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BOMBE SU MILANO
Milano - 19 marzo 1944
Mancavano venti minuti a mezzogiorno quando le sirene rovesciarono su Milano i sei ululati del preallarme. Era la prima volta che i bombardieri arrivavano di giorno. Si ripresentavano sulla città dopo una notte di incursioni che avevano tenuto tutti svegli, rintanati nei rifugi.
Milano - 19 marzo 1944
Mancavano venti minuti a mezzogiorno quando le sirene rovesciarono su Milano i sei ululati del preallarme. Era la prima volta che i bombardieri arrivavano di giorno. Si ripresentavano sulla città dopo una notte di incursioni che avevano tenuto tutti svegli, rintanati nei rifugi.
I milanesi interruppero quello che stavano facendo e, col sangue gelato
e l'intestino strizzato, si precipitarono a tirare le tende per oscurare le
finestre e a spegnere tutte le luci: riflessi condizionati ereditati dai
bombardamenti notturni. Spensero anche le cucine, a gas o a legna, su cui
avevano appena cominciato a cucinare il pranzo.
Rosetta, la portinaia, si affrettò a salire le scale e a bussare a tutte
le porte, nel caso qualcuno non avesse sentito il preallarme. Biascicava
preghiere mentre avvertiva a gran voce gli inquilini dell'incursione imminente:
«Ave Maria, gratia plena... Sciura Marta, gh'è l'allarme... che
la vegna subit giò, in del rifugio...Santa Maria, mater Dei... Sciura
Melegatti, adess i rivan anca ‘ndel dì, chissà 'ndua andarem a finì. I fioeu in
a scola?[1]»
Al terzo piano picchiò a lungo finché non sentì la voce impastata dal
sonno e squassata dalla tosse del prof. Carlo De Bernardi che diceva: «Grazie,
Rosetta, ma anche questa volta non scendo».
«Venite giù, per favore,
professore» lo implorò, in italiano per riguardo all’insegnante di lettere del
liceo, e col voi fascista per rispettare i voleri di suo marito, Mario, il
capo-fabbricato. Poi facendosi il segno della croce e continuando a biascicare
le sue giaculatorie proseguì ad accertarsi che gli inquilini degli altri piani
si preparassero a scendere. Era certa che al ritorno avrebbe sentito il
pianoforte del professore eseguire qualche sonata classica. Lui aveva sempre
fatto così, non scendeva nel rifugio e suonava il piano. Anche nel tremendo
bombardamento dell'agosto 1943. E la casa non aveva mai preso bombe.
Il preallarme era costituito da sei suoni di 15 secondi, intervallati da
silenzi della stessa lunghezza e durava complessivamente due minuti e
quarantacinque secondi. Tanto ci mise la Rosetta a fare il suo giro, poi prese
il fagottino con i soldi, le tessere annonarie, le cose preziose, un po' di
intimo di ricambio, un abito completo e un paio di scarpe di scorta – non si sa
mai – e aspettò che tutti gli inquilini sfilassero davanti alla portineria
diretti al rifugio, annotando mentalmente che non mancasse nessuno. Solo quando
passarono tutti, tranne il professor De Bernardi, scese anche lei al sicuro.
Mario era già là, a verificare che tutto fosse pronto ad accogliere gli
inquilini. Aveva sbloccato la porta che dava direttamente sulla strada per
permettere a eventuali passanti ritardatari di accedere al rifugio, aveva
acceso le luci, si era accertato che quelle di emergenza fossero pronte alla
bisogna, rifornite di acqua e di carburo. Azioni che aveva già effettuato nella
notte, ma che ripeteva, meccanicamente, perché così si doveva fare. Diede
un'ultima sistemata alle panche e alle sedie, si accertò che sul tavolo fossero
pronti le carte, i taccuini segnapunti e le matite per quelli che avrebbero
ammazzato il tempo giocando a scopa.
Il prof. Carlo De Bernardi udiva gli scalpiccii degli inquilini che
lasciavano frettolosamente i loro appartamenti. Quando transitavano sul suo
pianerottolo gli arrivavano frasi concitate che sorgevano dal nulla e
scomparivano subito nel nulla:
«E la busta degli ori? L’hai presa? … Il gas l'hai chiuso? … Proprio a
mezzogiorno? Chissà quando potremo mangiare, oggi … I bambini, Enrico, siamo
sicuri che a scuola non corrono rischi? Non è meglio andarli a prendere e…»
Dalla porta filtravano anche sospiri e singhiozzi, ma su tutto
prorompeva il pianto terrorizzato e ininterrotto del Peppe, due anni, del
quarto piano, che aveva cominciato a urlare assieme alla prima sirena del
piccolo allarme e che continuò fino a quando non lo inghiottì la tromba delle
scale che portava al sotterraneo. Il professore suonava. Aveva scelto i
notturni di Chopin per protestare a modo suo contro l'ora scelta dagli alleati
per bombardare.
Mezz'ora distava il preallarme dall'allarme vero e proprio, e in quella
mezz'ora nell'edificio si udirono solo le note di Chopin. Poi furono
soverchiate dall'ululato singhiozzante delle sirene del grande allarme, dai
latrati della contraerea, dal rombo dei motori e dagli scoppi delle prime bombe
sulla città.
Tanti. Erano tanti gli aerei nemici. Venivano da sud-est e le
esplosioni, cominciate a Rogoredo, si stavano avvicinando.
Il professore questa volta sentì il pericolo e fu subito sopraffatto dai
ricordi della Grande Guerra. Montello, battaglia del Solstizio: n
Il professore ricordava la sua fortuna: il tenente gli aveva
ordinato di sostituire una vedetta ferita ed era uscito dal rifugio appena
prima che un medio calibro colpisse in pieno l'entrata del fifhaus sigillandovi dentro il tenente e tutto il plotone. Si era
sentito invulnerabile.
Suonava Chopin in modo insolitamente drammatico e riviveva quei
momenti. Dalla sua postazione di vedetta aveva visto le divise grigie che
venivano avanti, correvano, strisciavano, si nascondevano nelle irregolarità
del terreno. Aveva urlato con quanto fiato aveva per chiamare il plotone, ma
nessuno era arrivato. Si era sentito Leonida alle Termopili, l'ultimo italiano,
solo, a difendere la patria dal barbaro invasore. Poi una mitragliatrice aveva
cominciato a falciare gli attaccanti, il fuoco di sbarramento aveva sollevato
fontane di sassi, e di pezzi di corpi. Una delle divise grigie aveva fatto un
balzo per scavalcare un reticolato ma un piede era rimasto impigliato. Era caduto
e si era contorto per liberarsi. Il fante Carlo De Bernardi, classe 1898, in
ritardo negli studi e quindi non ammesso alla scuola ufficiali, lo aveva
fulminato con un colpo solo. Il soldato semplice Carlo De Bernardi aveva
ricevuto un encomio solenne e il grado di caporale.
Anni dopo aveva cominciato a pensare all'austriaco ucciso: quando
insegnava la Grande Guerra ai maturandi, quando
Musil? Quella divisa grigia avrebbe potuto contenere Musil,
oppure il poeta ungherese Endre Adi, che avevano combattuto sul fronte
italiano. E quando spiegava La sagra di Santa Gorizia di Vittorio Locchi, un
promettente poeta che non era sopravvissuto a quella guerra, si domandava se quella
divisa non avesse celato un genio non ancora espresso, un Vittorio Locchi
austriaco che non sarebbe mai diventato poeta. Alla fine il prof. Carlo De
Bernardi aveva allontanato il mondo da sé, chiudendosi in un salotto colmo di
erudizione. Riservava i suoi sentimenti solo ai suoi allievi.
Il sesto senso del pericolo però gli era rimasto. Mentre il
rombo degli aerei, i singhiozzi della contraerea e le esplosioni delle bombe si
avvicinavano, Carlo si sentì improvvisamente allo scoperto, unico vivente nella
città, sotto un tetto divenuto improvvisamente trasparente, nel mirino di
centinaia di aerei che lo coprivano con la loro ombra prima di seppellirlo con
le loro bombe, impotente come lo era stato quell'austriaco venticinque anni
prima. Smise di colpo di suonare, buttò in uno zaino, alla rinfusa, quel che
gli sarebbe potuto servire, qualche indumento, il necessaire da bagno, il
portafoglio. E dei libri, parecchi libri. All'ultimo momento si ricordò della
copia del manoscritto occitano che gli aveva mandato il prof. Leclerc di
Avignone e se lo ficcò in tasca assieme al quaderno su cui scriveva la
traduzione. Si mise sottobraccio il Manuale dei Dialetti Occitani e si
precipitò giù per le scale senza nemmeno chiudere la porta di casa.
Non era mai stato nel rifugio. Vide che tutti si erano voltati
verso l'entrata e lo fissavano. Erano seduti su lunghe file di panche, accanto
a borse e piccole valigie. Alcune donne tenevano il rosario in mano e avevano
interrotto le avemarie al suo arrivo. In un angolo c'era un tavolo con quattro
giocatori, uno dei quali si era bloccato nel gesto di calare una carta. Tutti
lo fissavano. Il Capo-fabbricato si alzò dal suo scranno:
«Che piacere avervi fra noi, Professore, accomodatevi dove
volete».
E fece un gesto circolare come fosse un anfitrione che riceveva
un ospite. Il professore vide che qualche uomo si toccava l'intimo. Lo mandò
mentalmente a quel paese. La Rosetta, del gruppo del rosario, si scostò un poco
per fargli posto.
«Sedetevi qui. Volete dire il rosario con noi?»
Carlo de Bernardi scosse la testa e si sistemò altrove.
Il vuoto del locale trasformava in onde sonore le vibrazioni
delle esplosioni e un sommesso rumore sordo, continuo, pervadeva l’ambiente.
Nessuno ci faceva caso, c’erano abituati, e piano piano ripresero le attività
che avevano interrotto: la partita a carte, il rosario, la lettura di un libro,
una conversazione sottovoce. Anche il professore se ne estraniò. In fondo era
come essere nei rifugi del Montello, stesso rischio, ma senza l’assillo di
uscirne fuori per respingere un attacco. Inforcò gli occhiali, aprì il manuale
di occitano, se lo sistemò sulle ginocchia, vi pose sopra il manoscritto e il
quaderno. Traduceva e immaginava le scene descritte.
[1] “…Signora Marta, c’è l’allarma… che venga giù subito
nel rifugio… Signora Melegatti, adesso arrivano anche di giorno, chissà dove
andremo a finire. I ragazzi sono a scuola?”
Ammazzateli tutti è un racconto di Giuseppe De Micheli
Bravo Giuseppe! Bella storia... Bella nel senso che è narrata bene.
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