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MATTEO GIOVANNI LORENZI
foto pixabay
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Quel mattino doveva essere come tutti
gli altri, tranquillo, sereno e con un risveglio scandito dalla consuetudine e
dalla routine.
In realtà iniziò con qualcosa di
decisamente inaspettato che ben presto si tramutò in angoscia.
Al suono della sveglia mi rigirai nel
letto e con gran terrore mi accorsi di non avere più un braccio.
«Oddio tesoro il mio braccio!» annaspai
fra le lenzuola.
Mia moglie che era già in piedi da
almeno mezz'ora, mi rispose dalla cucina «che cosa?»
«Non ho più il braccio! Il mio braccio
destro!» l'agitazione mi obbligava a frugare scompostamente fra le coperte con
l'unico braccio a disposizione.
Anita apparve poco dopo sulla soglia
della camera «hai cercato bene fra le lenzuola?» mi chiese con calma.
«Ma certo!» quasi urlai «non c'è!»
«Aspetta che ti aiuto» disse, e iniziò
a ispezionare il letto con la consueta meticolosità. «Sei sicuro che ce l'avevi
quando ti sei coricato?»
Nel frattempo, mi ero seduto sul bordo
del letto in preda alla disperazione «ma certo» le risposi «che discorsi».
D'istinto feci per mettermi la mano fra
i capelli ma lo stimolo nervoso rimase lì, bloccato nel mio moncherino destro.
Ci volle qualche altro secondo per
trasferire il comando dell'operazione al bracco sinistro.
Anita stava ancora cercando con quella
calma così ordinaria e composta da risultare quasi inquietante.
Quel comportamento mi metteva a disagio.
«Sei sicuro di non averlo lasciato da
qualche parte?» mi chiese mentre alzava i cuscini.
«Da qualche parte?» le risposi quasi in
malo modo «certo che no! Ma scusa non è che uno si stacca un braccio e lo
appoggia in giro, ti pare? Qui la questione è molto più grave» iniziai a
passeggiare nervosamente «fino a ieri avevo due braccia e stamattina ne ho solo
uno, guarda qua!» ansimai scostando il pigiama e mettendo a nudo il moncherino.
Lei diede una rapida occhiata e si
rimise a cercare guardando sotto il letto.
«È un moncherino perfettamente
cicatrizzato capisci? È liscio e levigato vedi?»
«Devi cercare di stare calmo tesoro»
disse alzando gli occhi verso di me.
«Ma non è plausibile!» sbottai con una
pedata al pavimento «non si perdono le parti del corpo dalla sera alla mattina,
senza incidenti, senza mutilazioni e.…e in tal caso avrei una medicazione, una
cicatrice, sarei in ospedale, ma porca miseria sono cose che devo spiegare?
Sono talmente ovvie! Capisci l'assurdità della situazione? E tu sei lì che
cerchi un braccio nello stesso modo in cui si cerca un calzino, ma ti rendi
conto? Come fai a non...» lei si avvicinò con fare amorevole e mi abbracciò.
La cinsi a mia volta ma di nuovo lo
stimolo nervoso dell'abbraccio si irradiò dalle mie spalle verso un'estremità
che non lo poteva più mettere in atto.
Lei mi sussurrò parole gentili e mi
accarezzò sulla testa, amavo quel suo modo di infondermi tranquillità anche nelle
situazioni più cupe.
Mi convinse a ragionare con più ordine
e ad agire con maggiore lucidità.
Occorrevano misure logiche e razionali
senza cedere al panico.
Avremmo cercato il braccio in tutta la
casa, lo avremmo cercato insieme, ma nel frattempo dovevo pensare anche a
prepararmi per andare al lavoro.
Mentre frugavo in salotto, nello
sgabuzzino, nel guardaroba avrei voluto far presente ancora l'assurdità di
quella circostanza.
Ma sul serio due persone integre e sane
di mente stanno cercando un pezzo di corpo umano in un appartamento?
E se lo trovassimo?
Sarà atrofizzato?
Sarà adagiato in una pozza di sangue?
Si potrà riattaccare?
E perché devo andare al lavoro?
Porca miseria non ho più il braccio! Il
lavoro dovrebbe essere l'ultimo dei pensieri! E perché Anita è così
dannatamente calma?
«Ma cosa stiamo facendo?» chiesi a mia
moglie fermandomi con lo sguardo smarrito «ma ti rendi conto? È del tutto
inverosimile, è al di là di ogni logica!»
«Vai a prepararti ora tesoro,
altrimenti farai tardi» mi disse con tranquillità.
Aveva spostato il divano e stava
guardando nello spazio che si era creato fra la spalliera e il muro «oggi poi è
lunedì, ci sarà un sacco di traffico sulle strade. Vai a prepararti che io
continuo a cercare.»
All'improvviso un moto di disperazione
mi colpì con una prepotenza impossibile da arginare.
Il traffico sulle strade, l'auto. Ma
come la guido l'auto senza il mio braccio?
Come le cambio le marce?
Per un attimo anche Anita sembrò essere
colpita da questo inaspettato imprevisto ma dopo pochi secondi di smarrimento
riprese subito il controllo, abile e pratica come sempre nel risolvere ogni
situazione «beh vorrà dire che andrai in bus, forza, vai a vestirti tesoro.»
Quel giorno tornai un'ora più tardi del
solito, il bus verso casa non aveva un orario molto agevole.
Anita era lì come ogni sera ad attendermi
e appena varcai la soglia di casa scoppiai a piangere come una fontana. Mi
abbracciò.
«Hai trovato il mio braccio?» chiesi
fra i singhiozzi sapendo che la risposta non poteva che essere negativa.
Lei non rispose, non ce n'era bisogno,
si limitò ad accarezzarmi e a darmi consolazione.
Le raccontai della mortificazione di
farsi aiutare a estrarre il portafoglio dal taschino sinistro della giacca «ero
sul bus e con il braccio sinistro dovevo reggermi, ma nello stesso tempo dovevo
prendere il portafoglio per pagare il biglietto» singhiozzai.
«Ti hanno aiutato no? Hai pagato, è
andato tutto bene, sei andato al lavoro e sei tornato» mi disse lei con voce
suadente.
«Dopo quell'umiliazione una signora si
è alzata e mi ha offerto il posto dei disabili» tirai su col naso.
«E tu hai accettato?»
«Certo che no!» risposi con un moto di
rabbia «non sono mica un disabile io!»
«Certo che no» disse lei infondendomi
il suo calore.
Volle sapere com'era andata in ufficio,
io feci un po' di resistenza ma poi mi convinse a parlare.
I colleghi erano rimasti increduli,
nessuno si aspettava di vedermi arrivare al lavoro senza un braccio. Ho passato
la mattina a sentirmi gli occhi addosso sulla manica floscia della giacca, le
dissi.
Ho evitato gran parte delle domande, mi
chiedevano quand'è che ho avuto l'incidente e da quanto tempo nascondo la mia
menomazione.
Ho cercato di spiegare che stamattina
mi sono ritrovato improvvisamente senza un braccio ma loro ribattevano che non
era assolutamente possibile, un incidente presume della convalescenza,
un'operazione chirurgica.
È quello che sostengo anch'io,
rispondevo loro sperando di trovare qualche spiegazione che mi era sfuggita.
Ma anziché ricevere aiuto mi sono preso
del bugiardo e dell'impostore, di uno che ha nascosto ai colleghi per chissà
quanto tempo il fatto di non avere un braccio. Alla fine, mi sono rinchiuso in
ufficio evitando ogni contatto, subendo gli sguardi di disapprovazione di chi
passava nelle mie vicinanze.
«Ora sei a casa tesoro» disse Anita «la
giornata è terminata, vieni a cena che altrimenti si fredda.
Dopo qualche minuto, mi acquietai,
forse fu lo sfogo, forse il calore casalingo, più probabilmente lo sfinimento.
Sopportai anche decentemente l'umiliazione di farmi tagliare la bistecca.
Dopo cena rimanemmo sul divano
guardando distrattamente la televisione e parlando poco. Andammo a letto molto
prima del solito.
Il mattino seguente il sole filtrava
dalle feritoie delle tapparelle, brillando di luce allegra, come a segnalare
con urgenza la sua presenza all'esterno.
Nella penombra della camera mi rivoltai
fra le lenzuola, in lotta fra realtà e dormiveglia. I rumori dalla cucina e
l'odore del caffè dipanarono le ultime coltri del sonno e una volta a pieno
contatto con la realtà, avvertii salire prepotentemente l'angoscia riguardo la
mia recente menomazione.
Non feci in tempo a riavvolgere il
nastro mentale della giornata precedente che una netta e nuova sensazione
fisica si fece strada in me.
Il braccio.
Il mio braccio destro.
Voltai di scatto lo sguardo e il mio
braccio destro era lì, al suo posto, come sempre, attaccato alla spalla.
Tastai con l'altra mano, lo strinsi, lo
mossi in alto e in basso, lo feci ruotare.
Il mio braccio! Avevo di nuovo due
braccia!
Balzai fuori dalle coperte e corsi in
cucina tenendo stretto il braccio con la mano sinistra quasi per paura di
perderlo un'altra volta.
Anita era lì, indaffarata a preparare
la colazione.
Al mio arrivo si fermò e si girò con
sguardo interrogativo.
«Il mio braccio Anita!» urlai eccitato
«ho di nuovo due braccia!» alzandole entrambe verso l'alto e gesticolando.
Corsi ad abbracciarla. Lei non parve
molto sorpresa, mantenne la stessa calma e serenità che aveva tenuto il giorno
precedente quando il braccio non c'era.
«È tutto a posto, quindi, sei più
tranquillo ora?» mi chiese con voce amorevole, ma io ero troppo confuso e
annebbiato per poter rispondere con lucidità.
Avevo di nuovo due braccia! Guardai
Anita inondandola con tutta la mia eccitazione ma lei era sempre la stessa, una
diga, un frangiflutti dove i miei eccessi emotivi andavano inevitabilmente a
dissolversi. Non capivo come riuscisse a mantenere quella calma, a tenere
sempre il giusto distacco emotivo anche di fronte a quegli incredibili e
inspiegabili accadimenti.
«Io proprio non capisco» balbettai
incredulo «ma come fai? È stata una cosa così inaudita, così insensata! Come
fai a non...a non essere...»
«Ora non ci pensare» mi disse
accarezzandomi di nuovo la nuca «è tutto a posto adesso, è stata solo una brutta
giornata.»
È stata solo una brutta giornataè un racconto di Matteo Giovanni Lorenzi
Quel mattino doveva essere come tutti
gli altri, tranquillo, sereno e con un risveglio scandito dalla consuetudine e
dalla routine.
In realtà iniziò con qualcosa di
decisamente inaspettato che ben presto si tramutò in angoscia.
Al suono della sveglia mi rigirai nel
letto e con gran terrore mi accorsi di non avere più un braccio.
«Oddio tesoro il mio braccio!» annaspai
fra le lenzuola.
Mia moglie che era già in piedi da
almeno mezz'ora, mi rispose dalla cucina «che cosa?»
«Non ho più il braccio! Il mio braccio
destro!» l'agitazione mi obbligava a frugare scompostamente fra le coperte con
l'unico braccio a disposizione.
Anita apparve poco dopo sulla soglia
della camera «hai cercato bene fra le lenzuola?» mi chiese con calma.
«Ma certo!» quasi urlai «non c'è!»
«Aspetta che ti aiuto» disse, e iniziò
a ispezionare il letto con la consueta meticolosità. «Sei sicuro che ce l'avevi
quando ti sei coricato?»
Nel frattempo, mi ero seduto sul bordo
del letto in preda alla disperazione «ma certo» le risposi «che discorsi».
D'istinto feci per mettermi la mano fra
i capelli ma lo stimolo nervoso rimase lì, bloccato nel mio moncherino destro.
Ci volle qualche altro secondo per
trasferire il comando dell'operazione al bracco sinistro.
Anita stava ancora cercando con quella
calma così ordinaria e composta da risultare quasi inquietante.
Quel comportamento mi metteva a disagio.
«Sei sicuro di non averlo lasciato da
qualche parte?» mi chiese mentre alzava i cuscini.
«Da qualche parte?» le risposi quasi in
malo modo «certo che no! Ma scusa non è che uno si stacca un braccio e lo
appoggia in giro, ti pare? Qui la questione è molto più grave» iniziai a
passeggiare nervosamente «fino a ieri avevo due braccia e stamattina ne ho solo
uno, guarda qua!» ansimai scostando il pigiama e mettendo a nudo il moncherino.
Lei diede una rapida occhiata e si
rimise a cercare guardando sotto il letto.
«È un moncherino perfettamente
cicatrizzato capisci? È liscio e levigato vedi?»
«Devi cercare di stare calmo tesoro»
disse alzando gli occhi verso di me.
«Ma non è plausibile!» sbottai con una
pedata al pavimento «non si perdono le parti del corpo dalla sera alla mattina,
senza incidenti, senza mutilazioni e.…e in tal caso avrei una medicazione, una
cicatrice, sarei in ospedale, ma porca miseria sono cose che devo spiegare?
Sono talmente ovvie! Capisci l'assurdità della situazione? E tu sei lì che
cerchi un braccio nello stesso modo in cui si cerca un calzino, ma ti rendi
conto? Come fai a non...» lei si avvicinò con fare amorevole e mi abbracciò.
La cinsi a mia volta ma di nuovo lo
stimolo nervoso dell'abbraccio si irradiò dalle mie spalle verso un'estremità
che non lo poteva più mettere in atto.
Lei mi sussurrò parole gentili e mi
accarezzò sulla testa, amavo quel suo modo di infondermi tranquillità anche nelle
situazioni più cupe.
Mi convinse a ragionare con più ordine
e ad agire con maggiore lucidità.
Occorrevano misure logiche e razionali
senza cedere al panico.
Avremmo cercato il braccio in tutta la
casa, lo avremmo cercato insieme, ma nel frattempo dovevo pensare anche a
prepararmi per andare al lavoro.
Mentre frugavo in salotto, nello
sgabuzzino, nel guardaroba avrei voluto far presente ancora l'assurdità di
quella circostanza.
Ma sul serio due persone integre e sane
di mente stanno cercando un pezzo di corpo umano in un appartamento?
E se lo trovassimo?
Sarà atrofizzato?
Sarà adagiato in una pozza di sangue?
Si potrà riattaccare?
E perché devo andare al lavoro?
Porca miseria non ho più il braccio! Il
lavoro dovrebbe essere l'ultimo dei pensieri! E perché Anita è così
dannatamente calma?
«Ma cosa stiamo facendo?» chiesi a mia
moglie fermandomi con lo sguardo smarrito «ma ti rendi conto? È del tutto
inverosimile, è al di là di ogni logica!»
«Vai a prepararti ora tesoro,
altrimenti farai tardi» mi disse con tranquillità.
Aveva spostato il divano e stava
guardando nello spazio che si era creato fra la spalliera e il muro «oggi poi è
lunedì, ci sarà un sacco di traffico sulle strade. Vai a prepararti che io
continuo a cercare.»
All'improvviso un moto di disperazione
mi colpì con una prepotenza impossibile da arginare.
Il traffico sulle strade, l'auto. Ma
come la guido l'auto senza il mio braccio?
Come le cambio le marce?
Per un attimo anche Anita sembrò essere
colpita da questo inaspettato imprevisto ma dopo pochi secondi di smarrimento
riprese subito il controllo, abile e pratica come sempre nel risolvere ogni
situazione «beh vorrà dire che andrai in bus, forza, vai a vestirti tesoro.»
Quel giorno tornai un'ora più tardi del
solito, il bus verso casa non aveva un orario molto agevole.
Anita era lì come ogni sera ad attendermi
e appena varcai la soglia di casa scoppiai a piangere come una fontana. Mi
abbracciò.
«Hai trovato il mio braccio?» chiesi
fra i singhiozzi sapendo che la risposta non poteva che essere negativa.
Lei non rispose, non ce n'era bisogno,
si limitò ad accarezzarmi e a darmi consolazione.
Le raccontai della mortificazione di
farsi aiutare a estrarre il portafoglio dal taschino sinistro della giacca «ero
sul bus e con il braccio sinistro dovevo reggermi, ma nello stesso tempo dovevo
prendere il portafoglio per pagare il biglietto» singhiozzai.
«Ti hanno aiutato no? Hai pagato, è
andato tutto bene, sei andato al lavoro e sei tornato» mi disse lei con voce
suadente.
«Dopo quell'umiliazione una signora si
è alzata e mi ha offerto il posto dei disabili» tirai su col naso.
«E tu hai accettato?»
«Certo che no!» risposi con un moto di
rabbia «non sono mica un disabile io!»
«Certo che no» disse lei infondendomi
il suo calore.
Volle sapere com'era andata in ufficio,
io feci un po' di resistenza ma poi mi convinse a parlare.
I colleghi erano rimasti increduli,
nessuno si aspettava di vedermi arrivare al lavoro senza un braccio. Ho passato
la mattina a sentirmi gli occhi addosso sulla manica floscia della giacca, le
dissi.
Ho evitato gran parte delle domande, mi
chiedevano quand'è che ho avuto l'incidente e da quanto tempo nascondo la mia
menomazione.
Ho cercato di spiegare che stamattina
mi sono ritrovato improvvisamente senza un braccio ma loro ribattevano che non
era assolutamente possibile, un incidente presume della convalescenza,
un'operazione chirurgica.
È quello che sostengo anch'io,
rispondevo loro sperando di trovare qualche spiegazione che mi era sfuggita.
Ma anziché ricevere aiuto mi sono preso
del bugiardo e dell'impostore, di uno che ha nascosto ai colleghi per chissà
quanto tempo il fatto di non avere un braccio. Alla fine, mi sono rinchiuso in
ufficio evitando ogni contatto, subendo gli sguardi di disapprovazione di chi
passava nelle mie vicinanze.
«Ora sei a casa tesoro» disse Anita «la
giornata è terminata, vieni a cena che altrimenti si fredda.
Dopo qualche minuto, mi acquietai,
forse fu lo sfogo, forse il calore casalingo, più probabilmente lo sfinimento.
Sopportai anche decentemente l'umiliazione di farmi tagliare la bistecca.
Dopo cena rimanemmo sul divano
guardando distrattamente la televisione e parlando poco. Andammo a letto molto
prima del solito.
Il mattino seguente il sole filtrava
dalle feritoie delle tapparelle, brillando di luce allegra, come a segnalare
con urgenza la sua presenza all'esterno.
Nella penombra della camera mi rivoltai
fra le lenzuola, in lotta fra realtà e dormiveglia. I rumori dalla cucina e
l'odore del caffè dipanarono le ultime coltri del sonno e una volta a pieno
contatto con la realtà, avvertii salire prepotentemente l'angoscia riguardo la
mia recente menomazione.
Non feci in tempo a riavvolgere il
nastro mentale della giornata precedente che una netta e nuova sensazione
fisica si fece strada in me.
Il braccio.
Il mio braccio destro.
Voltai di scatto lo sguardo e il mio
braccio destro era lì, al suo posto, come sempre, attaccato alla spalla.
Tastai con l'altra mano, lo strinsi, lo
mossi in alto e in basso, lo feci ruotare.
Il mio braccio! Avevo di nuovo due
braccia!
Balzai fuori dalle coperte e corsi in
cucina tenendo stretto il braccio con la mano sinistra quasi per paura di
perderlo un'altra volta.
Anita era lì, indaffarata a preparare
la colazione.
Al mio arrivo si fermò e si girò con
sguardo interrogativo.
«Il mio braccio Anita!» urlai eccitato
«ho di nuovo due braccia!» alzandole entrambe verso l'alto e gesticolando.
Corsi ad abbracciarla. Lei non parve
molto sorpresa, mantenne la stessa calma e serenità che aveva tenuto il giorno
precedente quando il braccio non c'era.
«È tutto a posto, quindi, sei più
tranquillo ora?» mi chiese con voce amorevole, ma io ero troppo confuso e
annebbiato per poter rispondere con lucidità.
Avevo di nuovo due braccia! Guardai
Anita inondandola con tutta la mia eccitazione ma lei era sempre la stessa, una
diga, un frangiflutti dove i miei eccessi emotivi andavano inevitabilmente a
dissolversi. Non capivo come riuscisse a mantenere quella calma, a tenere
sempre il giusto distacco emotivo anche di fronte a quegli incredibili e
inspiegabili accadimenti.
«Io proprio non capisco» balbettai
incredulo «ma come fai? È stata una cosa così inaudita, così insensata! Come
fai a non...a non essere...»
«Ora non ci pensare» mi disse
accarezzandomi di nuovo la nuca «è tutto a posto adesso, è stata solo una brutta
giornata.»
È stata solo una brutta giornata
è un racconto di Matteo Giovanni Lorenzi
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