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ALFREDO GUARINO
ECONOMISTI
E DINTORNI
foto di pixabay
SCENA PRIMA
Nella
enorme e tradizionale sala convegni dell’Hotel Excelsus Il prof. Ridolfo Solmar
aveva terminato la sua prolusione.
Si
era alzato; e, mentre perduravano ancora gli applausi, a passo veloce aveva
guadagnato l’uscita.
Lui
aveva preteso che fossero invitati all’evento tutti i docenti; specialmente i
professori di prima e seconda fascia; gli assistenti; ed i corsisti delle discipline
giuridiche ed economiche, diritto dell’economia, scienze tributarie, diritto
commerciale, economia politica, finanza pubblica, teoria generale del mercato,
diritto bancario, scienza dell’investimento, storia monetaria, ecc.
Non
per niente il prof. Ridolfo Solmar era l’idolo del diritto economico.
Sistematicamente,
faceva precedere le sue relazioni ed i suoi libri da interviste televisive che
ne anticipavano i temi.
Anche
stavolta!
In
una conversazione, trasmessa da Telemaldonada, con Gilda Vamolìn, la più nota
scoopetara dell’Oltrepò, ne aveva anticipato alcuni tratti, sulla riduzione del
debito pubblico.
Ed
era stata preannunciata una weltanschauung economica radicalmente
rivoluzionaria.
L’attesa
non era stata vana.
Recandosi
lentamente verso il poggio del conferenziere, strascicando i piedi (sollendo
lievemente i talloni per far scivolare piano piano le piante sul parquet),
Solmar aveva risposto ai cenni di saluto che sussiegosamente provenivano
dall’uditorio, con lievi piegamenti delle labbra, elargiti a destra e a manca.
E,
preso nelle mani il microfono, aveva tracciato la parabola decadente della
finanza mondiale, la crisi irreversibile dell’economia occidentale (aveva
richiamato il Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler e il pensiero di Heidegger
e Jaspers per affermare il suo discorso come il noumeno nichilista del pensiero
economico), il tracollo delle borse, l’implosione del sistema economico, la
catastrofe del mondo civilizzato, per concludere che la via di uscita e
salvezza era nel ripristino del baratto, valori reali per valori reali.
A
tale tesi era pervenuto studiando il pensiero del noto economico sino-coreano
Tieng O’ Pak, che, rinchiuso 12 anni, con 24 scienziati, in impenetrabili
uffici sotterranei, aveva impiegato immensi cervelloni Samsung, per concludere
l’inevitabilità dello sfacelo planetario.
E
pare che, non potendo raggiungere l’Ararat, per sfuggire a feroci investitori e
banchieri, avesse trovato rifugio in una grotta tibetana.
Il
professor Solmar aveva riservato, però, mentre già molti professori si
avvilivano al pensiero di dover modificare libri e lezioni, la sorpresa finale,
la chiave per ridurre il debito pubblico e rispettare i parametri di
Maastricht: con il prelievo diretto delle merci dai produttori, in sostituzione
delle tasse, si sarebbero potuti dare ai dipendenti pubblici generi alimentari
e di abbigliamento, articoli per la casa e pezzi di ricambio, in sostituzione
degli stipendi.
Una
rivoluzione copernicana.
Il
convegno sugli Alti Studi dei Nuovi Sistemi Monetari, promosso dal Preside
della Facoltà di Economia, proseguiva nel grande salone delle feste dell’Hotel
Excelsus, dalle alte vetrate laterali, stile Tiffany, e dall’alta centrale
raffigurante un papavero stilizzato ornato di foglie attorniato alla base da
altri papaveri, in stile Liberty.
Qui
erano stati predisposti vari tavoli per i partecipanti rigidamente organizzati
con i nomi degli invitati.
Al
centro della smisurata sala, erano state imbandite portate di ogni sorta.
SCENA
SECONDA
I
tavoli erano ormai tutti occupati.
Erano
stati allestiti con tovaglie romance di lino broccato ecrù; servizi di Villeroy
Boch di ceramica royal dinner; bicchieri colorati di baccarat; e posate
d’argento Bucellati.
Al
professor Solmar era stato riservato il tavolo centrale, al quale erano invitati
altri famosi economisti:
il
professor Baldo degli Ubaldi, luminare del diritto mercantile del ventunesimo
secolo, esperto della lex mercatoria, con la moglie Giuseppina ed i suoi
pargoli alquanto sprovveduti, che a fatica aveva collocato in università minori
tra i docenti; Fidelio, divenuto professore di vaccologia tributaria, che aveva
pubblicato un’opera sulla resa, carne e latte, delle varie categorie di vacche,
studiando tutte le specie esistenti, per i calcoli presuntivi dei ricavi nel
diritto tributario; Sigismondo, specializzatosi nello studio del potere
d’acquisto dell’ouguiya mauritano nelle transazioni commerciali interafricane.
Erano
stati ammessi a quel tavolo di prestigio, anche l’assistente Igino Menticucci,
promettente ma di famiglia estranea all’ambiente, e la allieva prediletta di
Solmar, Ainna Malfatta, professoressa di seconda fascia che vanamente reiterava
domande concorsuali per accedere ai professori di prima fascia.
Poi
c’erano: il prof. Ermete Passatempo, docente di storia economica romana,
esperto sull’uso del sesterzio nell’emptio-venditio di ovini dell’Apulia; la
consorte di questi Corinna; Lucia Luce, esperta di macroeconomia planetaria,
che aveva compiuto studi anche di proiezioni prospettiche nel sistema solare; e
ancora Nostolfo Nero, specialista di microeconomia aziendale, che aveva
acquistato notorietà mostrando le variabili incidenti sulle curve reddituali
dei venditori ambulanti di interiora suine e bovine.
Sull’immenso
tavolo imbandito al centro del salone, si mostrava ogni ben di bene.
Tutti
i commensali, dopo il discorso del prof. Solmar, vi accorsero con frenesia
furiosa, quasi come fossero sulla tolda del Titanic consapevoli del prossimo
naufragio,
Il
Preside aveva predisposto, per il prof. Solmar, una cena faraonica, che doveva
restare memorabile (ambiva ad una sua segnalazione per la successiva tappa
della carriera accademica): gamberoni in salsa d’asparagi di Bassano; salmone
affumicato del Qeensland su coulis di fragole silvestri della Patagonia al
sentore di kumquat e zenzero; polpettine di tonno rosso di Carloforte all’aglio
rosso di Proceno e cappero di Salina.
Poi
tre grandi vassoi di fritti: quello di pesce, (alici, neonati ed alghe); quello
di verdure (zucchine, cavolfiori, polpettine di zucca e polpette di melenzane);
e quello di frittate (di maccheroni, di baccalà, di gamberi, di carne macinata
di agnello speziato, di patate e porri, di tocchetti di pomodoro, di mela
cannellata e di mela agli agrumi), con barbotta e arbadela della Lunigiana,
sciatt e chiscioi della Valtellina.
Iniziarono
quindi i primi: tonnarelli alla ricciola; paccheri al ragù di bufalo; risotto
ai quattro molluschi; strozzapreti al castrato di pecora; cannelloni alla
caciotta degli Elimi del Belice; tagliatelle alle ortich; testaroli alla crema
di borragine e barbe di prete; pizzoccheri con fagiolini; gnocchetti al pesto
di rucola e mandorle.
Ma
il top, quando Solmar si avvicinò alla grande tavola imbandita, giunse con
l’assortimento di ravioli e raviolini (al cinghiale, alla cernia, al castelmagno
e robiola, alla caciotta di Alcantara e Muffieno, al tritato di aragosta di
Alghero, al formaggio Furfante e di Agerola, alle punte di asparagi al lardo di
Colonnata, agli asparagi alla salsa di rafano, all’impasto di carciofi alla
menta, al paté di zucchini aglio e prezzemolo, ai porcini tartufati, al salmì
di capriolo).
Egli
vi si avvicinò, già pregustando profumi e sapori per la sua missione.
SCENA
TERZA
Il
professor Solmar non andò oltre quei primi.
Improvvisamente,
si alzò dal tavolo assegnatogli e, senza proferir parola, sparì.
Dopo
poco, si avvicinò allo stesso tavolo, sorridendo, una procace signora tendente
ai 50 con scollatura ad ampio balconcino, capelli neri corvini raccolti da un
nastro luccicante verde smeraldo, come il colore di lago alpino degli occhi,
indossante un abito corto verde smeraldo e munita di collana, bracciale ed
anello di serpentelli d’oro.
«Caro
professore,» disse sporgendosi con i suoi seni verso il viso del professor
Passatempo «posso dirle una cosa? Vado a molte cene ma mai ho trovato una
persona così simpatica, gentile ed affabile come Lei! Un vero gentiluomo! Ed
anche, mi consenta, così affascinante con quella sua mano lesta a porgere alle
signore, con sguardo dolce, piatti di ravioli e raviolini…!»
La
signora Corinna la iniziò a guardare di traverso. Da sotto il tavolo,
improvvisamente, sferrò un calcio al marito.
«Ed
anche, caro professore me lo lasci dire, con introspezione psicologica da
esperto conquistatore!» proseguì la signora.
Corinna
strinse i pugni; e pizzicò sul sedere il professore. L’intenzione era quella di
spappolargli il gluteo.
«Lo
sa,» aggiunse la signora «ha scelto per me proprio il mio favorito, quello al
tritato di aragosta di Alghero, buon afrodisiaco! …. Mi ha cambiato l’umore e
oggi già mi sento diversa, più libera, più sciolta più sognante, più
desiderosa!» Parlava senza fermarsi un attimo, come un fiume in piena.
Infine,
mentre Corinna sferrava un secondo poderoso calcio al consorte, finalmente il
professor Passatempo riuscì a dire:
«Mi
spiace signora, mi spiace molto, …ha sbagliato professore!»
«Come?»
esclamò la sconosciuta «Mi ha detto che sedeva proprio a questo tavolo, il 101!»
Si
guardarono tutti; e volsero lo sguardo verso la sedia vuota che il professor
Solmar aveva occupato fino a poco prima.
SCENA
QUARTA
Elio
Spinzato, alias Ridolfo Solmar, si era dedicato sin da giovane agli studi di
economia.
Aveva
raccolto numerosi successi, pubblicando articoli e libri anche all’estero.
Infatti,
era stato chiamato come “visiting professor”, nelle università di
Cahul in Moldavia, di Jakoping in Svezia, di Issyk Kul in Kirghizistan, di Cuma
Popayan in Colombia. Aveva accettato gli inviti non solo per ragioni
scientifiche.
Era
internazionalmente conosciuto come Ridolfo Solmar, pseudonimo internazionale
che aveva scelto per le sue pubblicazioni e che, ormai, aveva sostituito il suo
reale nome anagrafico.
Oltre
all’economia, Solmar nutriva, però, un’altra grande passione. Una passione
costante, avvolgente, penetrante.
Era,
questa, una sua caratteristica esistenziale che ne condizionava l’esistenza.
In
sede di anamnesi clinica, quando gli chiedevano se soffrisse di qualche
patologia, lui con sicurezza rispondeva:
«Saltuariamente
emicrania; a volte cattiva digestione; una volta pityriasis capitis;
ultimamente un po’ di sciatica!»
«Una
sola veramente cronica!» precisava, subito dopo, con convinzione «La
femminomania!»
«Dottore,
non ne posso guarire!» aggiungeva, poi, con sguardo di evidente
soddisfazione mista ad impetrante compassione.
Inguaribile
seduttore, il professor Elio Spinzato, alias Ridolfo Solmar, pur investendo le
sue indubbie risorse dovunque, conservava una certa deontologia didattica: mai,
cioè, con le sue assistenti e le sue allieve!
A
volte, questa personale imposizione, gli costava non poca fatica.
Quando
accadeva che studentesse vagassero per i locali accademici con minigonne
mozzafiato e camicette spalancate, egli tirava un sospiro e levava gli occhi al
cielo per non cadere in tentazione.
Quando
accadeva che qualche giovane assistente, lodando la sua perspicacia
scientifica, si accostasse un po’ più del normale alla sua persona, egli si
ritraeva; ma con fatica.
Questa
sua deontologia didattica, tuttavia, non valeva per studentesse e assistenti
non sue. Cioè, quelle di altre facoltà.
Si
definiva, infatti, il “Livingstone” dei territori muliebri, terre non sempre
propriamente vergini, da esplorare.
In
tanti anni di devoto esercizio avrebbe potuto redigere un manuale sulle
tecniche di approccio.
All’inizio
aveva cercato di far sfoggio della sua cultura con passi di Einaudi; citazioni
di Adam Smith; Joseph Schumpeter; Piero Sraffa; Milton Friedman.
Gli
pareva che qualche pizzico di Galbraith e Keynes non guastassero; per far colpo
su quelle “impegnate” a sinistra, aveva letto e riletto per intero “il
Capitale”.
Ben
presto, però, si era reso conto, dinanzi all’afasia e a qualche sbadiglio delle
interlocutrici, che non riuscivano a nascondere immersioni nella noia, che
sarebbe stato meglio mutar registro.
E
si volse, allora, ai ravioli e raviolini.
Studiò
la tecnica dell’involucro succulento.
Si
informava di tutti i ricevimenti, pranzi ed eventi ove potessero essere offerti
al buffet ravioli e raviolini.
Là
recatosi, ponendosi sorridente al lato dei vassoi, appena si avvicinava una
donna, con gesto abile e mano felina, ne riempiva un piatto e decantandone
qualità e virtù, con grazia mascolina li offriva alla transitante.
Aveva
ormai sperimentato che la tecnica riusciva più delle declamazioni del pensiero
economico.
E
così operò anche quella sera, offrendoli alla corvina verde smeraldo, prima di
allontanarsi fugacemente e furtivamente, per raggiunger la cena delle
assistenti della Facoltà di Architettura che, aveva appurato, si stava
svolgendo in contemporanea con quella del suo convegno.
SCENA
QUINTA
Vi
giunse in ritardo, con passo affannato, trafelato e ansioso.
I
taxi l’avevano tradito.
Con
maturata esperienza, omprese ben subito che era cessato il tempo dei ravioli e
raviolini. Era già funzionante la tavola dei dolci.
Stava
escogitando di raccogliere piatti di torte e pasticcini, quando l’occhio cadde
su tre giovani assistenti.
Una
mostrava splendidi piedi lattei e paffutelli con unghie lievemente dorate in
sandali d’oro sotto una larga gonna nera con cinturone dorato; un’altra
esibiva, con una specie di hot-pants da sera, gambe vichinghe ben modellate,
alte e dritte, né spolpate né ridondanti; infine, la terza agitava un visino
vivace, munito di nei su carne rosea, ricoperto da una frangetta rossa, su un
abitino bianco plumetis, a micropois blumarine, scollato a mezze maniche alte.
Si
accostò, quindi, deciso, al tavolo dei dolciumi convinto che almeno un piatto
di questi sarebbe andato a segno.
Fu
preceduto dalla professoressa Cinzia Momentino.
Era,
diciamo, una collega. Aveva, più o meno, la sua stessa età. La conosceva dai
tempi del liceo.
La
professoressa Momentino usava intrattenere per ore le sue vittime con
l’asfissiante ritornello:
«Posso
un momentino?»
«Posso
un momentino, caro Celio?»
Fece
finta di non vederla; ma non riuscì ad evitare l’impatto.
E
lei, vestita di un abito marrone da saio della nonna, con gli orli delle
maniche e della gonna merlettati a plissè, lungo sino ai polpacci torniti e
muscolosi, iniziò un lungo monologo, fitto fitto, senza mai sputare un attimo o
almeno respirare un secondo, divagando sulle lotte di potere per il Rettorato,
sulle traversie per gli incarichi nella sua Facoltà, sulla decadenza del
costume accademico, sulla arroganza dei docenti giovani, sulla impreparazione
degli studenti, con comparazioni metastoriche ed approfondimenti teleologici,
nonché sul ginepraio di leggi, circolari, decreti e direttive, inoltrandosi
nella loro minuziosa descrizione.
Tutto
questo, mentre il professor Solmar, sconfortato e disperato, indispettito e
fremente, vedeva ormai le tre giovani assistenti davanti al tavolo dei dolci,
attorniate da colleghi della loro età.
Poco
dopo, mentre lui era ancora stretto nella morsa della Momentino, le tre giovani
assistenti uscirono ridendo e saltellando con i loro colleghi coetanei.
E
la Momentino, insistendo a più non posso:
«Cosa
temi? Mica si può finire la serata così?»
«Via,
non fare il musone!»
«Perché
sei triste?»
«Dai,
andiamo a prendere un drink da me!»
«Lo
sai» ammiccando «che a casa mia si beve anche un buon caffè tostato all’antica,
se ti va, se hai bevuto troppo.»
«Su,
su, vieni, non restare lì impalato, dai, non fare il musone!»
Tanto
disse, tanto fece che lui, un po’ ritraendosi, un po’ storcendo il naso, alla
fine si lasciò andare
Anche
perché, pensò, dopo l’uscita delle tre assistenti, l’alternativa infelice, sarebbe
stata, da celibe, solamente quella di andarsene a letto, accendere la
televisione, sentire le ultime puttanate sulla crisi economica ed addormentarsi.
La
Momentino aveva casa un po’ fuori città, in un vecchio villino, di due secoli
or sono, con le facciate unte e cadenti, circondate da smilzi alberi e da
cespugli di piante sfioriti, data la stagione calda in cui si trovavano.
Il
marmo dei gradini, che conducevano all’appartamento, era solcato da fessure di
vetustà e la porta, di legno, appariva scolorita e con la vernice scrostata.
Entrati, lei lo fece accomodare su un divano di stinta tappezzeria rosa antica
adornato da cuscini damascati impolverati.
Gli
offrì il rosolio di gelso rosso della bisnonna, che prodigiosamente ancora
curava una prozia.
«Scusami
un attimino,» disse poi «vado di là.»
Dopo
quasi una mezz’ora ritornò con una lunga vestaglia colorata da pappagalli
variopinti, al di sotto scorgendosi piedi nudi e calze di nylon color carne su
gambe non del tutto depilate e andò a sedersi accanto.
«Eccomi
qua!» disse accavallando le gambe che scostavano la vestaglia.
«Permetti
un momentino?» chiese lui confuso «Ho un’urgenza impellente.»
Si
recò in bagno.
La
finestra aperta dava sul giardino.
All’accendersi
della luce uno sciame di zanzare iniziò l’assedio, volteggiando intorno e
fiondandosi come kamikaze giapponesi appena la mano si avvicinò alla patta.
Quando
finalmente riuscì ad estrarlo, menando gran fendenti a destra e a manca e si
stava accingendo a soddisfare l’urgenza, una voluminosa ape andò a pungerlo
proprio lì.
Così
non poté terminare il rosolio di gelso rosso ed il di poi.
Quella
notte il professor Squinzato, alias Solmar, tra incubi di api giganti che lo
torturavano, sognò tre angiolette, che dal cielo sorridevano ammiccanti e gli
facevano ciao ciao con le manine.
Economisti e dintorni è un racconto di Alfredo Guarino
foto di pixabay
SCENA PRIMA
Nella
enorme e tradizionale sala convegni dell’Hotel Excelsus Il prof. Ridolfo Solmar
aveva terminato la sua prolusione.
Si
era alzato; e, mentre perduravano ancora gli applausi, a passo veloce aveva
guadagnato l’uscita.
Lui
aveva preteso che fossero invitati all’evento tutti i docenti; specialmente i
professori di prima e seconda fascia; gli assistenti; ed i corsisti delle discipline
giuridiche ed economiche, diritto dell’economia, scienze tributarie, diritto
commerciale, economia politica, finanza pubblica, teoria generale del mercato,
diritto bancario, scienza dell’investimento, storia monetaria, ecc.
Non
per niente il prof. Ridolfo Solmar era l’idolo del diritto economico.
Sistematicamente,
faceva precedere le sue relazioni ed i suoi libri da interviste televisive che
ne anticipavano i temi.
Anche
stavolta!
In
una conversazione, trasmessa da Telemaldonada, con Gilda Vamolìn, la più nota
scoopetara dell’Oltrepò, ne aveva anticipato alcuni tratti, sulla riduzione del
debito pubblico.
Ed
era stata preannunciata una weltanschauung economica radicalmente
rivoluzionaria.
L’attesa
non era stata vana.
Recandosi
lentamente verso il poggio del conferenziere, strascicando i piedi (sollendo
lievemente i talloni per far scivolare piano piano le piante sul parquet),
Solmar aveva risposto ai cenni di saluto che sussiegosamente provenivano
dall’uditorio, con lievi piegamenti delle labbra, elargiti a destra e a manca.
E,
preso nelle mani il microfono, aveva tracciato la parabola decadente della
finanza mondiale, la crisi irreversibile dell’economia occidentale (aveva
richiamato il Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler e il pensiero di Heidegger
e Jaspers per affermare il suo discorso come il noumeno nichilista del pensiero
economico), il tracollo delle borse, l’implosione del sistema economico, la
catastrofe del mondo civilizzato, per concludere che la via di uscita e
salvezza era nel ripristino del baratto, valori reali per valori reali.
A
tale tesi era pervenuto studiando il pensiero del noto economico sino-coreano
Tieng O’ Pak, che, rinchiuso 12 anni, con 24 scienziati, in impenetrabili
uffici sotterranei, aveva impiegato immensi cervelloni Samsung, per concludere
l’inevitabilità dello sfacelo planetario.
E
pare che, non potendo raggiungere l’Ararat, per sfuggire a feroci investitori e
banchieri, avesse trovato rifugio in una grotta tibetana.
Il
professor Solmar aveva riservato, però, mentre già molti professori si
avvilivano al pensiero di dover modificare libri e lezioni, la sorpresa finale,
la chiave per ridurre il debito pubblico e rispettare i parametri di
Maastricht: con il prelievo diretto delle merci dai produttori, in sostituzione
delle tasse, si sarebbero potuti dare ai dipendenti pubblici generi alimentari
e di abbigliamento, articoli per la casa e pezzi di ricambio, in sostituzione
degli stipendi.
Una
rivoluzione copernicana.
Il
convegno sugli Alti Studi dei Nuovi Sistemi Monetari, promosso dal Preside
della Facoltà di Economia, proseguiva nel grande salone delle feste dell’Hotel
Excelsus, dalle alte vetrate laterali, stile Tiffany, e dall’alta centrale
raffigurante un papavero stilizzato ornato di foglie attorniato alla base da
altri papaveri, in stile Liberty.
Qui
erano stati predisposti vari tavoli per i partecipanti rigidamente organizzati
con i nomi degli invitati.
Al
centro della smisurata sala, erano state imbandite portate di ogni sorta.
SCENA
SECONDA
I
tavoli erano ormai tutti occupati.
Erano
stati allestiti con tovaglie romance di lino broccato ecrù; servizi di Villeroy
Boch di ceramica royal dinner; bicchieri colorati di baccarat; e posate
d’argento Bucellati.
Al
professor Solmar era stato riservato il tavolo centrale, al quale erano invitati
altri famosi economisti:
il
professor Baldo degli Ubaldi, luminare del diritto mercantile del ventunesimo
secolo, esperto della lex mercatoria, con la moglie Giuseppina ed i suoi
pargoli alquanto sprovveduti, che a fatica aveva collocato in università minori
tra i docenti; Fidelio, divenuto professore di vaccologia tributaria, che aveva
pubblicato un’opera sulla resa, carne e latte, delle varie categorie di vacche,
studiando tutte le specie esistenti, per i calcoli presuntivi dei ricavi nel
diritto tributario; Sigismondo, specializzatosi nello studio del potere
d’acquisto dell’ouguiya mauritano nelle transazioni commerciali interafricane.
Erano
stati ammessi a quel tavolo di prestigio, anche l’assistente Igino Menticucci,
promettente ma di famiglia estranea all’ambiente, e la allieva prediletta di
Solmar, Ainna Malfatta, professoressa di seconda fascia che vanamente reiterava
domande concorsuali per accedere ai professori di prima fascia.
Poi
c’erano: il prof. Ermete Passatempo, docente di storia economica romana,
esperto sull’uso del sesterzio nell’emptio-venditio di ovini dell’Apulia; la
consorte di questi Corinna; Lucia Luce, esperta di macroeconomia planetaria,
che aveva compiuto studi anche di proiezioni prospettiche nel sistema solare; e
ancora Nostolfo Nero, specialista di microeconomia aziendale, che aveva
acquistato notorietà mostrando le variabili incidenti sulle curve reddituali
dei venditori ambulanti di interiora suine e bovine.
Sull’immenso
tavolo imbandito al centro del salone, si mostrava ogni ben di bene.
Tutti
i commensali, dopo il discorso del prof. Solmar, vi accorsero con frenesia
furiosa, quasi come fossero sulla tolda del Titanic consapevoli del prossimo
naufragio,
Il
Preside aveva predisposto, per il prof. Solmar, una cena faraonica, che doveva
restare memorabile (ambiva ad una sua segnalazione per la successiva tappa
della carriera accademica): gamberoni in salsa d’asparagi di Bassano; salmone
affumicato del Qeensland su coulis di fragole silvestri della Patagonia al
sentore di kumquat e zenzero; polpettine di tonno rosso di Carloforte all’aglio
rosso di Proceno e cappero di Salina.
Poi
tre grandi vassoi di fritti: quello di pesce, (alici, neonati ed alghe); quello
di verdure (zucchine, cavolfiori, polpettine di zucca e polpette di melenzane);
e quello di frittate (di maccheroni, di baccalà, di gamberi, di carne macinata
di agnello speziato, di patate e porri, di tocchetti di pomodoro, di mela
cannellata e di mela agli agrumi), con barbotta e arbadela della Lunigiana,
sciatt e chiscioi della Valtellina.
Iniziarono
quindi i primi: tonnarelli alla ricciola; paccheri al ragù di bufalo; risotto
ai quattro molluschi; strozzapreti al castrato di pecora; cannelloni alla
caciotta degli Elimi del Belice; tagliatelle alle ortich; testaroli alla crema
di borragine e barbe di prete; pizzoccheri con fagiolini; gnocchetti al pesto
di rucola e mandorle.
Ma
il top, quando Solmar si avvicinò alla grande tavola imbandita, giunse con
l’assortimento di ravioli e raviolini (al cinghiale, alla cernia, al castelmagno
e robiola, alla caciotta di Alcantara e Muffieno, al tritato di aragosta di
Alghero, al formaggio Furfante e di Agerola, alle punte di asparagi al lardo di
Colonnata, agli asparagi alla salsa di rafano, all’impasto di carciofi alla
menta, al paté di zucchini aglio e prezzemolo, ai porcini tartufati, al salmì
di capriolo).
Egli
vi si avvicinò, già pregustando profumi e sapori per la sua missione.
SCENA
TERZA
Il
professor Solmar non andò oltre quei primi.
Improvvisamente,
si alzò dal tavolo assegnatogli e, senza proferir parola, sparì.
Dopo
poco, si avvicinò allo stesso tavolo, sorridendo, una procace signora tendente
ai 50 con scollatura ad ampio balconcino, capelli neri corvini raccolti da un
nastro luccicante verde smeraldo, come il colore di lago alpino degli occhi,
indossante un abito corto verde smeraldo e munita di collana, bracciale ed
anello di serpentelli d’oro.
«Caro
professore,» disse sporgendosi con i suoi seni verso il viso del professor
Passatempo «posso dirle una cosa? Vado a molte cene ma mai ho trovato una
persona così simpatica, gentile ed affabile come Lei! Un vero gentiluomo! Ed
anche, mi consenta, così affascinante con quella sua mano lesta a porgere alle
signore, con sguardo dolce, piatti di ravioli e raviolini…!»
La
signora Corinna la iniziò a guardare di traverso. Da sotto il tavolo,
improvvisamente, sferrò un calcio al marito.
«Ed
anche, caro professore me lo lasci dire, con introspezione psicologica da
esperto conquistatore!» proseguì la signora.
Corinna
strinse i pugni; e pizzicò sul sedere il professore. L’intenzione era quella di
spappolargli il gluteo.
«Lo
sa,» aggiunse la signora «ha scelto per me proprio il mio favorito, quello al
tritato di aragosta di Alghero, buon afrodisiaco! …. Mi ha cambiato l’umore e
oggi già mi sento diversa, più libera, più sciolta più sognante, più
desiderosa!» Parlava senza fermarsi un attimo, come un fiume in piena.
Infine,
mentre Corinna sferrava un secondo poderoso calcio al consorte, finalmente il
professor Passatempo riuscì a dire:
«Mi
spiace signora, mi spiace molto, …ha sbagliato professore!»
«Come?»
esclamò la sconosciuta «Mi ha detto che sedeva proprio a questo tavolo, il 101!»
Si
guardarono tutti; e volsero lo sguardo verso la sedia vuota che il professor
Solmar aveva occupato fino a poco prima.
SCENA
QUARTA
Elio
Spinzato, alias Ridolfo Solmar, si era dedicato sin da giovane agli studi di
economia.
Aveva
raccolto numerosi successi, pubblicando articoli e libri anche all’estero.
Infatti,
era stato chiamato come “visiting professor”, nelle università di
Cahul in Moldavia, di Jakoping in Svezia, di Issyk Kul in Kirghizistan, di Cuma
Popayan in Colombia. Aveva accettato gli inviti non solo per ragioni
scientifiche.
Era
internazionalmente conosciuto come Ridolfo Solmar, pseudonimo internazionale
che aveva scelto per le sue pubblicazioni e che, ormai, aveva sostituito il suo
reale nome anagrafico.
Oltre
all’economia, Solmar nutriva, però, un’altra grande passione. Una passione
costante, avvolgente, penetrante.
Era,
questa, una sua caratteristica esistenziale che ne condizionava l’esistenza.
In
sede di anamnesi clinica, quando gli chiedevano se soffrisse di qualche
patologia, lui con sicurezza rispondeva:
«Saltuariamente
emicrania; a volte cattiva digestione; una volta pityriasis capitis;
ultimamente un po’ di sciatica!»
«Una
sola veramente cronica!» precisava, subito dopo, con convinzione «La
femminomania!»
«Dottore,
non ne posso guarire!» aggiungeva, poi, con sguardo di evidente
soddisfazione mista ad impetrante compassione.
Inguaribile
seduttore, il professor Elio Spinzato, alias Ridolfo Solmar, pur investendo le
sue indubbie risorse dovunque, conservava una certa deontologia didattica: mai,
cioè, con le sue assistenti e le sue allieve!
A
volte, questa personale imposizione, gli costava non poca fatica.
Quando
accadeva che studentesse vagassero per i locali accademici con minigonne
mozzafiato e camicette spalancate, egli tirava un sospiro e levava gli occhi al
cielo per non cadere in tentazione.
Quando
accadeva che qualche giovane assistente, lodando la sua perspicacia
scientifica, si accostasse un po’ più del normale alla sua persona, egli si
ritraeva; ma con fatica.
Questa
sua deontologia didattica, tuttavia, non valeva per studentesse e assistenti
non sue. Cioè, quelle di altre facoltà.
Si
definiva, infatti, il “Livingstone” dei territori muliebri, terre non sempre
propriamente vergini, da esplorare.
In
tanti anni di devoto esercizio avrebbe potuto redigere un manuale sulle
tecniche di approccio.
All’inizio
aveva cercato di far sfoggio della sua cultura con passi di Einaudi; citazioni
di Adam Smith; Joseph Schumpeter; Piero Sraffa; Milton Friedman.
Gli
pareva che qualche pizzico di Galbraith e Keynes non guastassero; per far colpo
su quelle “impegnate” a sinistra, aveva letto e riletto per intero “il
Capitale”.
Ben
presto, però, si era reso conto, dinanzi all’afasia e a qualche sbadiglio delle
interlocutrici, che non riuscivano a nascondere immersioni nella noia, che
sarebbe stato meglio mutar registro.
E
si volse, allora, ai ravioli e raviolini.
Studiò
la tecnica dell’involucro succulento.
Si
informava di tutti i ricevimenti, pranzi ed eventi ove potessero essere offerti
al buffet ravioli e raviolini.
Là
recatosi, ponendosi sorridente al lato dei vassoi, appena si avvicinava una
donna, con gesto abile e mano felina, ne riempiva un piatto e decantandone
qualità e virtù, con grazia mascolina li offriva alla transitante.
Aveva
ormai sperimentato che la tecnica riusciva più delle declamazioni del pensiero
economico.
E
così operò anche quella sera, offrendoli alla corvina verde smeraldo, prima di
allontanarsi fugacemente e furtivamente, per raggiunger la cena delle
assistenti della Facoltà di Architettura che, aveva appurato, si stava
svolgendo in contemporanea con quella del suo convegno.
SCENA
QUINTA
Vi
giunse in ritardo, con passo affannato, trafelato e ansioso.
I
taxi l’avevano tradito.
Con
maturata esperienza, omprese ben subito che era cessato il tempo dei ravioli e
raviolini. Era già funzionante la tavola dei dolci.
Stava
escogitando di raccogliere piatti di torte e pasticcini, quando l’occhio cadde
su tre giovani assistenti.
Una
mostrava splendidi piedi lattei e paffutelli con unghie lievemente dorate in
sandali d’oro sotto una larga gonna nera con cinturone dorato; un’altra
esibiva, con una specie di hot-pants da sera, gambe vichinghe ben modellate,
alte e dritte, né spolpate né ridondanti; infine, la terza agitava un visino
vivace, munito di nei su carne rosea, ricoperto da una frangetta rossa, su un
abitino bianco plumetis, a micropois blumarine, scollato a mezze maniche alte.
Si
accostò, quindi, deciso, al tavolo dei dolciumi convinto che almeno un piatto
di questi sarebbe andato a segno.
Fu
preceduto dalla professoressa Cinzia Momentino.
Era,
diciamo, una collega. Aveva, più o meno, la sua stessa età. La conosceva dai
tempi del liceo.
La
professoressa Momentino usava intrattenere per ore le sue vittime con
l’asfissiante ritornello:
«Posso
un momentino?»
«Posso
un momentino, caro Celio?»
Fece
finta di non vederla; ma non riuscì ad evitare l’impatto.
E
lei, vestita di un abito marrone da saio della nonna, con gli orli delle
maniche e della gonna merlettati a plissè, lungo sino ai polpacci torniti e
muscolosi, iniziò un lungo monologo, fitto fitto, senza mai sputare un attimo o
almeno respirare un secondo, divagando sulle lotte di potere per il Rettorato,
sulle traversie per gli incarichi nella sua Facoltà, sulla decadenza del
costume accademico, sulla arroganza dei docenti giovani, sulla impreparazione
degli studenti, con comparazioni metastoriche ed approfondimenti teleologici,
nonché sul ginepraio di leggi, circolari, decreti e direttive, inoltrandosi
nella loro minuziosa descrizione.
Tutto
questo, mentre il professor Solmar, sconfortato e disperato, indispettito e
fremente, vedeva ormai le tre giovani assistenti davanti al tavolo dei dolci,
attorniate da colleghi della loro età.
Poco
dopo, mentre lui era ancora stretto nella morsa della Momentino, le tre giovani
assistenti uscirono ridendo e saltellando con i loro colleghi coetanei.
E
la Momentino, insistendo a più non posso:
«Cosa
temi? Mica si può finire la serata così?»
«Via,
non fare il musone!»
«Perché
sei triste?»
«Dai,
andiamo a prendere un drink da me!»
«Lo
sai» ammiccando «che a casa mia si beve anche un buon caffè tostato all’antica,
se ti va, se hai bevuto troppo.»
«Su,
su, vieni, non restare lì impalato, dai, non fare il musone!»
Tanto
disse, tanto fece che lui, un po’ ritraendosi, un po’ storcendo il naso, alla
fine si lasciò andare
Anche
perché, pensò, dopo l’uscita delle tre assistenti, l’alternativa infelice, sarebbe
stata, da celibe, solamente quella di andarsene a letto, accendere la
televisione, sentire le ultime puttanate sulla crisi economica ed addormentarsi.
La
Momentino aveva casa un po’ fuori città, in un vecchio villino, di due secoli
or sono, con le facciate unte e cadenti, circondate da smilzi alberi e da
cespugli di piante sfioriti, data la stagione calda in cui si trovavano.
Il
marmo dei gradini, che conducevano all’appartamento, era solcato da fessure di
vetustà e la porta, di legno, appariva scolorita e con la vernice scrostata.
Entrati, lei lo fece accomodare su un divano di stinta tappezzeria rosa antica
adornato da cuscini damascati impolverati.
Gli
offrì il rosolio di gelso rosso della bisnonna, che prodigiosamente ancora
curava una prozia.
«Scusami
un attimino,» disse poi «vado di là.»
Dopo
quasi una mezz’ora ritornò con una lunga vestaglia colorata da pappagalli
variopinti, al di sotto scorgendosi piedi nudi e calze di nylon color carne su
gambe non del tutto depilate e andò a sedersi accanto.
«Eccomi
qua!» disse accavallando le gambe che scostavano la vestaglia.
«Permetti
un momentino?» chiese lui confuso «Ho un’urgenza impellente.»
Si
recò in bagno.
La
finestra aperta dava sul giardino.
All’accendersi
della luce uno sciame di zanzare iniziò l’assedio, volteggiando intorno e
fiondandosi come kamikaze giapponesi appena la mano si avvicinò alla patta.
Quando
finalmente riuscì ad estrarlo, menando gran fendenti a destra e a manca e si
stava accingendo a soddisfare l’urgenza, una voluminosa ape andò a pungerlo
proprio lì.
Così
non poté terminare il rosolio di gelso rosso ed il di poi.
Quella
notte il professor Squinzato, alias Solmar, tra incubi di api giganti che lo
torturavano, sognò tre angiolette, che dal cielo sorridevano ammiccanti e gli
facevano ciao ciao con le manine.
Economisti e dintorni è un racconto di Alfredo Guarino
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