la bara
portata a spalla e poi tutti al banchetto dei vivi e dei morti: pane e
formaggio, un bicchiere di rosso, gli uomini a fumare e conversare, le donne a
servire e ripulire).
Sbircia la grande villa di
pietra, grigia come la neve vecchia, unica costruzione immodesta del paese, dai
contorni feudali stagliati contro il cielo. Il campo da tennis, la piscina, il
giardino odoroso di caprifoglio e biancospino sono accuratamente nascosti
dall’alto muro. L’extraterritorialità è invece rimarcata dalla massiccia
cancellata di ferro battuto e da un ostentato videocitofono.
Ai tempi del liceo frequentava
assiduamente gli studenti di sociologia (le cui riottose scorribande
allarmavano la sonnacchiosa cittadinanza) e aveva scritto una serie di solenni
quanto banali editoriali per il giornalino della scuola a sostegno della tesi
che il mondo era suddiviso in modo indecentemente ineguale. Quando poi l’estate
era salita in paese per la solita lunga villeggiatura e aveva ribadito anche lì
come fosse un’indecenza che i proprietari della villa, dei ricchi milanesi, la
utilizzassero sì e no due settimane l’anno (con tutti i diseredati senza
casa!), si era accorta che il suo senso di indispensabile decenza non suscitava
alcuna aperta (men che meno entusiastica) condivisione. Anzi, qualcuno le aveva
persino dato della politicante.
Erano altri tempi, ora su
quella villa non aleggiano più spasmi di luce tetra.
Improvvisa inquietudine. Nuova
sensazione di sofferenza in agguato. Lama che la fruga. In mente un turbine:
più che pensieri, sensazioni.
Volge lo sguardo alle case in
basso, le luci già accese. Più vicine, quella di Palmira e la baita di Ilario.
Se l’immagina, lui a succhiare la pipa accanto al fuoco, lo sguardo perso nel
vuoto della sua anima semplice, lei che borbottava perle di saggezza a sé
stessa mentre era intenta a preparare la cena sul fornello crepitante: tortelli
di patate? Crauti e carré di maiale? Canederli in brodo o al burro fuso?
Polenta e finferli?
Cerca di inseguirne i sapori,
ma i sapori perfezionati dalla memoria sono impossibili.
Per questa sera si
accontenterà del sapore delle lasagne al forno che sua madre le ha
premurosamente infilato nella borsa quando è passata di fretta a prendere la
chiave.
Di fronte, separata solo dalla
strada lastricata di porfido, l'abitazione di Margherita. Decrepita, come se un
incantesimo avesse fermato il tempo. Completamente buia. Con lo stesso
ballatoio di legno malfermo che riversa una ripida scala sul selciato. Nel
corso degli anni le assi si sono spostate a loro piacimento, dando
l’impressione che l’intera struttura si sia ribellata al
costruttore-costrittore, assumendo una forma sghemba, un’aria pericolante.
Quando si deciderà quell'uomo
a riparare almeno la scala? Un giorno o l'altro qualcuno si farà male.
Le scaglie del tetto di larice
sono qua e là ricoperte di muschio: sotto la pioggia, illuminate dai lampi,
danno l’impressione di un lago alpino increspato dal vento, costellato di verdi
isolotti.
L’intonaco screpolato lascia
intravedere lo scheletro pietroso della casa. L’immagine complessiva è di una
malferma vetustà, di un corpo in piedi per miracolo.
Possibile che Margherita ci
viva ancora? Dovrebbe avere circa la sua età, ma Franca si domanda come
l'avranno ridotta il tempo, le gravidanze, il marito ubriacone. E le sette
fatiche. Oltre a rivoltare il fieno, fare il bucato alla fontana, accudire le
bestie, i figli e la casa, andava anche a servizio nella villa. Nonostante
tutto questo era attraente: alta e proporzionata, il corpo vigoroso, i movimenti
compassati, però pieni di energia vitale. Bionda come le spighe di segala
matura, zigomi pronunciati e naso dritto, occhi celesti che apparivano
indifesi, tanto le ciglia erano chiare.
Forse non la si poteva
definire una vera bellezza, almeno nel senso intrinseco del termine, eppure lo
era, quando l’arcano del suo sguardo non saliva in superficie con una sorta di
brutalità selvaggia, cieca, inappellabile. Gli uomini faticavano a guardarla,
non che la trovassero brutta, anzi, ma ne erano come turbati e, non potendo
toccarla, ne parlavano con disprezzo. Così anche lei li guardava con disprezzo.
C’era in Margherita una
qualità opaca e dura, che attraeva e respingeva al tempo stesso,
inconsapevolmente. Non dava confidenza a nessuno e non parlava, se non allo spaccio,
quando faceva la spesa: poche essenziali parole, dette con voce apatica,
strascicata.
Franca ha ancora un ricordo
molto vivo di quella donna dai lineamenti potenti, pieni di significato
misterioso e sensuale, ancorché diverso: l'impertinenza del suo incedere non
dimostrava alcuna considerazione per la gravidanza, che sembrava esibire come
un affronto.
«L’è na foeta» le aveva
farfugliato Ilario, mangiandosi metà delle consonanti.
Malinconico come a volte sono
malinconici i bambini, ma mai angosciato, come sono angosciati gli adulti. I
suoi capelli erano nerissimi, gli occhi smemorati e acquosi, il volto senza
età: gli si potevano dare trent’anni come sessanta. Nessuno, nemmeno lui,
sapeva quando e dove era nato, essendo stato abbandonato in fasce sulla porta
di una chiesa. Per lui erano tutti foresti quelli nati fuori dal paesello. Non
aveva moglie, neppure amici, anche perché di giorno (specialmente nelle ore di
luce forte) si nascondeva nel sonno, raggomitolato su una brandina senza
lenzuola, direttamente sul materasso e sotto la coperta. Era quel che si suol
dire una macchietta (una sorta di elemento pittoresco), ma la sua insufficienza
mentale non lo rendeva totalmente incapace, anzi, ci sapeva fare con gli
animali, cui sembrava legato da uno strano sodalizio. Col suo Puck, un
rottweiler nero, si capiva più che con gli umani. Quando un pirata della strada
aveva investito il volpino di Palmira, lasciandolo agonizzante sul selciato,
scosso da spasmi di dolore, gli aveva tenuto la zampa guardandolo negli occhi
supplicanti poi, con un’impassibile faccetta da sorcio, aveva preso una pietra
e gli aveva fracassato il cranio.
E se qualche mucca aveva
difficoltà a partorire (i loro parti sono sempre podalici), chiamavano lui che
infilava il braccio intero nella vagina per aiutare il vitellino a uscire,
mentre la bestia sembrava odorarne mite il pensiero semplice, istintivo,
affine.
Come Franca ha sempre
avvertito affine Margherita: per quel non so che di crepuscolare, di tormentato
e insieme solenne, solitario. Bagliori di temporale e spasimi di malinconia.
Chissà come è finita con quell'uomo molto più vecchio, con il fiato pesante,
incartato in un velo di catarro, gli occhi smorti e arrossati, pieni di astio,
le guance solcate da rughe profonde, come se avesse passato la vita digrignando
i denti guasti.
La sua storia l’ha sempre
incuriosita, ma non ha mai avuto il coraggio di prendere l'iniziativa e
rivolgerle la parola. Qualche volta le ha sorriso, sperando in un soprassalto
di aperturismo, però riceveva in cambio un cenno appena percettibile del capo,
come avesse sbattuto il viso in una ragnatela. Ha anche supposto di esserle
antipatica. Di avere, ai suoi occhi, il solo merito di essere nata con la
camicia.
Il microonde scatta e segnala
che le lasagne sono pronte: ne mangia distrattamente un'abbondante porzione,
mentre distrattamente guarda il telegiornale.
Fuori la notte ha vinto e
sembra che la pioggia si stia ricredendo, che il vento abbia rinunciato a farsi
valere.
È stata la dottoressa
Castelli, la sua analista, a consigliarle di cominciare a scrivere. Scrivere
per cercare di vedere in chiaro tutto quanto le passi per la mente. Scrivere
per arrivare al fiume sotto il fiume.
«Glielo dico, Franca, perché
ci siamo impantanate e faccio fatica a scalfire la barriera dei suoi silenzi,
delle sue resistenze. Scrivere la potrebbe aiutare a esprimere le emozioni
antiche, profonde. A ritrovare pacatezza».
«Cosa dovrei scrivere? La mia
autobiografia? Le mie confessioni?»
«Quello che le riesce meglio
per tornare alla luce, per dire chi è. La sua differenza: da quando è rientrata
nell’oscurità, si muove come in un velo. Scriva dunque per portare allo
scoperto ciò che non sa ancora di sé, della sua testa, del suo corpo. Uno
zibaldone dove annoti quanto più può: non solo i sogni, anche i pensieri
vaganti, anche se sciocchi o banali. Senza vergognarsi. Senza paura di
scandalizzarmi. Ma non su foglietti di carta volanti o casuali: su un quaderno
o, meglio ancora, direttamente sul computer, inseriti in un’apposita cartella
da titolo “Registro della mia mente” o qualcosa di simile».
Quando andava a scuola Franca
componeva dei bei temi, prendeva sempre nove o dieci perché scatenava la sua
fantasia e apriva le porte a città incantate, a foreste sterminate, a creature
fatate. Perché pensava a cose mai pensate. A tutto, insomma, fuori che a sé
stessa. Al suo di dentro.
L’idea di non rimanere più
alla finestra del suo cuore per guardare il mare di silenzio in cui
galleggiava, di annotare tutto ciò che aveva fatto o che avrebbe fatto in
futuro cominciava ad appassionarla.
Improvvisamente provava la
sensazione di essere un fiume in piena, che trascina tutto con sé. Di avere
sempre meno tempo e molto da dire.
Sentiva di non poter più fare
a meno di scrivere, come non poteva fare a meno della spina dorsale. Un
bisogno, quasi una necessità vitale, che si affacciava prepotente, con la
repentina decisione di partire. L’orgoglio per la decisione di curarsi a modo suo,
la sottile e insieme piacevole malinconia per essersi allontanata dal suo
mondo.
Voleva appartarsi, più che
abbandonarlo: del resto non ci si ritira da ciò che non ci appartiene.
E ora, arrivata nel suo
rifugio montano, comincia subito, con pudore e impegno. Al computer ha la
sensazione che sia la tastiera a guidarle le dita, anzi di essere lei stessa lo
schermo su cui imprime le lettere. Sente che il suo sarà un lungo viaggio
solitario, che le schiuderà un mondo di cui conosce solo le parole ma che scoprirà
solo dopo averlo scritto.
Che scrivere sia anzitutto
rievocare glielo prova la folla di ricordi che si spintonano per farsi avanti.
Ciascuno reclama priorità.
Qui ci vuole una pausa, pensa,
versandosi una fumante tazza di tisana al tiglio.
La pioggia ci ha ripensato e è
tornata a battere ai vetri, furiosa per essere stata chiusa fuori. Il vento
soffia da scoppiarsi le gote, come nel Re Lear shakespeariano, “turbini e
cateratte dal cielo”. Un lampo vicinissimo illumina a giorno il malconcio ballatoio
di fronte e una scarica di mitragliatrice scuote le finestre. Brivido. Ma non
di paura, anzi.
Un lamento acuto e acido:
«Iita…iita…»
Un gatto? Un cane? Un
lovegatto?
Forse si aggirano davvero per
i boschi gli incroci di leone e gatto con cui gli adulti del paese
intimoriscono i bambini:
«Non allontanarti troppo, che
ci sono i lovegatti! Non fare i capricci, o chiamo il lovegatto!»
Anche il figlio di Franca,
incantato come se si trovasse dentro un mondo di dolciumi, credeva ai lovegatti
e agli altri personaggi delle storie di Palmira. Lei le aveva ascoltate mille
volte dal nonno e ripeteva a memoria, con identiche parole, racconti popolati
da creature mostruose, da alberi che nella settimana del Rachmalner, tra Natale
e Capodanno, piangevano quando gli uomini li andavano a tagliare, del vecchio
sceso dalla montagna per dare tanti buoni consigli, ma i tetragoni valligiani
non lo volevano ascoltare. Lui allora era tornato su mormorando “peccato, avrei
potuto insegnare loro tante cose, e anch’io mi sarei liberato”.
Franca scosta la tenda per
guardare meglio e per una frazione di secondo ha l'impressione che una luce,
prima accesa, si sia spenta nella casa di fronte. Probabilmente il riflesso di
un lampo. L’atmosfera gotica le evoca un fantasma, ma è solo un panno steso sul
balcone e poi risucchiato dal buio, volato via col vento che mormora lungo i
muri, geme e si impossessa delle cose.
Ancora quella specie di
lamento:
«Iita… iita…»
Forse è il cigolio di qualche
porta o imposta chiusa male.
Poi il silenzio inghiotte
tutto, di quella notte mistica e portentosa.
La natura dello scorpione
è un romanzo di Bruna Franceschini
DELLA STESSA AUTRICE
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